Navalny è un perseguitato ma non è il Mandela russo
Il leader dell'opposizione imprigionato illegalmente da Putin va difeso. Non è però un modello: in passato è stato protagonista di dichiarazioni xenofobe, tanto che Amnesty ha ritirato il suo nome dalla lista dei prigionieri di coscienza
Il 18 gennaio 2021 La Stampa definiva Aleksej Navalny come «Il Nelson Mandela russo». Leader dell’opposizione, blogger, reporter e attivista anticorruzione dalle straordinarie capacità comunicative, Aleksej Navalny, nell’estate del 2020 si è sentito male durante un volo aereo. Viene ricoverato in un ospedale siberiano il 20 di agosto e si sospetta un avvelenamento di Stato messo in pratica attraverso la fitta rete degli agenti segreti russi, successivamente confermato. Diventa così un caso mediatico mondiale: dal suo arresto si sono susseguite proteste e manifestazioni popolari in suo favore, culminando a febbraio, quando gli arrestati sono stati più di 5mila. In questi giorni, in seguito alle notizie sul suo stato di salute in carcere (era infatti accusato di aver violato la libertà vigilata di una precedente condanna) e la sua recente ospedalizzazione in un ospedale per detenuti, 806 fermi sono avvenuti a San Pietroburgo, 119 a Ufa e 68 a Kazan.
Il mondo occidentale sembra essere a suo favore, ma il protagonista delle vicende che hanno scatenato i media europei degli ultimi mesi è anche un personaggio caratterizzato dalle poco velate ideologie razziste e xenofobe: come siamo arrivati a definirlo un modello? Un paragone certamente un po’ azzardato, quello con Nelson Mandela: originario della periferia di Mosca, Navalny è diventato popolare negli anni 2000 grazie a una fondazione anticorruzione, chiamata più comunemente Fbk, ma soprattutto facendosi conoscere tramite il suo blog (di cui esiste anche una versione inglese), in cui dà voce al dissenso popolare e conduce una lotta online al potere (denunciando proprio pochi mesi fa, ad esempio, la presenza di una sfarzosissima villa sul Mar Nero ultra blindata che apparterrebbe al presidente Vladimir Putin, ricevuta in regalo secondo Navalny come tangente). Soprannominato anche whistleblower, la fama politica di Navalny ha cominciato così a basarsi principalmente sul successo come dissidente del web, ma non si è fatto mancare in passato varie dichiarazioni xenofobe: in un noto video del 2007, equipara i militanti musulmani a scarafaggi che possono essere eliminati solo con uno sterminio; nel 2011, si è dichiarato un nazionalista impenitente che espellerà spietatamente tutti gli immigrati non bianchi dall’Asia centrale e dal Caucaso; ha pubblicato un filmato in cui travestito da dentista definiva gli immigrati come una «carie nei denti» ed è stato inoltre tra i principali promotori delle manifestazioni legate alla Giornata dell’unità nazionale Russa, a cui partecipano organizzazioni di matrice neonazista e suprematista. Non a caso La Stampa nel 2012 dedicava a lui un titolo in cui lo chiamava Il blogger xenofobo che unisce la piazza, proprio qui.
Trasformato dai media occidentali in paladino della storia contemporanea (questa notizia ha infatti avuto molta più risonanza da noi che in Russia, non a causa della censura, ma perché la figura pubblica di Navalny non è quella dell’icona dell’opposizione presentata in Italia), Navalny non ha mai rifiutato le accuse o cercato di scusarsi per le sue precedenti dichiarazioni. Si è sempre dimostrato estremamente coerente nel rifiuto di sconfessarle, riprendendo alcuni dei commenti fatti al tempo della guerra russo-georgiana nel 2008, quando ha descritto i georgiani usando un epiteto razzista (tramite un gioco di parole al quale non ha saputo resistere: in russo i gruziny sono i georgiani, ma Navalny ha utilizzato il vocabolo gryzuny, che significa topi). Secondo alcuni Navalny ha recentemente ammorbidito i toni, certo non per un sincero cambiamento di tipo morale: a dicembre in un’intervista con l’economista Sergei Guriev ha cercato di aggirare la questione, replicando allo stesso modo in un’intervista con il Financial Times – in cui non si fa scrupoli a insultare le persone omosessuali. In vista delle elezioni presidenziali del 2018, ha invece affermato di essere in disaccordo con le leggi anti-gay promosse dal presidente Putin. Forse proprio in questo risiede la grande abilità di Navalny: il fascino sul pubblico.
Non avendo smentito le parole di disprezzo e odio espresse in passato contro interi gruppi e categorie di persone, il 23 febbraio Amnesty International ha ritirato il nome di Aleksej Navalny dalla lista di prigionieri di coscienza [successivamente riassegnato, Ndr]. Quella dei prigionieri di coscienza è una categoria di cui fanno parte tutti coloro che sono stati imprigionati per ciò che rappresentano (razza, religione, lingua), ciò che sono (colore della pelle, orientamento sessuale) o per il loro credo politico – ne fanno parte, infatti, Patrick Zaki e Asia Bibi. Amnesty ha in seguito rilasciato un comunicato stampa, sostenendo comunque che «il fatto che Amnesty International abbia deciso di non definire ulteriormente Navalny prigioniero di coscienza non cambia in alcun modo il giudizio che egli sia stato imprigionato illegalmente e sottoposto a minacce e procedimento giudiziari promossi dallo stato russo solo per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione», e che «la valutazione sui precedenti commenti di Navalny non modifica di una virgola la più dura condanna possibile di Amnesty International nei confronti della crescente e brutale repressione dei diritti umani, nel cui ambito s’inserisce la detenzione arbitraria dello stesso Navalny».
La narrazione (che possiamo definire quasi tossica) dell’immagine stereotipata di Navalny come nuovo «paladino della democrazia» tramite una gigantesca risonanza mediatica è arrivata anche in Italia, a partire ad esempio da Lia Quartapelle, esponente della Commissione Esteri della Camera, che su Twitter ha rilanciato l’hashtag #IStandWithNavalny e #FreeNavalny, a favore della sua liberazione in seguito a una recente condanna a tre anni di carcere in cui è stato accusato di aver violato gli obblighi di una sentenza detentiva.
Fermo restando che le modalità con cui lo stato ha tentato di eliminare Navalny e gli altri oppositori siano sempre e inderogabilmente da condannare – non dimentichiamo il caso di Anna Stepanovna Politkovskaja, giornalista russa impegnata sul fronte dei diritti umani e degli abusi sotto al governo del presidente Putin, minacciata e poi uccisa, e anche Paul Klebnikov, che stava investigando su casi di frode da parte del governo russo, o le vicende che in questi giorni vedono protagonista Roman Anin – e la necessità del sacrosanto diritto alla libertà di parola, l’aspetto cruciale del fenomeno Navalny non è tanto nel suo concreto contenuto ideologico quanto nell’effetto dirompente dei suoi ultimi resoconti sull’opinione del pubblico e del quarto potere.
La storia della mediatizzazione di Navalny dovrebbe spingerci a guardare la sua figura attraverso un occhio critico e cosciente, per accorgerci che quella del blogger russo è una delle tante finte immagini mediatiche di santi e dèi: è allora necessario chiedersi se lo scopo della sua propaganda giustifichi davvero le sue azioni, o meglio, se il tentativo di ergersi a simbolo dell’opposizione contro un regime che zittisce le critiche con metodi totalitari giustifichi dichiarazioni omofobe e razziste in una società che negli ultimi anni si batte ogni giorno per andare nella direzione opposta.
*Francesca Fontanesi è nata nel 1995 in provincia di Reggio Emilia. Vive a Milano, dove ha conseguito la laurea triennale in Lettere Moderne e frequenta un corso di laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Giornalista freelance, ha scritto di temi sociali per The Vision e di questioni linguistiche per Culturificio. Si appassiona di intersezionalità, diritti e geopolitica.
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