Lo stallo catalano
Nonostante le diverse forze di sinistra abbiano ottenuto la maggioranza dei seggi, la quinta elezione in dieci anni in Catalogna restituisce un quadro ancora bloccato con i soggetti indipendentisti in lotta tra loro
Sono successe diverse cose importanti nelle elezioni catalane del 14 febbraio. Vi è stato un sommovimento di notevoli dimensioni: ingenti spostamenti di voti, ascese improvvise, crolli rovinosi e diverse prime volte. Quella del Partito Socialista (Psc), per la prima volta vincitore in voti e seggi dopo aver rischiato di essere relegato alla marginalità. Quella di Esquerra Republicana (Erc), finalmente davanti al rivale nazional-conservatore Junts per Catalunya (la nuova formazione di taglio liberale dell’ex presidente Carles Puigdemont, esiliato e parlamentare europeo) e a pochi passi dall’agognata presidenza. E ancora, la prima volta dell’indipendentismo al di sopra del 50% di voti e quella degli eredi del partito che ha quasi sempre governato la Catalogna dal 1980, Junts, relegati in terza posizione; la prima volta della sinistra anticapitalista e indipendentista della Cup davanti all’articolazione locale di Podemos (En Comú Podem), e anche la prima inquietante volta dei neofascisti di Vox nel Parlamento catalano, che mai avevano superato il Partito popolare in un’elezione regionale.
Cambiamenti importanti, insomma, che tuttavia non hanno provocato eccessive manifestazioni di entusiasmo o disperazione, forse anche per la notevole astensione. C’è molta incertezza, i cambiamenti potrebbero essere minimi, giusto la sostituzione del partito del Presidente della Generalitat, ma chi ha perso (in particolare Junts) si prepara per la prossima battaglia. L’impressione è che la partita per la costruzione di un Governo che duri una legislatura sia in salita e che in poco tempo i cittadini potrebbero essere chiamati a votare di nuovo, in una regione che ha votato per il rinnovo del suo Parlamento già cinque volte in dieci anni.
Indipendentisti vs Socialisti
Dopo la condanna per disobbedienza del Presidente della Generalitat Quim Torra, le elezioni sono state convocate per l’ennesima volta in anticipo, in una battaglia con differenti fronti. A quello che vedeva contrapposti Junts e Erc, che dal 2012 governano assieme, si è affiancato di colpo quello tra questi e un redivivo Psc, lanciato in orbita dopo anni di declino dalla candidatura del Ministro della Sanità spagnolo, Salvador Illa. Pur essendo uno dei paesi più colpiti dal Covid-19, Illa è riuscito a conquistare la fiducia di una buona parte degli spagnoli per il suo tono pacato e rispettoso, e di colpo i sondaggi lo hanno lanciato a tal punto da poter insediare l’egemonia delle due formazioni indipendentiste, logorate dopo anni di rivalità e ripicche che si sono solo accentuate durante la gestione della pandemia.
I risultati del 14 febbraio hanno premiato la scelta di Pedro Sánchez di puntare sul Ministro, seppur il bottino grosso – la presidenza – difficilmente sarà conquistata. Il Psc ha ottenuto il 23,02%, 41mila voti in più di tre anni fa, un’enormità se si pensa che l’astensionismo è passato dal 20,91% al 46,46%, forte soprattutto nella provincia di Barcellona, che è dove i socialisti hanno maggiore radicamento. Ed è proprio nel cosiddetto «cinturone rosso», ovvero la capitale e la sua area metropolitana, che il Psc è tornato a vincere in un’elezione parlamentare dopo quasi vent’anni (accadde l’ultima volta nel 2003, in quelle elezioni che tolsero alla destra nazionalista di CiU la presidenza dopo 23 anni al comando).
Eppure mai i socialisti erano riusciti a ottenere sia la vittoria in numero di voti che di seggi, cosa che li ripone al centro dello scacchiere politico, seppur all’opposizione, dopo anni di decadenza (nel 2015 ottennero solo il 12,7%). Le ragioni di tale successo, oltre ai meriti individuali del candidato, sono dovuti a diversi fattori. Il Psc, come il Partito socialista a livello nazionale (Psoe), ha riacquistato consistenza dalla conquista del Governo nazionale nel maggio del 2017, quando il popolare Mariano Rajoy venne sfiduciato dal Congresso. Se prima di allora in qualche sondaggio i socialisti erano finanche relegati in quarta posizione, con l’entrata alla Moncloa hanno riconquistato centralità a scapito delle forze emergenti degli anni precedenti, Podemos a sinistra, e Ciudadanos a destra. E proprio Ciudadanos ha pagato l’avanzata del Psoe, soprattutto in Catalogna. Il Psc ha saputo riconquistare i voti presi dal partito di Inés Arrimadas nel 2017 proprio nell’area metropolitana di Barcellona, un voto chiaramente anti-indipendentista. Ma oltre alle posizioni sulla secessione, non radicali come le destre ma certamente poco propense ad aperture, a pesare è stata anche la capacità organizzativa di un partito che non è diventato un network virtuale. Il Psc, con le sue sedi e le sue strutture, ha saputo resistere negli anni in cui era insediato da Ada Colau e da Albert Rivera, mentre le forze politiche di questi partiti hanno ceduto terreno dopo l’iniziale successo anche per via di una mancanza di insediamento territoriale.
Una vittoria, pur interlocutoria, è stata anche quella di Erc. Dopo aver fallito nel 2017, finalmente in queste elezioni il partito di Oriol Junqueras (condannato a 13 anni di carcere per sedizione) ha prevalso nella battaglia contro Junts, e così il candidato alla presidenza, il giovane Pere Aragonès, può legittimamente sperare di presiedere la Generalitat. La vittoria di Esquerra Repubblicana (col 21% dei voti) avviene dopo anni in cui questo partito ha cercato, dopo le condanne dei vertici dell’indipendentismo, di orientare la battaglia per la secessione nel lungo periodo, in chiave più pragmatica e dialogante con il Governo centrale. Mentre una parte del nazionalismo catalanista ha costruito una narrazione che invita a rifare nell’immediato ciò che si fece nel 2017 (un tentativo di referendum con una enorme partecipazione ma senza nessuna legittimazione internazionale, e una dichiarazione di indipendenza unilaterale alla quale non seguì nulla se non arresti e fughe), Erc è parsa più riflessiva rispetto alle giornate di settembre e ottobre del 2017, giudicando negativamente la tendenza a radicalizzare costantemente il discorso politico (il cosiddetto «indipendentismo magico»), a rifiutare qualsiasi confronto con il Governo centrale e con le forze non secessioniste, senza ottenere effetti concreti oltre alla mobilizzazione. Erc, soprattutto, sta acquistando il coraggio di non farsi condizionare dal costume di cercare traditori nel mondo indipendentista, un approccio accresciuto con i social network. Dopo aver permesso con i propri voti l’investitura di Pedro Sánchez alla testa del Governo centrale e aver negoziato e votato a favore della legge di bilancio statale, ora Erc potrebbe parlare a nome del popolo catalano per cercare una soluzione politica per i dodici dirigenti separatisti condannati e quelli in esilio.
L’obiettivo di Erc pare quello di ampliare il campo a soggetti ancora non conquistati dall’indipendentismo e anche per questo non chiude le porte del governo a En Comú Podem. Come scrive Jordi Amat, Erc lavora adesso per diventare una sorta di Scottish National Party, il partito indipendentista di governo e progressista scozzese, ovvero una forza politica che fondi il suo indipendentismo guardando più al futuro che al passato, rifiutando una visione essenzialista ed escludente della nazionalità e che, come afferma il politologo Jordi Múñoz, riesca a far sì che l’indipendentismo superi il 50% dei voti in tutte le elezioni.
Chi invece appare ancorato a una visione sempre più mistica di nazionalismo è Junts, che ha ottenuto il 19,8% dei voti piazzandosi al terzo posto, un risultato che non gli consentirà di ottenere la Presidenza ma certamente di pesare molto nel Governo. Questo partito è stato fondato da ex-dirigenti del partito liberale PDeCAT nonché da personalità cresciute in questi anni nell’Assemblea Nazionale Catalana (Anc) ed è visto politicamente come l’erede della coalizione che ha governato quasi sempre la Catalogna, la liberale Convergència i Unió (CiU). Tuttavia le differenze sono varie. Meno radicato sul territorio, con un apparato ancora leggero rispetto a Erc controbilanciato da un’aggressiva presenza nel web, Junts cerca di non collocarsi nell’asse destra-sinistra a tal punto che la sua candidata alla presidenza, Laura Borràs, si autodefinisce più a sinistra dei socialisti. Eppure dietro a una retorica rivoluzionaria e a un invito alla mobilizzazione per la libertà, Junts fonda la sua azione politica sulla ricerca del nemico interno (uno stile trumpiano, scrive Guillem Martínez), su un nazionalismo rancoroso e suprematista orientato più al passato che al futuro, esaltando le virtù e i primati della Catalogna, nazione che senza i presunti traditori catalani e spagnoli avrebbe raggiunto chissà quali traguardi.
In tal senso Junts si è opposto sempre a qualsiasi dialogo col Governo centrale e c’è da immaginare che farà pesare i suoi voti per dare ad Aragonès l’agognata presidenza. Junts vorrà impegni chiari per ripetere, almeno a parole, le iniziative del 2017 ed evitare che questioni economiche e sociali (viste come fumo negli occhi) possano entrare nell’agenda di un dialogo tra i governi centrale e catalano. Per i juntaires è imprescindibile che l’unico motore della tensione politica sia l’indipendenza. In tal senso Junts potrebbe trovare sponda nella Cup, la formazione indipendentista e anticapitalista che ha ottenuto un eccellente risultato (6,6% e nove deputati), che pur non invocando una dichiarazione unilaterale di indipendenza non è predisposta a nessun dialogo con il Psc. Junts ha perso ma sa che un eventuale ritorno alle urne – magari dopo un fallimento dei tentativi di dialogo tra Stato e Generalitat sulla grazia ai prigionieri politici indipendentisti – potrebbe premiarla. Dalla sua, Erc ha comunque la possibilità di guardare anche al Psc e a En Comú Podem, anche solo come arma di dissuasione.
A rafforzare eventuali richieste dell’area più dura dell’indipendentismo ci sarebbe anche il fatto che per la prima volta l’insieme delle forze indipendentiste ha superato il 50% dei voti (considerando anche i partiti che non sono entrati in Parlamento). Aldilà delle interpretazioni di questo risultato (si è passati dal 37,6% al 27,2% dei voti sugli aventi diritto e si sono persi 641mila voti assoluti) è certo che il risultato rappresenta un successo, che nessuno può ignorare. La questione indipendentista rimane il principale tema politico della Catalogna, è un dato strutturale, e solo la pandemia ha interrotto l’enorme ciclo di mobilitazioni degli anni scorsi. In questo senso, la grazia ai dirigenti politici indipendentisti dovrebbe essere un primo passo verso un approccio politico alla questione che sostituisca quello puramente penale. Ma c’è da essere sicuri che la richiesta per un referendum non verrà meno con il passare del tempo.
Che succede a destra
A destra si è registrato il crollo verticale di Ciudadanos, che ha perso venti punti percentuali e si è ridotta al 5,5%. Tre anni fa il partito di Inés Arrimadas e Albert Rivera sbancò proprio nel «cinturone rosso» facendo leva sul sentimento anti-indipendentista e nazionalista spagnolo. Oggi, dopo ondeggiamenti continui tra il centro e l’estrema destra, il partito è rimasto schiacciato tra il Psc, che come detto ha riconquistato la sua base, e l’estrema destra di Vox. Il gruppo neofranchista è entrato con forza nel Parlamento, con un risultato (il 7,6%) che minaccia seriamente la leadership del Partito popolare nel campo conservatore spagnolo.
Il Partito popolare ha realizzato un risultato nefasto, solo il 3,8% dei voti, pagando a caro prezzo la campagna di odio lanciata contro il Governo «rosso-viola» (socialisti e Podemos) nelle giornate più difficili della crisi causata dal Covid-19. Se da un lato, comunque, va detto che i tre partiti della destra nazionalista spagnola hanno nel complesso perso la metà dei seggi conquistandone solo 20 su 135, desta preoccupazione l’analisi territoriale del successo di Vox. Come già nelle elezioni politiche del 2019, il partito di Abascal ha ottenuto risultati superiori alla media in zone tra le più ricche e le più povere di Barcellona, in municipi e distretti con alta immigrazione e astensione elettorale. È andata meglio della Cup e di En Comú Podem e, come scrive Antonio Mestre, nell’area metropolitana della capitale sta costruendo un progetto lepenista che attira il consenso soprattutto degli uomini, con bassi salari e di lingua castigliana.
Che succede a sinistra
En Comú Podem ha ottenuto il 6,8% dei voti, confermando gli otto deputati della passata legislatura. È un risultato che può essere giudicato in maniera diversa in base al punto d’osservazione. In termini assoluti il risultato non è buono, si sono persi 132mila voti e un paio di mesi fa le aspettative erano altre. Tuttavia l’entrata in scena di un personaggio di peso come Salvador Illa ha stravolto i piani dei comuns, avendo a che fare con un candidato che per la prima volta dopo più di un decennio ambiva chiaramente alla vittoria e non solo a piazzarsi bene. E quindi da questo punto di vista il risultato è più che dignitoso.
Jèssica Albiach ha condotto una campagna intelligente marcando la distanza soprattutto da Junts, modificando l’impianto costruito nelle precedenti elezioni da Xavier Domènech (ritiratosi dalla politica) e Elisenda Alamany (passata poi a Erc). Dopo due tremende débâcle in Galizia e Paesi Baschi, Unidas Podemos non è crollata in Catalogna in un contesto di grande polarizzazione, è ponte tra Psc ed Erc, può continuare con la sua linea di tripartito e il suo ruolo nella coalizione che governa a Madrid non si è indebolito. Però a livello spagnolo Unidas Podemos continua a perdere voti e a non crescere dal 2015-16, tanto a livello statale come nelle diverse Comunità Autonome. E a livello catalano si può trarre un bilancio chiaroscuro del progetto cresciuto attorno alla figura della sindaca di Barcellona, Ada Colau.
Nato nel momento di maggiore difficoltà del Psc, En Comú Podem aveva l’ambizione di sostituire i socialisti come principale forza politica di sinistra e di inglobare soggettività e personalità protagoniste dei movimenti sociali. La realtà è che le vittorie a Barcellona e in due elezioni politiche (2015 e 2016) non sono state confermate dalle elezioni per il Parlamento catalano e da quelle municipali. Nonostante la presenza di personalità come la stessa Colau e Jaume Asens, il partito è privo di radicamento territoriale e una parte importante dei suoi quadri e delle sue strutture è costituita dalla vecchia Iniciativa per Catalunya (Icv), il partito che si voleva superare, anche criticamente per via del suo operato durante il governo tripartito tra il 2003 e il 2010. E invece i comuns sono tornati proprio dove stava Iniciativa per Catalunya, ovvero una forza ancorata al 6-10% che come massima ambizione ha avuto quella di fare da ponte tra i socialisti del Psc e i repubblicani di Erc, obiettivo meno ambizioso di quello che ci si era prefissati nel 2015. La scelta, proprio in quell’anno, di non costruire una lista nelle elezioni catalane che si tennero pochi mesi dopo il successo di Colau nelle comunali di Barcellona (e nel momento di maggior difficoltà del Psc) è forse stata fatale.
Ad ogni modo i tentativi dei comuns di tenere dritta la barra sulla questione sociale come contraltare di quella nazionale sono giusti. Con praticamente tutti i mezzi di informazione impegnati a contare quanti voti sono andati agli indipendentisti e quanti a quelli che non lo sono, pochi hanno osservato che in queste elezioni ben 83 deputati su 135 sono appartenenti a forze che si collocano a sinistra, dal Psc alla Cup. Si tratta di partiti che sono impegnati a denunciare come gli uni e gli altri non siano la «vera» sinistra (chi nazionalista separatista, chi repressore e neoliberista). Eppure ci sarebbero le possibilità per tirar fuori qualcosa di importante da una simile alleanza, anche per singoli interventi legislativi, in un momento in cui le élite vorrebbero far pagare alle classi popolari, anche questa volta, le conseguenze della crisi economica.
*Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato il racconto autobiografico Tutta colpa di Robben (Edizioni Ensemble, 2012). Vive e lavora da anni a Barcellona.
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