Lo spopolamento delle aree interne e il modello Riace
I luoghi abbandonati e quelli dell'accoglienza: il laboratorio di Mimmo Lucano indica l'importanza di coniugare il "diritto a migrare" con quello "a restare"
Le aree montane e rurali sono tutte uniche e si somigliano al tempo stesso: paesaggi splendidi, gente vera e onesta, abitanti spesso considerati chiusi da chi vive in città ma amanti del buon vivere e dello stare insieme. Sono luoghi accomunati da un comune avverbio: lontano.Qui tutto è lontano: il traffico, i servizi commerciali, i trasporti pubblici, le attività culturali, i lavori ben retribuiti, le notizie da prima pagina, le attenzioni di chi governa. Sono le “aree interne” del paese, e presentano caratteristiche simili: tasso d’invecchiamento superiore alla già alta media italiana, reddito pro capite basso, dipendenza dai settori a basso valore aggiunto, sistemica fragilità sismica e idrogeologica. Infine, e questo fattore forse sintetizza tutti quelli precedenti, sono caratterizzate da uno spopolamento lento e inesorabile.
Lo spopolamento e il declino delle aree remote e montane italiane non è una questione nuova. Nell’Italia liberale, fascista e repubblicana la questione è sempre emersa, con forme e nomi diversi ma con sostanza simile. Un declino iniziato nell’Ottocento, già prima dell’Unità, quando gli stati italiani si industrializzavano e nei villaggi remoti spariva a poco a poco il lavoro di ultima istanza, quello nei campi o nelle piccole industrie.
Oggi, con l’esasperazione economico-geografica del modello centro-periferia nell’occidente, dove ogni territorio eccetto le città globali (Londra, Parigi, Milano) subisce il declino, i territori già in crisi vanno rapidamente verso morte certa. Un destino acuito anche dalle grandi opere infrastrutturali dello stato unitario che, per costi di realizzazione o per mera attrattiva politica e produttiva, sono state antistoriche. Questo tema non è facile. Per quanto più di un quarto dei residenti in Italia viva in queste aree remote, la questione oscilla tra disinteresse politico diffuso e soluzioni tampone e non sistemiche.
Anzi, spesso si usano eventi esterni per accelerare questi processi storici di spopolamento e rendere queste zone ad uso e consumo delle classi più agiate. Come nel caso del terremoto del Centro Italia del 2016, dove le politiche di “rinascita” hanno portato ad accelerare lo spopolamento dei villaggi e ad incentivare un turismo chic e di nicchia, bello da fuori ma capace di generare pochissimi posti di lavoro e alti redditi per chi era già proprietario. Il caso è chiaramente esposto nell’inchiesta militante “Sul Fronte del Sisma” del collettivo Emidio di Treviri.
Non tutti i territori si arrendono allo spopolamento più o meno forzato. Tra le soluzioni nate dal basso, spesso andando contro le narrazioni politiche ed economiche mainstream, spicca il caso di Riace, il comune che si trova al nord della provincia di Reggio Calabria sulla costa ionica, e del modello di accoglienza messo in atto anni fa dal suo sindaco Domenico “Mimmo” Lucano. Questo modello coniuga accoglienza dei rifugiati nelle case sfitte, rilancio delle botteghe artigiane e moneta complementare, nato dai primi sbarchi di curdi nel 1998 ed ampliato nei vent’anni successivi, creando una insperata alleanza tra emigrati al nord Italia, immigrati stranieri e popolazione restante. Parlare di modelli è sempre difficile, ogni territorio ha le sue peculiarità e non è sempre facile replicare in altri contesti. Il caso Riace si è rivelato vincente e, forse anche per questo, bersaglio di critiche e attacchi, culminati nell’ottobre 2018 con l’arresto e poi l’”esilio” del sindaco Lucano.
Da una parte politica all’altra, si è parlato molto di questi eventi come principalmente legati alla questione migratoria (se non proprio razziale e razzista) e molto meno di come si inquadrassero in un contesto di abbandono e spopolamento, senza realizzare come queste due tematiche siano strettamente connesse tra loro.
Una storia verticale
Per poter parlare di declino, è importante analizzare il suo opposto, l’ascesa. L’ascesa delle aree montane nostrane. Partiamo quindi da un assunto abbastanza infantile, per riconnettere economia, storia e geografia: l’Italia è una penisola stretta e lunga, nel mezzo di un mare chiuso e ricco da millenni. La ricchezza degli ultimi mille anni italiani si è sviluppata su un asse nord-sud passante per gli Appennini. La via della transumanza, la via Francigena, le vie Romee o anche strade più antiche come la via Appia, hanno rappresentato il passaggio più usato per i commerci, pellegrinaggi e ogni tipo di trasporto dall’Alto Medioevo in poi. Viaggiare per mare era insicuro per via dei possibili naufragi o dei pirati, a meno di pagare profumatissimi passaggi tramite le nascenti Repubbliche Marinare. Viaggiare in pianura rendeva i viandanti preda di briganti e malattie (pensiamo alla malaria). Il modo più sicuro in assoluto per passare dal nord Europa alla sponda sud del Mediterraneo per eserciti, pellegrini e piccoli mercanti erano i tracciati tra le valli degli Appennini, dove i signorotti locali o i liberi comuni garantivano accoglienza e rifornimenti, spesso a fronte di una piccola tassa di passaggio. Questi flussi crescenti di persone hanno portato al fiorire dell’urbanizzazione del centro-sud Italia, dove ogni città si specializzava per fornire ai viandanti un bene specifico.
Questa relativa abbondanza permise anche ai centri più piccoli di sopravvivere e crescere, pur vivendo di agricoltura e pastorizia. A differenza di molte aree del mondo, i territori e le città dell’Italia medievale e rinascimentale hanno saputo creare la propria prosperità dallo sfruttamento delle zone montane e collinari.
Col passare dei secoli, l’economia occidentale prese altre strade e queste valli videro ridursi a poco a poco il viavai di gente. I borghi montani iniziarono a impoverirsi, gli stati italiani se ne curarono sempre meno. Arrivarono le rivoluzioni industriali e lo stato unitario, lo sviluppo tecnologico virò verso un’economia di trasporti “da pianura e oceano”, grazie alle invenzioni della ferrovia, delle navi a motore e delle celle frigorifere (che permettono la lunga conservazione, anche transoceanica, del cibo). L’economia di montagna divenne sempre più marginale e ogni sviluppo commerciale si accentrò nel pianeggiante nord Italia o verso le coste.
Ad accompagnare questi cambiamenti tecnologici, esterni alle volontà dei governanti italiani, venne anche una strategia dei governi abbastanza miope verso i bisogni delle popolazioni montane. Complice un comprensibile problema di costi, la rete infrastrutturale dell’Italia unitaria si sviluppò per decenni seguendo un asse nord-sud solo sul mare e cercando di tagliare gli Appennini nella minor distanza possibile. Una strategia in assoluto contrasto con la storia precedente, che vede i territori montani strettamente legati tra loro. Un caso fra tutti, l’ammodernamento della via Salaria: iniziato con il fascismo e terminato negli anni 1960, il nuovo tracciato della Salaria è una strada di grande scorrimento che collega Roma prima con Rieti, poi con Ascoli poi con San Benedetto del Tronto. È innegabile la disparità tra questi due estremi della Salaria, il più orientale dei quali è abbastanza poco chiaro da definire, al punto che molti esperti del settore la giudicano una strada che parte da Roma e finisce nel nulla.
Queste strategie di avvicinamento del sud al nord e delle montagne alla costa o alle grandi città, seppur lodevoli in teoria, hanno rappresentato nella pratica dei cosiddetti “scivoli” per permettere alla famiglie di poter a poco a poco lasciare le proprie terre e trasferirsi in aree più redditizie senza remore. Prima come pendolari, poi come lavoratori temporanei e infine abbandonando definitivamente le proprie zone d’origine.
Le aree interne in Italia oggi
Ora, questa storia può risultare drammatica per alcuni lettori e assolutamente indifferente per altri. La storia cambia, l’economia gira, gli esseri umani si spostano, per quale motivo dovremmo occuparci di aree disabitate? Che si spopolino pure, le città si ingrosseranno, più gente vivrà al mare. Anzi, uno stato saggio dovrebbe accelerare questi processi, portando i lavoratori laddove si possa creare più reddito.
Contro questa tesi liberale ottocentesca (e anche un po’ nichilista) vengono in soccorso due motivazioni, una di legittimità e una di carattere strumentale.
La prima è una semplice questione di diritti: è importante credere che ogni territorio debba sopravvivere (non spopolarsi) con la stessa dignità di ogni altro. Compito delle istituzioni è garantire la libertà di abitare in condizioni dignitose in ogni luogo. Su scala globale è un concetto molto usato, è la cosiddetta “libertà di restare”, diritto di pari dignità e forza alla “libertà di migrare”. Ogni essere umano ha parimenti il diritto di potersi installare dove vuole come di non dover essere (anche implicitamente) deportato in altri luoghi. Principio che sta trovando la sua forza nello slogan, crescente in America Latina, del “non lasciare nessun territorio indietro”.
La seconda tesi riguarda più da vicino il caso italiano, abbandonare alcuni territori potrebbe essere dannoso anche per i territori circostanti. Senza entrare in lunghe analisi sulle opportunità economiche, è sufficiente aprire una qualsiasi notizia di giornale riguardante il dissesto idrogeologico delle nostre terre. È vero, i cambiamenti climatici globali giocano un grande ruolo nell’aumentare o diminuire enormemente la portata delle piogge. È però altrettanto vero che il lento ma inesorabile spopolamento delle aree interne italiane sta lasciando all’incuria milioni di ettari. L’Italia è abitata e coltivata in ogni sua porzione da migliaia di anni, gli umani ne hanno profondamente cambiato la morfologia e solo ora sta subendo l’abbandono di enormi porzioni di terreno. O il passaggio ad agricoltura intensiva meccanizzata, che per certi versi può essere anche peggiore, come nei terrazzamenti liguri, storicamente a secco (quindi armoniosi con l’ambiente) ora in buona parte impermeabilizzati e incubatori di frane e smottamenti.
Ad oggi, quindi, c’è un rilevante consenso tra tecnici e accademici nel considerare l’agricoltura ad alta intensità di lavoro come la migliore difesa dai dissesti idrogeologici. Questo assunto facile a dirsi, però, spesso si traduce nello sfruttamento a salari da fame sotto caporalato, come accade nelle nostre campagne. È essenziale sempre affermare come i diritti della terra e quelli della persona non debbano andare in contraddizione.
Nel 2012, il ministero per la coesione territoriale ha provato a creare un ordinamento politico per i territori montani e remoti, la Strategia Nazionale delle Aree Interne (Snai). Implementando un quadro teorico in voga per definire le disuguaglianze territoriali la Strategia definisce come “area interna” ogni centro abitato sito ad almeno 30 minuti (in automobile privata!) da un polo di erogazione di servizi essenziali secondari, come ospedali, scuole superiori, sportelli bancari, teatri, etc.
In Italia le “aree interne” rappresentano il 53% circa dei Comuni italiani (4.261), ospitano il 23% della popolazione italiana, pari a oltre 13,54 milioni di abitanti, e occupano una porzione del territorio che supera il 60% della superficie nazionale. Una fetta di Italia non secondaria che, finora, ha avuto come principale erogatore di sussidi i (pochi) fondi della Politica Agricola Comune. Anche la Snai, però, parte dall’assunto della scarsità di fondi: appena 280 milioni di euro per il periodo 2014-2020 negli oltre 1000 comuni (2,1 milioni di abitanti) delle aree progetto iniziali, implementabili con altri fondi coesione. Lo scopo principale della strategia è il creare camere di confronto tra i diversi livelli istituzionali dove anche i comitati dei cittadini possano lavorare assieme per trovare soluzioni di sviluppo per le zone interessate, è l’approccio “basato sui luoghi” (place based approach). Un approccio sulla carta estremamente democratico ma che, se non propriamente coordinato, porta con sé il rischio di un’interruzione totale dei lavori se le parti in gioco non cooperano.
Al netto di poche aree progetto già particolarmente fortunate dal punto di vista turistico, il copione degli incontri focus group Snai è simile: qualche sindaco chiede un regime fiscale favorevole, i livelli più alti rispondono che la Strategia non può promettere giochi a somma zero (dove qualche territorio vince e qualcuno perde, come nei casi dei bonus fiscali). Allora esce fuori il tema “nostalgico” della grande fabbrica e i giochi si fanno più interessanti. Interessante è soprattutto il fatto come questa suggestione venga subito respinta da più o meno tutte le parti. Ciò che un tempo era il primo motore della crescita, l’industria e le infrastrutture, oggi ha perso nelle aree rurali molto del suo fascino. Qui sanno tutti bene che una fabbrica di scarpe a Fiamignano attrae un numero limitato di lavoratori da fuori e questi si trasferiranno direttamente a Rieti, il capoluogo. Le famiglie vivranno in città e il genitore operaio in fabbrica pendolerà per un po’. La grande industria non aiuterà a riaprire le scuole del paesino.
Le scuole elementari, il parametro primario di ogni amministratore di piccoli comuni, il villaggio è vivo e sano quando le scuole sono piene. È questo un punto quasi tautologico ma di non facile soluzione. Una città è popolata quando la sua comunità è viva, una comunità è viva quando ha gente giovane e con voglia (e possibilità materiale) di restare. Un po’ sempre in sottofondo, tra gli attori delle aree interne esce sempre il tema di cui si parla e non si parla, che un po’ fa paura ma che spesso ha portato alla salvezza decine di piccoli paesi: l’attrarre immigrati stranieri.
Venti di speranza
In tutta la penisola, negli ultimi anni, numerosi paesi hanno ritrovato vita grazie all’immigrazione straniera, spesso proprio la tanto temuta di origine africana. Come è il caso di Soriso, in provincia di Novara, che ha riaperto la scuola elementare dopo dieci anni grazie alla comunità nigeriana.
Alcuni di questi casi sono semplici gestioni di flussi spontanei, altri sono proprio pianificati. Nei piccoli comuni dove le amministrazioni hanno deciso di attrarre immigrati per non morire, da lì si può imparare qualcosa. In economia e in politica, usare la parola modello è sempre rischioso. Il secolo scorso è stato all’insegna delle “Teorie Generali”, ogni singolo caso virtuoso era sempre perfettamente riproducibile altrove. In caso di fallimento, la colpa era sempre degli applicanti, non all’altezza, pigri o sabotatori, mai che l’errore fosse nella teoria. Allo stesso modo, pensare che ogni caso sia bastante a sé stesso e possa trovare la propria strada senza il confronto è ugualmente rischioso.
In prima fila nella lista dei casi virtuosi c’è senza dubbio il comune di Riace. Dal primo arrivo dei curdi nel 1998, passando per la prima elezione a sindaco di Domenico Lucano nel 2004 a oggi, la città ha costruito un vero e proprio sistema di accoglienza e pianificazione economica per l’integrazione dei rifugiati e il rilancio dell’economia. Tutto è partito con il piano di ristrutturazione delle case abbandonate dagli emigrati con fondi pubblici e affitto a canone simbolico (un euro al giorno) per i rifugiati. Poi i primi rifugiati se ne andarono e iniziarono ad arrivare i migranti spontanei. Da lì, principalmente grazie al buon utilizzo dei fondi Sprar, la città promosse tanti esperimenti, tutti di successo: la raccolta differenziata con gli asini, l’indipendenza idrica con l’apertura di nuovi pozzi, la moneta alternativa (un sistema di bonus cartacei da stornare all’arrivo dei fondi Sprar) e, soprattutto, un’eccellente capacità di fare rete con i comuni della Locride e con realtà simili in giro per l’Italia e per l’Europa. Si arrivò ad avere nel 2015 ben il 17% di popolazione straniera su un paesino di appena 2400 abitanti. La cosiddetta “Dorsale dell’Ospitalità”, che va dal comune di Badolato a Riace ha rappresentato un caso di ottima gestione del sistema Sprar, attenta ai bisogni degli ospiti e dei nativi, utilizzando gli eccessi di fondi unicamente in investimenti per aprire attività artigiane e gastronomiche locali. Dove in molti altri territori le mafie locali e la malapolitica hanno creato solo tensioni e grandi abbuffate, come nel triste caso di Mafia Capitale («Si fan molti più soldi con gli immigrati che con la droga» è la famosa sentenza pronunciata da Salvatore Buzzi e trascritta in un’intercettazione telefonica).
Il sistema Riace, però, funziona: ha fermato lo spopolamento, riuscendo in soli quindici anni a tornare ai livelli di popolazione degli anni 1920, circa 2500 abitanti, dopo il minimo raggiunto negli anni Novanta di soli 1600 residenti. Non solo, nello stesso arco di tempo il reddito medio dei suoi abitanti è cresciuto del 40%.
Per molti il modello funziona troppo bene, per questo è sotto attacco dal 2016. Attacco culminato con l’arresto di Mimmo Lucano il 2 ottobre 2018, il suo immediato rilascio e la soluzione tampone di un suo “esilio” da Riace. Le principali accuse al modello riguardano le modalità di utilizzo del denaro pubblico (accuse di tipo giuridico) e la quantità di fondi necessari al sostentamento del progetto (accuse di tipo economico). Questo porta alla principale critica sulla riproducibilità del modello, che necessiterebbe di immensi fondi statali se applicato in tutta Italia. Critica velleitaria e miope, poiché riduce i fenomeni migratori alla mera gestione dei rifugiati (che son percentuale minima) e ignora gli effetti moltiplicativi e benefici di un’economia stabile e comunitaria.
Far tesoro non basta
Il caso Riace, virtuoso e straordinario, presenta ampi margini di imitabilità. Va difeso e propugnato. Non a caso, anche dopo l’allontanamento del sindaco Lucano e il totale ridimensionamento del progetto Sprar, Riace esiste e resiste. Dopo un primo momento di abbandono, le associazioni sono tornate a lottare e a difendere l’esperienza di accoglienza e rinascita del piccolo borgo. Molte altre pagine di Storia usciranno dal piccolo paese di Calabria ma è compito di tutti non renderlo solo un bel racconto isolato.
Una applicazione intelligente del modello può salvare molti territori ma potrebbe non bastare. Le montagne non son più abituate a esser terra di passaggio, il senso di lontananza ha chiuso molte comunità che non possono vedersi imporre dall’alto improvvisi stravolgimenti. Allo stesso tempo, non si può solo far affidamento a un processo temporaneo ma comunque di deportazione coatta, come è lo smistamento dei rifugiati.
La battaglia principale è quella culturale. Il mantra del migrante come buono per l’economia perché viene a fare lavori “che non vogliamo più fare” (tradotto: è più determinato e accetta salari minori) può far gola a qualche ingordo imprenditore ma spaventa tutti gli altri.
Le economie dell’umanità hanno tratti comuni quando sono cooperative. Il lavoro condiviso e la ridistribuzione degli utili all’interno della piccola comunità è un modo di fare che appartiene, con le sue varie forme, alla maggior parte delle culture del mondo, compresa la nostra. La sfrenata ricerca del profitto, il mettere il lavoratore l’uno contro l’altro e il perpetuo sfruttamento dell’umano e dell’ambiente sono tratti isolati nel tempo e nello spazio, che han prodotto solo danni e che ora stanno distruggendo il pianeta.
Se davvero crediamo nell’accoglienza dell’altro, nella sopravvivenza della campagna alla città, nell’uguaglianza delle persone e dei territori sfruttati, dobbiamo pretendere e proporre modelli economici adatti ai tempi dell’umanità, fuori dalla frenesia del profitto. Così facendo, sarà più facile ripopolare la montagna e accogliere senza paura chi viene da fuori.
*Giulio Breglia è dottorando di ricerca in scienze regionali al Gran Sasso Science Institute, L’Aquila. Si occupa di analisi economica dei disastri socio-naturali e delle trasformazioni urbane e rurali.
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