B(l)ack in the Ussr
Nella Russia di Putin si rimuove la storia dei neri e delle nere in Urss. Quello tra afrodiscendenti e paesi sovietici fu un rapporto pieno di luci ma anche di numerose ombre. Una storia da sottrarre all'oblio
Questa storia potrebbe iniziare – perché un inizio ci vuole sempre – a Tashkent o a Samarcanda. O chissà a Bukhara o Ashgabat o in qualsiasi altra città dell’Asia Centrale. Serve naturalmente un protagonista, e lo troviamo subito. Si aggira per le steppe in cerca di un sogno o forse di una rivelazione. L’uomo ha altezza media, baffi radi quasi invisibili, sguardo penetrante e bocca carnosa che a volte si apre a cuore. Non è mai solo, l’uomo. È attorniato da una moltitudine di operai, contadini, scrittori, poeti, membri del Partito comunista, donne dell’avanguardia operaista, staliniani di ferro, marxisti-leninisti e rivoluzionari.
Siamo negli anni Trenta del secolo scorso. 1932, per l’esattezza. La gente è felice di parlare con lui. Da quelle parti, in Asia Centrale, un uomo del suo colore non lo hanno quasi mai visto. Perché l’uomo è nero, va detto: è un afroamericano. Esattamente viene dal Midwest, dall’America profonda, dove i neri vengono linciati e appesi agli alberi come strani frutti. Sembra strano per noi oggi pensare a un nero in Asia Centrale, pensare a un nero in quel periodo in Unione Sovietica. Ci sembra quasi fantascienza. Un romanzo distopico. Una narrazione fantasy. Ma invece è stata una realtà e non solo degli anni Trenta. Quell’afroamericano si è aggirato per davvero tra le steppe . Aveva un nome: Langston Hughes, un nome famoso. Chi ama la letteratura statunitense, soprattutto quella scritta dagli afroamericani, conosce il vate dell’Harlem Renaissance. Conosce le peripezie di questo uomo gentile e risoluto che ha spaziato tra poesia e prosa, tra la sua infanzia difficile e il suo presente di allora fatto di militanza e omissioni (infatti Hughes non ha mai potuto dichiarare in pubblico la sua omosessualità). Il nome di Langston Hughes ancora emoziona. Ancora commuove. Della sua biografia è stato illuminato quasi tutto. Ma sono in pochi, anche tra chi lo ammira, a sapere che Langston Hughes negli anni Trenta ha fatto un tour nell’Unione Sovietica di Stalin.
Come tanti afroamericani anche Langston Hughes era diventato comunista. Era l’unica scelta possibile contro la propria nazione che non aveva mai smesso di considerare i neri merce. Certo la schiavitù era stata abolita nel XIX secolo. Ma i neri americani erano ancora considerati la “feccia” dalla società conservatrice bianca. Qualcosa da usare e non da inglobare nel discorso della Nazione. Erano quindi privati dei più elementari diritti civili e spesso la loro stessa vita era in pericolo. Perdere il corpo, farsi male, vivere nel terrore era il pane quotidiano di molti neri negli Stati Uniti d’America. Stranieri nella loro stessa nazione ed esclusi da ogni riconoscimento. Per i neri americani era chiaro che il concetto di Patria era un concetto farlocco. La patria escludeva, marginalizzava e spesso uccideva. Ecco perché molti si rifugiarono – quasi alla ricerca di una protezione, una sorta di corazza ideologica– nel Comunismo. La Rivoluzione Russa, Lenin, Trockij, i soviet, la collettivizzazione affascinavano molto gli afroamericani. Sembrava a molti che solo in quel sogno di rosso vestito potevano finalmente anche loro esistere e finalmente contare. Di questa fascinazione se ne accorsero presto anche nella Sovietica Unione. E se ne accorse Stalin. Fu proprio negli anni Trenta che cominciò una forte propaganda anti imperialista volta a sedurre gli afroamericani. In anni in cui la dittatura staliniana si faceva sempre più dura verso i dissidenti, furono messe in campo dallo stalinismo tecniche di seduzione per attirare quanti più afroamericani possibili nel territorio sovietico. Arrivarono attori, giocatori di baseball, teorici, prosatori, artisti, pensatori. E arrivò anche Langston Hughes.
Artefice di tutto fu l’agenzia tedesco-sovietica Meschrabpom che ebbe l’idea di reclutare attori e musicisti afroamericani per girare un film a Mosca. Il film doveva intitolarsi Black and white e avrebbe dovuto avere una connotazione di denuncia del razzismo negli Stati uniti. Naturalmente lo stalinismo (l’Unione Sovietica tutta) doveva uscire dal film come la terra che accoglieva gli oppressi e i colonizzati di tutto il mondo. Questo fece sì che una nutrita schiera di afroamericani scese a Mosca. Erano in 24. Uno di questi era Langston Hughes. In realtà non tutti erano attori, nel gruppo che viaggiò con il piroscafo Europa prima e poi via terra c’era chi era stonato o chi non sapeva nemmeno accennare a un modesto passo di tip tap. Tutti erano però in qualche modo avventurieri e legati in qualche misura al Partito comunista. Naturalmente tutti erano desiderosi di denunciare la difficile situazione dei neri in America.
Furono portati in giro, mostrati, coccolati. Gli Amerikanski Negrochanski tovarishi, i Compagni neri americani, divennero presto un’attrazione. Poi però il progetto naufragò per questioni geopolitiche. Si ebbe proprio in quell’anno il riconoscimento ufficiale da parte degli Stati uniti dell’Unione Sovietica come nazione. L’Europa poi stava entrando in un periodo caldo e Stalin pensò bene di non rompere le uova nel paniere a Roosevelt. E fu così che molti Amerikanski Negrochanski tovarishi tornarono negli Stati uniti con una manciata di ricordi e un po’ di amaro in bocca.
Solo Langston Hughes restò (imitato da pochi altri) ed ebbe dalle autorità staliniane il permesso di andare in Asia Centrale. Di quel periodo ci ha lasciato un’intensa testimonianza in A Negro looks at Soviet Central Asia, un libro che ripercorre i suoi incontri e le sue peregrinazioni in quella parte di mondo. Del libro ci sono rimasti due esemplari, uno a New York e l’altro a Mosca. Va detto subito: non c’è traccia di alcuna critica allo stalinismo, perché Langston Hughes come tanti invitati dal regime non aveva accesso a una libera conversazione con le persone che incontrava. Tutto era guidato, quasi telecomandato. Siccome era un uomo sensibile, intuì come le piantagioni di cotone del Midwest, fatte dal sudore e dallo sfruttamento dei corpi neri, non fossero così differenti nelle condizioni di lavoro estreme da molte situazioni simili viste in Asia Centrale.
The Wayland Rudd Collection
Ma quella prima presenza di neri in Unione Sovietica lasciò traccia. Molto infatti è rimasto nei poster di propaganda e nei libri di testo in voga in quel periodo. I russi, gli ucraini, i georgiani, gli uzbeki tutti furono inondati da immagini in cui il nero con le catene spezzate si liberava del razzismo e a volte anche brutalmente dei razzisti. Ancora non siamo al panafricanismo sovietico degli anni Sessanta, ma molto comincia da qui.
Ed è a questo periodo che si ispira il progetto The Wayland Rudd Collection, un progetto collettivo di artisti guidato da Yevgeniy Fiks che mira a focalizzare l’attenzione sulla rappresentazione degli africani e degli afroamericani nella cultura sovietica. Agli artisti è stato chiesto di inventare, ribaltare, criticare o esaltare la figura del nero nella propaganda sovietica, partendo dalla collezione immensa di Fiks di più di duecento immagini (tra poster, quadri, manifesti di film ecc.) di africani e afro tra il 1920 e il 1980. Chiaramente, l’idea di mettere al centro della propaganda il nero (e le sue sciagure dal colonialismo alla segregazione) aveva una finalità politica. La grande Madre Sovietica voleva da una parte irrorare tutto il mondo, quindi Africa compresa, di ideologia comunista e dall’altra (questo soprattutto durante la Guerra fredda) creare alleanze durature in un’Africa (ma anche all’interno delle comunità afroamericane) che era diventata dopo la decolonizzazione terreno di conquiste e di nuove strategie. Mettere al centro la figura del nero nel progetto di Fiks ha significato anche lavorare sulle contraddizioni che queste immagini sovietiche portano su di esse. Il nero da una parte viene esaltato, dall’altro è molto esotizzato. Si oscilla tra la caricatura e gli alti ideali comunisti. Da una dose di ipocrisia ai buoni sentimenti. Col progetto si è voluto mettere il dito in questa complessità di rapporti che hanno visto evolvere nell’arco di sessant’anni una relazione tra mondo black e mondo sovietico di cui erano a conoscenza solo i diretti interessati e di cui in occidente spesso nemmeno si ha o aveva idea.
La collezione è intitolata a Wayland Rudd, attore afroamericano che si era distinto in “patria” per le sue performance attoriali in Otello e nell’Emperor Jones. Aveva anche partecipato a numerose produzioni di Brodway. Ma le barriere e le griglie a cui era stato costretto come attore nero lo avevano frustrato così tanto che scappò in Unione Sovietica. Anche lui come Langston Hughes faceva parte della ciurma dei 24 di Black and white, ma se Langston Hughes si limitò a un tour in Asia Centrale, Rudd decise di diventare sovietico a tutti gli effetti e di legare il suo nome a quella terra che non solo lo aveva accolto, ma che gli aveva dato anche una moglie: Lolita Marksiti. La scelta di intitolare il progetto a Rudd non è peregrina. Non è stato di certo l’unico nero in Urss, ma sicuramente il più rappresentativo. Il suo salto dal Nebraska a Mosca lo portò a fare da modello per quasi tutte le immagini di propaganda di quel periodo. Era lui di fatto che veniva via via acclamato, esotizzato, accolto, abbracciato, stereotipizzato. Ebbe una vita piena di soddisfazioni, solo che analizzando l’uso pubblico della sua figura ci si accorge che il suo corpo ricadeva in quei clichè da cui era fuggito.
E se Shirley Temple fosse stata nera e sovietica?
Di neri poi nel cinema ce ne furono altri. Basta solo ricordare il bambino di Circus. Questo è il titolo di un film sovietico tra i più conosciuti, anno 1936. Un melodramma musicale diretto da Grigori Vasilyevich Aleksandrov e interpretato dalla moglie, nonché prima stella del cinema sovietico, Lyubov Orlova. La sceneggiatura si basava sulla commedia musicale di Ilf e Petrov (Ilya Arnoldovich Feinsilberg e Yevgeniy Petrovich Kataev) nonché Valentin Kataev. Dopo alcuni screzi sulla resa filmica il trio abbandonò il film e subentrò il grande scrittore (poi successivamente una delle vittime più illustri delle purghe staliniane) Isaac Babel. La storia del film, che era tra i preferiti di Stalin, aveva al centro il dramma di una donna americana bianca madre di un bambino nero in un’America segregazionista e razzializzata. La madre scappa in Unione Sovietica e dopo alcune iniziali vicissitudini si vede accolta dal popolo sovietico nella sua interezza. La scena topica del film è quasi alla fine del lungometraggio, è qui che il bambino, interpretato da James Lloydovich Patterson (figlio dell’attore afroamericano Lloyd Patterson e dell’artista ucraina Vera Ippolitovna Aralova) viene intrappolato dal cattivo della situazione – un cattivo che assomiglia molto ad Adolf Hitler con il ciuffo e i baffetti – e mostrato al pubblico del circo. L’uomo chiede che il bambino e la madre “colpevole di reato razziale” vengano cacciati da ogni consesso civile. Ma l’impresario del circo risponde con un No secco a questa richiesta. E si vede il bambino, liberato dalle grinfie del famelico simil Adolf Hitler, che pacioso va verso il popolo sovietico. E qui che James Lloydovich Patterson diventa un’icona del cinema sovietico e insieme a Rudd il nero più famoso dell’Unione. Non piange più e il popolo dell’Urss gli canta una ninna nanna passandoselo da una mano all’altra, da un abbraccio a un altro. Una lunga scena dove tutti abbracciandolo sono di fatto testimoni ognuno di una parte del grande mosaico sovietico. C’era anche un verso della canzone in yiddish inizialmente, ma sarà tolto quando le purghe staliniane (quelle che porteranno alla vile esecuzione di Isaak Babel) si faranno più opprimenti. Verso che sarà poi restaurato dopo la morte di Stalin. Il film contiene anche Shiroka strana moya rodnaya, la canzone della madrepatria, una delle canzoni più note del repertorio sovietico. L’attore-bambino quasi come una Shirley Temple sovietica sarà una delle immagini più persistenti sui neri nell’immaginario russo e non solo. Lo stesso attore dirà poi che anche da adulto (lo stesso Stalin lo farà) lo fermavano per strada e lo abbracciavano, in quanto il bambino di Circus.
L’Africa a Mosca
Non ci furono solo gli afroamericani nella storia dell’Urss, una parte importante la svolsero anche gli africani. Questo legame che partì negli anni Cinquanta si dissolse solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
L’Africa si prestava a svolgere funzione antiamericana, dunque si doveva fare di tutto per attirare l’intellighenzia di quei paesi e farla propria. Era un piano lento, ma efficace. Creare legami duraturi per poi poter contare nelle varie politiche nazionali. Per molti africani, dal Mali alla Somalia, dall’Etiopia al Ghana, formarsi in Unione sovietica significò avere un’alta formazione, soprattutto nei campi scientifici. Furono in molti ad affrontare la neve russa e ucraina, ad abituarsi agli inverni gelidi per potersi guadagnare una specializzazione. L’Urss aveva aperto le sue porte e aperto l’università per l’amicizia tra i popoli, poi denominata Patrice Lumumba dal nome del leader congolese ucciso. E in quelle aule ci hanno studiato in molti. Però va detto che nonostante la “buona volontà” (anche molto interessata visto il ruolo chiave dell’Africa nelle questioni geopolitiche) non sempre tutto andava liscio per i neri in Russia. Già dal 1960 si segnalarono proteste da parti degli organi direttivi degli studenti africani. Come quando proprio il leader degli studenti mandò in inglese a Khrushchev una lettera per chiedergli delle dure misure (e soprattutto efficaci) contro il razzismo. Il caso in questione, che aveva fatto alzare il muro delle proteste, era quello di uno studente somalo di medicina, Abdulhamid Mohammed Hussein, che fu aggredito da quattro studenti sovietici per aver chiesto di ballare a una ragazza bianca. Il caso fu minimizzato e la colpa di tutto fu data dal Kgb al somalo che fu accusato di essere stato rude con la ragazza e aggressivo. Gli studenti africani sapevano che si trattava di razzismo, purtroppo non sapevano come dimostrarlo. Il tutto culminò in quegli anni in una protesta nel 1963 dopo la morte misteriosa di uno studente ghanese Edmund Assare-Addo che fu trovato cadavere in una strada di campagna nella direzione verso Mosca. Anche qui i tentativi di insabbiare furono molti. Il fatto aveva avuto eco nella stampa internazionale occidentale perché 700 studenti africani manifestarono sulla piazza Rossa (e non si manifestava sulla Piazza Rossa dal 1920) per il trattamento che stavano ricevendo in Russia.
Afrorussi: una storia da ri-costruire
Quindi il rapporto neri e Unione sovietica era pieno di luci, ma anche di numerosi ombre. E il rapporto non si limitò alla sola Unione Sovietica, afrodiscendenti furono presenti in Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria, Jugoslavia, Cecoslovacchia.
E sulla Cecoslovacchia ho una testimonianza diretta. Mio fratello Ibrahim ha studiato vicino Praga e mi ricordo la sua vita, negli anni Ottanta, divisa tra Somalia, Italia, Cecoslovacchia. Mi piaceva ascoltare le conversazioni tra lui e la sua moglie iraniana in questa lingua ceca, lingua che come ex studenti avevano in comune visto che lui non parlava in persiano e lei non in somalo. E non era l’unica presenza in casa di quella stagione intensa (e piena di contraddizioni) tra Africa e Urss. C’era sempre un cugino che si andava a curare dai suoi vecchi compagni nella Romania di Ceaușescu o chi decideva di mettere su famiglia a Budapest come a Sofia. Per non parlare di Tito e del suo lungo viaggio in Africa. Di come la Jugoslavia non allineata era diventata ponte privilegiato nei rapporti Sud-Est-Balcani. Storie che ci hanno attraversato e innervato. Di cui ogni tanto sentiamo ancora l’eco lontano. O ci imbattiamo casualmente vedendo persone dai nomi Afrorussi, afroungheresi, afropolacchi, afrobulgari, afroucraini. Kara Lynch, professoressa di video e cultural studies all’Hampshire College, ha dedicato nel 2001 un documentario agli afrorussi dal titolo afrorussian, facendo un viaggio nelle vite dei giovani nati proprio dalle unioni tra quei studenti della Lumumba e non solo e per lo più le donne del luogo. O il lavoro fotografico di Johnson Artur che ha esaminato le vite di 40mila russi neri. Molti dei quali basati a Mosca e San Pietroburgo. Di solito figli cresciuti dalla sola madre perché i padri erano rientrati nei paesi di origine e non più rientrati né in Russia né nella vita dei propri figli. Ed ecco che le varie Vlada e i vari Gera si sono offerti al suo obbiettivo e al suo racconto.
Ora come sappiamo i paesi di Visegrád e la Russia di Putin hanno preso una netta linea antimigranti. Soprattutto paesi come l’Ungheria e la Polonia si rifanno a una sedicente quanto inesistente purezza razziale. Spesso questa propaganda antimigranti è fatta in assenza completa di africani, asiatici o latioamericani. Ma nel passato di persone con la pelle nera o ambrata ce n’era eccome nei loro territori. Ma questa storia è stata rimossa e destinata purtroppo all’oblio. Forse proprio per questo oggi andrebbe riesumata. Si, proprio adesso dove le tensioni razziali vengono usate come specchietto per le allodole. Vere armi di distrazione cognitiva per non far pensare le persone ai veri problemi (per lo più economici) di tutta l’area est. Serve consapevolezza e conoscenza. Serve storia.
Forse non è un caso che il più grande e venerato poeta russo, padre della letteratura, fosse un afrodiscendente pure lui. Quell’Aleksandr Sergeevič Puškin che da Dostoevskij ad Anna Achmatova tutti hanno venerato. No, probabilmente non è un caso.
La storia dell’Est è più meticcia di quello che crediamo.
*Igiaba Scego, scrittrice e fellow dell’International Center for Humanities and social change Ca’Foscari-Venice. Si occupa di colonialismo, migrazioni e storia in ottica interculturale.
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