
Non si esce vivi dalla Seconda Repubblica
Alla faccia del futuro: siamo imprigionati nelle gabbie economiche, nelle retoriche politiche e negli slogan da talk show che si sono affermati quasi trent’anni fa. È ora di abbandonarli
«Cos’è che non mi piace in questo baraccone? Sarà che dentro è triste e starne fuori è una prigione». Sono passati quasi vent’anni da quando gli Afterhours cantavano Non si esce vivi dagli anni 80, e l’impressione è che in Italia si fatichi a uscire vivi anche dai 90, per non parlare dei 2000. Italia 1 ha ricominciato a trasmettere Friends, nei prossimi mesi uscirà il quarto film della saga di Matrix e recentemente è tornata di moda un’altra grande specialità della fine del XX secolo: il governo tecnico.
L’ultimo decennio del millennio è stato un passaggio chiave per buona parte del pianeta, chiamato a fare i conti con le conseguenze della fine del socialismo reale e della Guerra fredda: la riunificazione tedesca, l’integrazione europea, le guerre nei Balcani, l’idea di una nuova pax americana in un mondo unipolare, la Terza via di Tony Blair e Bill Clinton a guidare la sinistra occidentale verso l’abbraccio con il neoliberismo. Ma in Italia il passaggio è stato particolarmente cruciale, con il collasso di un intero sistema politico sotto il peso delle inchieste per corruzione, la scomparsa pressoché totale nel giro di pochi mesi di tutti i partiti che avessero avuto responsabilità di governo nei quarant’anni precedenti. L’estate 1993 è una di quelle stagioni in cui si concentrano decenni di storia: ad aprile il referendum sulla legge elettorale mette di fatto fine alla Prima Repubblica, e il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi viene chiamato a guidare un esecutivo tecnico d’emergenza. A luglio, il governo Ciampi firma con sindacati e Confindustria un accordo storico su contrattazione e moderazione salariale, aprendo l’epoca della «concertazione», mentre la mafia si lancia in un’inedita campagna di attentati esplosivi in piazze e monumenti. L’autunno porta le prime elezioni dirette dei sindaci, con la scomparsa di Dc, Psi e vecchi alleati, il trionfo della nuova sinistra progressista di Francesco Rutelli, Massimo Cacciari, Riccardo Illy e Antonio Bassolino, e una destra che prova a riorganizzarsi intorno alla ruggente Lega Nord e ai neofascisti dell’Msi. Pochi mesi dopo, Silvio Berlusconi rovescerà il tavolo ponendosi alla guida della destra e conquistando in poche settimane il governo del paese.
Tra il governo Ciampi e oggi c’è più distanza, se contiamo gli anni, che tra quell’epoca e il Sessantotto. Eppure il dibattito politico italiano sembra essere, per molti aspetti, bloccato per sempre a quel momento: dall’ossessione per il bilancio pubblico alla definizione di «carrozzoni» per qualsiasi tipo di azienda di stato, all’idea diffusa che i lavoratori siano troppo tutelati, che i dipendenti pubblici siano troppi, che si vada in pensione troppo presto, che il nostro paese sia appesantito da un eccesso di spesa pubblica. Tutti elementi che tuttora dominano il dibattito politico, nonostante la realtà nel frattempo sia cambiata: l’Italia ha meno dipendenti pubblici per abitante di Francia e Germania, un bilancio strutturalmente in attivo al netto degli interessi sul debito e, dopo una serie infinita di riforme, l’età pensionabile più alta d’Europa. La situazione è talmente paradossale che un giovane economista austriaco, Philipp Heimberger, ha lanciato recentemente su Twitter l’hashtag #CAIN: Campaign Against Italy Nonsense, con cui pubblica regolarmente dati e grafici che smentiscono alcuni luoghi comuni anni Novanta sull’Italia fannullona e spendacciona.
Dopo le «Notti magiche» di Italia 90 sono stati portati a compimento processi storici di trasformazione sociale ed economica del paese, perseguiti con determinazione ed efficienza: uno dei più grandi programmi di privatizzazioni della storia europea, con il passaggio in mano privata, attraverso la mediazione dei più importanti centri finanziari europei e americani, di colossi industriali, energetici, logistici, bancari; una serie infinita di riforme delle pensioni, con il passaggio al regime contributivo e l’innalzamento periodico dell’età pensionabile; e poi le riforme del mercato del lavoro, la precarizzazione, il blocco a intermittenza del turnover nel pubblico impiego, ecc. La ristrutturazione neoliberista in una sua forma particolarmente radicale. L’austerità che molti paesi europei hanno conosciuto nella fase post-2008, anticipata al secolo precedente.
Eppure sembra non bastare mai. Gli editoriali dei grandi quotidiani continuano a essere scritti come se tutto ciò non fosse mai avvenuto, e i topos giornalistici anni Novanta non passano mai di moda: gli sprechi del pubblico, le pensioni baby, i furbetti del cartellino. Un’ossessione che ha finito per generare, per reazione, una subcultura, diffusa anche e soprattutto a sinistra, di adorazione acritica per la Prima Repubblica come l’età dell’oro di statalismo e bilanci allegri. Una lettura non solo ideologicamente ambigua, che confonde il socialismo con le partecipazioni statali e la spesa pubblica clientelare con i soviet, ma anche ingenua, scordando che la fase delle privatizzazioni e del neoliberismo era stata inaugurata da Dc e Psi prima del crollo.
Se i cambiamenti sociali ed economici non vengono registrati da un dibattito pubblico fermo al governo Ciampi, è perché nel frattempo una cosa è effettivamente cambiata ben poco: la politica. Il populismo, che in buona parte dell’Occidente è stato la risposta politica alla crisi del 2008, in Italia non è stato affatto una novità. Il miliardario televisivo che incanta un paese con il suo tono da venditore, il fondotinta eccessivo, la mascolinità volgarmente strabordante e il narcisismo patologico, non sono stati un’invenzione americana. Prima di Donald Trump, c’è stato Silvio Berlusconi. Una presenza ossessiva per vent’anni, poi rimossa senza mai essere analizzata e storicizzata. Eppure è impossibile capire la politica di oggi senza tenere conto di Berlusconi. Pensiamo alle principali figure politiche degli ultimi anni: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Giuseppe Conte. In ognuno di loro c’è una traccia evidente dell’eredità del Cavaliere. La fama televisiva Grillo, Renzi l’arroganza leaderistica, la spregiudicatezza nel risvegliare gli istinti peggiori dalla pancia degli italiani Salvini, Conte l’eleganza datata e il sorriso piacione di seduttore di casalinghe attraverso lo schermo. Tutti quanti, l’attitudine compiutamente post-ideologica, la spregiudicatezza nel cambiare idee e alleanze nel giro di un istante, sé stessi come principale tema politico.
La Seconda Repubblica è stata, del resto, il trionfo dei faccioni da sei metri per tre sui muri delle città, dei nomi dei leader sui simboli elettorali, della distinzione tra «berlusconiani» e «antiberlusconiani» come principale linea di demarcazione politica, a cui sono seguite quelle tra grillini e antigrillini, renziani e antirenziani, salviniani e antisalviniani, ora addirittura contiani e anticontiani. Il crollo del ’92-’93 fu prima di tutto il crollo di un sistema di rappresentanza, quello dei partiti, travolto dalle macerie della corruzione e forse ancora di più da quelle della Guerra fredda su cui era stato costruito. La parola più utilizzata dagli scienziati politici italiani nei decenni successivi è stata «transizione»: l’idea che nel tempo si sarebbe ricostruito un nuovo sistema politico sulle ceneri del precedente. Lo si immaginava americano, maggioritario, bipartitico. La faccia politica della transizione neoliberista in economia. Eppure questa transizione non è mai approdata a un ordine stabile, e ormai brucia leadership e partiti più velocemente di quanti ne riesca a produrre.
Il risultato è che mentre gli anni post-2008, in molti paesi d’Europa, sono stati anni di grande innovazione e cambiamento sul piano dell’offerta politica, l’Italia ha mantenuto per intero tutti i tic della Seconda Repubblica: alleanze tanto eterogenee al loro interno quanto convergenti tra loro, partiti effimeri che si scindono a ogni voto parlamentare, il trasformismo come abitudine. Tutti fenomeni per la verità rarissimi nella storia della Repubblica, fino, appunto, agli anni Novanta. Quando si fece strada l’idea che fosse possibile mantenere in piedi un sistema rappresentativo solido basato sul consenso popolare senza organizzazioni strutturate e caratterizzate da un determinato livello di identificazione ideologica. Personaggi come Bruno Tabacci e Clemente Mastella, ormai professionisti, anche stimati, del transfughismo parlamentare, non avevano mai cambiato partito, fino al 1993. Una volta cambiato il primo, diventa tutto più facile.
Una politica post-ideologica, in cui partiti e coalizioni condividono in sostanza la cornice generale delle politiche sociali ed economiche, eppure si vive in uno scontro di civiltà perenne. Esattamente come ai tempi di Polo e Ulivo, i toni sono da guerra civile imminente, pur essendo la distanza politica tutt’altro che abissale. Lo scontro si dà su meta-questioni strutturatesi appunto nella Seconda Repubblica, come quella della giustizia. Alla fine, perché Giuseppe Conte si è dimesso? Perché sarebbe finito in minoranza, al Senato, nel voto sulla relazione «giustizialista» del ministro grillino Alfonso Bonafede, con i renziani nel ruolo «garantista» ereditato da Forza Italia. Come ereditata da Forza Italia è buona parte del governo Draghi, non solo in figure come Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, ma anche come formula politica di asse tra impresa settentrionale, mondo cattolico e burocrazia romana nella lotta di classe verso il basso e nella spartizione dei fondi pubblici.
Del resto il Movimento Cinque Stelle è il figlio prediletto della Seconda Repubblica, quello che si modella a specchio sui genitori, ha una fase adolescenziale ribelle ma poi torna a casa. Un parto del berlusconismo e dell’antiberlusconismo. Da una parte, un partito nato da una personalità televisiva, scesa in campo in polemica nei confronti della politica tradizionale, sostenendo che destra e sinistra sono superate ed è ora di lasciare spazio a bravi tecnici e professionisti che sanno fare concretamente. Dall’altra, la corruzione come tema centrale di battaglia, l’onestà come slogan e valore assoluto, la fedina penale come unico metro di giudizio dell’azione politica. Abbastanza berlusconiani da essere votati da chi ha amato Silvio e abbastanza antiberlusconiani da sedurre chi l’ha odiato. Poteva non arrivare qualcuno ad «aprire il parlamento come una scatoletta di tonno», dopo vent’anni di antiparlamentarismo e antipartitismo spintissimi?
E poteva non arrivare Mario Draghi, quarto presidente del consiglio «tecnico» della storia d’Italia, altro fenomeno tutto interno alla Seconda Repubblica, ancora una volta un ex governatore della Banca d’Italia chiamato a zittire la litigiosità della politica in nome del «fare» del pensiero unico neoliberista, esattamente come Carlo Azeglio Ciampi 28 anni fa? Del resto, i presidenti del consiglio della Seconda Repubblica, tranne alcune eccezioni (D’Alema, Amato, Letta, Gentiloni), sono stati uomini extrapartito o presunti tali, che hanno costruito la propria carriera negli affari, nell’accademia, nell’amministrazione locale, da Ciampi a Draghi passando per Berlusconi, Dini, Prodi, Monti, Renzi, Conte.
Un eterno loop privo di riferimenti stabili che possano dare continuità a battaglie politiche di medio-lungo periodo. Se la crisi della rappresentanza è un fenomeno che caratterizza l’intero Occidente, da nessun’altra parte si è data in queste dimensioni. Se movimenti e sindacati italiani volessero emulare l’operazione incarnata da Jeremy Corbyn nel Regno Unito, non avrebbero un Labour party in cui farla. E se volessero invece tentare la strada dell’assalto maggioritario da parte della sinistra radicale, come in Grecia, non troverebbero una Syriza. Sedimentare opzioni politiche che vadano oltre il piccolo cabotaggio incontra ostacoli molto concreti e materiali nell’assenza di spazi politici che non siano destinati a mutare nel giro di pochi mesi. Chi scrive non ha mai avuto l’occasione di mettere la croce sullo stesso simbolo più di una volta, per ormai un decennio. Se la transizione del sistema politico è ancora incompiuta, quella della sinistra l’ha portata ad affondare. Nella Seconda Repubblica, di fatto, l’opzione della sinistra come forza politica autonoma rispetto alle altre, con una propria base elettorale e un proprio progetto politico, e non come corrente critica di un indistinto centrosinistra, si è eclissata, se è mai realmente esistita. E il centrosinistra si è cristallizzato, fin dal ’93, come la forza dell’amministrazione e dell’affidabilità, della tenuta istituzionale e delle garanzie internazionali. Vivere la politica italiana in questi anni vuol dire veder ricominciare il futuro altrove, più volte, mentre si vive la frustrazione di un presente bloccato poco dopo la caduta del muro di Berlino. Forse, per uscire da questo loop, è necessario storicizzare questa fase. Si tratta di anni ancora poco coperti anche dalla fiction: solo le serie tv di Sky 1992, 1993 e 1994 hanno parzialmente scalfito un panorama culturale monopolizzato dagli anni Settanta e dal fascismo. Forse è arrivato il momento di fare i conti con Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema come altri li hanno fatti con John Major e Tony Blair.
* Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).
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