
Papa Renzo Rosso da Venezia
Per la prima volta, una targa su un monumento storico celebra un singolo individuo che ne ha finanziato la ristrutturazione. Come accadeva per le epigrafi imperiali o vaticane
«Renzo Rosso e Otb finanziarono il restauro del Ponte di Rialto riportandolo alla sua magnificenza perché il mondo ne goda / Only The Brave (solo i coraggiosi) / Ottobre 2019». Questo sta scritto da lunedì sera sulla sommità del Ponte di Rialto, di fronte a una delle viste più iconiche e fotografate di Venezia. A imperitura memoria, si può dire dato il tono. È scritto solo in inglese, la lingua internazionale e dominante, a segnalare quanto il messaggio sia rivolto non alla cittadinanza veneziana, neppure a chi vive il territorio, ma agli avventori di tutto il mondo che attraversano il ponte e si rivolgono verso quella balaustra, come a dire «tutto questo, che vedi per la prima volta, è così grazie a noi, a me».
La targa, non poteva essere altrimenti – e certo era tra gli esiti cercati – ha scatenato polemiche, prima con lo svelamento del 6 settembre. Poi con l’inaugurazione della targa stessa, avvenuta con una maestosa cerimonia alla presenza delle autorità (il ministro al turismo Massimo Garavaglia, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e il patriarca Francesco Moraglia) e con performance di Andrea Bocelli, la mattina del 7 settembre. In quell’occasione il patron della Diesel Renzo Rosso ha immediatamente replicato alle polemiche, in particolare scatenate dalla comunità online di residenti veneziani Venessia.com, che ha scritto su Facebook: «non ci piace la targa posta sul Ponte di Rialto, non ci piace per niente. Il mecenatismo si fa e non lo si sbandiera in questo modo. Male chi lo ha fatto e chi gliel’ha permesso», dando voce alle migliaia di veneziani che si trovavano spaesati da una presenza simile. «Guardiamo la bellezza di quello che è stato fatto» ha detto Rosso «e a chi contesta rispondo, perché non lo fate voi?», senza rendersi conto che probabilmente pochi dei contestatori hanno un avanzo di 5 milioni di euro da investire in una sponsorizzazione.
Si tratta di una targa legale, per la legislazione italiana vigente, che dal 2004 permette a chi finanzia un restauro di «sponsorizzarlo». Nonostante la confusione a riguardo, alimentata anche dal sindaco di Venezia che ripetutamente ha associato la sponsorizzazione al mecenatismo e all’ArtBonus, il restauro non è avvenuto nell’ambito delle sponsorizzazioni normate dall’ArtBonus (legge 106/2014), ma dal più antico articolo 120 del Codice dei Beni Culturali. Questo prevede di ottenere fondi per «la progettazione o l’attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività del soggetto erogante» associando il marchio al monumento. Una concessione ai finanziatori con pochi paragoni nel mondo. L’ArtBonus invece, che garantisce il 65% di credito d’imposta a chi dona, non permette simili associazioni ma solo «menzionare nel sito web degli enti beneficiari, previa opportuna liberatoria da parte del mecenate, un pubblico ringraziamento a quest’ultimo (solo citando il nome o la ragione sociale senza far riferimento al marchio, attività, prodotti, etc)». Qui abbiamo ben altro, ed è interessante notare la creazione di un mecenatismo a due velocità: associazione del marchio al monumento per chi può fare a meno del credito d’imposta – anche per le sponsorizzazioni i costi sostenuti sono totalmente deducibili dal reddito d’impresa – e semplice menzione per chi invece, ricorrendo all’ArtBonus, dovrà accontentarsi di un pubblico ringraziamento morigerato.
Rosso ha ricevuto questa onorificenza per una spesa che potrebbe apparire ingente, ma che va contestualizzata: meno dei sussidi che, per il solo 2020, il Ministero ha erogato alla Fondazione Musei Civici di Venezia, ad esempio; in buona parte coperta dai ricavi pubblicitari ottenuti dall’esposizione pluriennale del marchio Diesel sul Ponte di Rialto; corrispondente allo 0,5% del fatturato aziendale e comunque completamente deducibile dal reddito d’impresa.
Nonostante una vulgata che vorrebbe l’evento come l’ultimo di una lunga serie, in nome del «è sempre stato così», si tratta di un evento di portata rilevante, per certi versi epocale per la città lagunare: la targa e la cerimonia sono per certi versi inedite. Non solo perché, seppur sia diventato usuale negli anni vedere lo sponsor associare il proprio nome e marchio al monumento attraverso enormi ponteggi coperti da pubblicità, mai nello spazio pubblico era stata, al termine del restauro, affissa una targa per un singolo individuo (va detto che la targa era prevista dal bando del 2012, mentre il testo della stessa è stato proposto da Rosso e svelato il 6 settembre). Andando quindi ad alzare l’asticella di quella associazione del marchio al monumento, prevista per legge ma di recente arrivata a nuovi picchi, con l’associazione del Colosseo a Tod’s in esclusiva per quindici anni (già contestata dalla Corte dei Conti), con targhe più o meno invasive e ora con questo caso veneziano.
Ma c’è altro, di cui forse neppure il finanziatore ha piena contezza. Il testo della targa, di chiaro rimando a epigrafi imperiali o papali, è qualcosa di nuovo nel contesto veneziano, in cui la Repubblica per secoli, governata da una oligarchia dai delicati equilibri interni, aveva impedito celebrazioni di singoli individui con statue o targhe commemorative di tal fatta. Eppure la Soprintendenza ha valutato la compatibilità «con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare», nonostante la profonda innovatività dell’opera: pochi personaggi viventi, nei 1600 anni di storia della città, hanno goduto di una simile celebrazione sulla pubblica piazza, figuriamoci nel ponte più centrale e importante dell’abitato: anche questo un segno dei tempi.
Sono considerazioni che appaiono banali, o superflue, ma lo spazio d’azione di quella che ragiona come una oligarchia de facto – seppur in disperata ricerca di una legittimazione popolare, ecco perché non bastava la pubblicità ma serviva una pomposa targa – si amplia anche con eventi simili. Per 5 milioni di euro si crea un precedente che, per forza di cose, andrà a incidere in maniera radicale sulla storia cittadina e sul paesaggio urbano veneziano dei prossimi anni. Chiunque abbia qualche milione da investire (il ritorno d’immagine per simili restauri è assicurato) potrà pretendere anche un monumento, più o meno invasivo, a celebrazione dell’impresa. In una città in cui simili monumenti mai hanno fatto parte del paesaggio urbano. C’è da chiedersi: ne valeva la pena?
*Leonardo Bison è dottore di ricerca in Archeologia all’Università di Bristol. Collabora con Il Fatto Quotidiano e Finestre sull’Arte ed è attivista dell’associazione Mi Riconosci.
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