Non è che l’inizio
Il Rn passa all'incasso dopo il disastro neoliberale. Il Nfp tiene, ma si trova davanti alle prospettive incerte dell'«unità repubblicana». Con questo scenario bisognerà fare i conti
La dimensione del successo del Rassemblement National (Rn), il voto alle sinistre, la sconfitta di Emmanuel Macron sono ormai noti e i risultati del primo turno delle legislative francesi sotto gli occhi di tutti. La riconfigurazione della politica francese, quali che siano i risultati del secondo turno, si produrrà con conseguenze sull’intera Europa, in particolare se il Rn dovesse ottenere la maggioranza assoluta, cosa al momento del tutto possibile.
Il partito di Marine Le Pen ha conquistato oltre 10 milioni di voti contro i 9 milioni del fronte unito delle sinistre, segno di una campagna polarizzata e del fatto che l’aumento significativo dell’affluenza elettorale si è diretto verso i due principali contendenti. Ma quel flusso è stato molto più massiccio verso il Rn che verso il Nuovo Fronte Popolare, con una spinta del tutto inedita nel quadro della Quinta Repubblica francese. Solo i gollisti all’inizio del nuovo regime e poi lo stesso Macron con la sua improvvisa ascesa di sette anni fa possono vantare un simile exploit, ma non nella misura e con l’incidenza politica e sociale che avrebbe un governo guidato dalla destra francese.
Al di là dell’esito politico, quindi, il dato fondamentale con cui fare i conti è che quell’elettorato e quel partito sono ormai inaggirabili sulla scena politica francese. Decine di collegi eleggono già al primo turno candidati di estrema destra e quelli che superano la soglia del 30 o 40% al primo turno sono nettamente superiori a quelli delle altre forze. Il voto al Rn ha rappresentato una forza d’urto che ha attivato le energie più nere e profonde di Francia, soprattutto del paese rurale, dei piccoli centri, come evidenziano i voti e le analisi statistiche. Come quella pubblicata dal Financial Times che mostra come il Rn superi il 40% nei paesi fino a 2.000 abitanti e sia molto oltre la propria media, il 33,2% (la somma tra i voti del Rn e la destra di Eric Ciotti, alleate) nelle piccole città fino a 200 mila abitanti. Sopra i centri di 200 mila abitanti scende mediamente al 28% superato ampiamente dal Nfp che sale al 33% (contro la sua media nazionale del 27,9%). La destra francese, come la destra italiana, olandese, austriaca, polacca, ungherese, tedesca, fiamminga o nordico-europea, è quindi un fattore stabile della politica europea e non sarà semplice farci i conti senza un ripensamento complessivo delle politiche economiche, sociali e culturali.
Che la destra sia poi cresciuta espandendosi nella working class è un dato che in Italia conosciamo almeno dagli anni Novanta, quando si osservava il voto leghista nelle fabbriche del nord. Questo dato è ancora più strutturato e ormai definisce un modello sociologico. Citata da Mediapart, un’indagine post-elettorale di Ipsos, condotta su 10 mila persone, mostra la «sovrarappresentanza del Rn negli ambienti operai (operai in particolare) e poco qualificati» mentre «tra gli anziani la sua sottorappresentanza è ampiamente diminuita».
Più preciso il Financial Times, che mostra uno schema in cui il Rn è fortemente in testa (54%) tra coloro che sono definiti «disadvantaged people» , fascia in cui il Nfp con il 29% non riesce a tenere testa alla destra. Primo anche nella «working class», pur se di poco, con il 38% contro il 35% del Nfp. E primo anche nella «lower middle class» con il 36%. Per vederlo scendere, addirittura al terzo posto (25%) occorre salire ancora di reddito nella «upper middle class» in cui la coalizione presidenziale Ensemble con il 28% batte il Nfp al 27 e poi nella fascia dei «well-off or privileged» dove invece il Nfp è primo con il 28% contro il 27% dei macroniani e il 21% del Rn (seguiti dal 18% dei gollisti Les Republicains).
La sinistra quindi fa un buon risultato, soprattutto per la capacità di coalizzarsi e presentarsi unita, dato non scontato fino a pochi mesi, sia chiaro. Ma non sembra in grado di fare un balzo, se non di tenere le posizioni. Sul piano percentuale, addirittura, la somma ottenuta dai partiti che compongono il Nfp (France insumis, Partito socialista, Verdi, Partito comunista ma poi anche i più piccoli Générations, Place publique e Npa) alle scorse europee è maggiore del 28% ottenuto il 30 giugno. Il paragone forse è poco indicativo vista la forte differenza di affluenza al voto, ma è comunque un segnale di una dinamica di tenuta più che di grande espansione. Ancora Mediapart osserva che il risultato delle sinistre «è significativo, ma stagna in modo preoccupante». Dal 2017, il loro peso collettivo oscilla tra un quarto e un terzo dei voti espressi, intorno al 30%. Alle presidenziali del 2017, quelle dell’irruzione di Macron, Jean Luc Melenchon, il capo di France insumis, aveva sfiorato il 20% arrivando terzo e il candidato socialista quasi il 7%. Un altro 1% era andato al candidato del Npa, Philippe Poutou oggi candidato con il Nfp. La somma delle percentuali è grosso modo quella, la stessa delle legislative del 2017 o anche di quelle del 2022 se ai voti della Nouvelle Union Populaire Ècologique et Sociale sommiamo alcune liste della «Divers gauche». Siamo sempre intorno al 28% mostrando che sette anni di opposizione a Macron nel campo della sinistra non hanno prodotto avanzamenti elettorali mentre a destra hanno provocato un terremoto. Gli analisti francesi mostrano che il maggior afflusso elettorale si è diretto verso le storiche roccaforti – ad esempio Parigi – ma non ha permesso di conquistare nuovi territori. Citiamo ancora da Mediapart: «Nella terza circoscrizione elettorale di Lione del Rodano, l’ecologista Marie-Charlotte Garin ha migliorato il suo punteggio di otto punti risultando eletta al primo turno. Nel suo collegio elettorale di Aubervilliers-Pantin, il ribelle Bastien Lachaud ha addirittura quintuplicato il suo punteggio, sulla base di una partecipazione moltiplicata per due». Ma ci sono ancora molti casi in cui la sinistra fatica e l’eliminazione al primo turno del segretario del Partito comunista, Fabien Roussel, è una sconfitta amara così come il risultato del «dissidente» insoumise, François Ruffin, sotto di sei punti nel suo collegio contro il candidato del Rn che ha progredito di 18 punti rispetto al 2022: Ruffin si era fatto avanti nelle scorse settimane per essere un possibile primo ministro in caso di vittoria del Nfp.
Questa disparità si vede chiaramente nel confronto tra i candidati meglio piazzati per il secondo turno: il Rn ne ha molti di più e infatti le stime dei seggi per il partito di Le Pen oscillano tra un minimo di 240 (la maggioranza è a 289) e un massimo di 330.
Tutto dipenderà da cosa deciderà di fare Macron. La scelta da parte del Nfp di optare per la «desistenza» – il ritiro del proprio candidato piazzato al terzo posto nel secondo turno per favorire quello meglio piazzato contro il Rn – è abbastanza netta, lo è di meno nel fronte presidenziale nonostante il primo ministro Gabriel Attal abbia dichiarato che nessun voto deve andare al Rn. Al momento in cui scriviamo, martedì 2 luglio, 185 candidati arrivati al terzo posto si sono già ritirati ma restano in campo ancora 126 «triangolari», sfide cioè con tre candidati. Secondo Le Monde si tratta di 120 desistenze annunciate dal Nfp e 64 da Enseamble. La chiusura delle liste è prevista per le 18 del 2 luglio e quindi si vedrà davvero se la desistenza tra sinistre e macroniani sarà effettiva oppure molto incerta.
Nel fronte del presidente la voglia di votare per candidati della France insoumise è molto scarsa e infatti i distinguo sono fioccati uno dopo l’altro, tra chi ha dato indicazione di votare per un fronte repubblicano «in linea con i nostri valori», chi ha detto più chiaramente, come l’ex primo ministro Edouarde Philippe, votiamo per la Nfp «ma non quando schiera un candidato della France insuomise», cioè la maggioranza dei casi. E per molti osservatori Macron continua a «coltivare l’ambiguità» tra una chiamata al fronte repubblicano contro le destre e una certa voglia di mettere alla prova del governo il Rn e vedere cosa succederà, nell’idea che, come accade per tutti i governi che rimangono dentro un quadro di compatibilità, soprattutto europee, la prova di governo possa logorarli.
Sulla contraddizione delle desistenze tra moderati macroniani e sinistri insoumise, del resto, Marine Le Pen sta puntando molto, visto che nel corso della campagna elettorale Macron è sembrato puntare il dito soprattutto contro la sinistra e il suo presunto «antisemitismo» o, come ha ricordato più volte Attal, il suo programma economico «catastrofico». Nel dibattito pubblico francese la destra e il centro sono sembrate molto in sintonia nel denunciare uno scenario, come ha sottolineato un deputato del Rn la sera del voto in tv, «venezuelano in casa e Hamas in politica estera». Toni allucinanti che però hanno caratterizzato uno scontro politico, fondamentalmente con Mélenchon, per cercare di isolarlo e toglierlo di mezzo. Il problema dei triangolari e il forte radicamento degli insoumise ha dimostrato che questo non è possibile e quindi se i conti si vogliono fare con la sinistra occorre farli anche con la sua componente più radicale.
I macroniani, del resto, fanno affidamento sul fatto di non aver subito una disfatta. Il 20% li colloca al terzo posto, ma trattandosi di legislative significa poter mantenere, soprattutto in caso di desistenze complete e mirate, una componente parlamentare significativa (si stima anche 120 deputati). Il calo complessivo del campo presidenziale, di cinque punti rispetto al 2022, è comunque più debole di quello registrato tra le elezioni europee del 2019 e quelle del 2024. In gran parte è fatto alle spese dei gollisti di Les Republicains, 6,5% e al limite della scomparsa sul piano parlamentare. Questa situazione fa pensare che in fondo la natura tripolare della politica francese possa rimanere in campo, un po’ come l’Italia del 2013 quando centrosinistra, centrodestra e M5S si dividevano quasi in parti uguali il risultato elettorale. E questo, nel caso in cui il Rn non dovesse ottenere la maggioranza assoluta, apre a uno scenario di forte instabilità.
Solo la destra può rivendicare un governo nel pieno dei poteri mentre sinistra e centro dovrebbero allearsi. Ma su quali politiche, con quali prospettive? L’indicazione dell’unità «repubblicana» contro l’estrema destra è giusta e viene percepita come doverosa da gran parte dell’elettorato della sinistra. Ma l’unità può bastare per fondare un progetto di governo? Abbiamo già visto in Italia che questa eventualità non è possibile, anzi, governare mettendo in comune profonde divergenze e vere contrapposizioni di classe – come quelle che esistono tra i programmi della France Insoumise e Macron – costituirebbe un’ulteriore spinta per le destre. L’ex presidente socialista, François Hollande, abilmente candidatosi con il Nfp (è primo nel suo collegio in attesa del secondo turno) ha proposto una sorta di «governo tecnico» per tamponare l’emergenza. La proposta, per chi ricorda le esperienze dei vari governi Monti e Draghi, è indicativa della difficoltà di fronte a cui è posta la sinistra francese. Oggi, ovviamente, in Francia l’idea dominante è che per il momento occorre impedire al Rn di vincere e di governare, poi si vedrà. È giusto, ma il «poi si vedrà» non può non fare i conti con l’analisi profonda del voto, con quelle spaccature e quei clivages che i dati hanno mostrato e con un bilancio serio di cosa è accaduto in questi ultimi dieci anni (se non di più). Oltre che con il nodo delle identità politiche e programmatiche. Il Nfp si è presentato con un programma di riformismo radicale inedito di questi tempi e attaccato da tutto l’establishment. Quel programma è importante e forse è stato presentato in forma così credibile e unitaria troppo in ritardo. Quale che sia il risultato del secondo turno si tratta di vedere se la stagione dell’unità delle sinistre, attorno a un programma radicale in grado anche di evolvere sotto la pressione popolare, sia stata solo all’inizio o invece terminerà dopo il 7 luglio. La vera disfatta sarebbe quella.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023).
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