Perché le città si ribellano
Pochi giorni prima dello scoppio dei riot negli Stati uniti, David Harvey ha scritto del lockdown in relazione al collasso di cinquant’anni di politiche urbane. Con un annuncio «Si verificheranno delle rivolte».
È possibile che se e quando saremo in grado, come collettività, di superare il trauma del Covid-19, ci ritroveremo in un panorama politico in cui riformare il capitalismo sarà in cima alla lista delle cose da fare. Già prima della comparsa del virus c’erano stati i primi indizi. I capi d’impresa delle aziende più importanti riuniti a Davos, ad esempio, avevano intuito che la loro ossessione per il profitto e il valore di mercato e la loro negligenza nei confronti dell’impatto sociale e ambientale delle loro azioni stavano diventando controproducenti. Gli era stato consigliato di proteggersi dalla crescente rabbia sociale con qualche spruzzata di «coscienza» o «eco-capitalismo».
Lo stato pietoso della sanità – intesa come baluardo della società di fronte al virus, risultato di quarant’anni di politiche neoliberiste in molte parti del mondo – non ha fatto che aumentare il livello di insofferenza pubblica. L’austerità rispetto a qualsiasi cosa non fosse una spesa militare o un sussidio alle imprese cosiddette in difficoltà – spesso invece schifosamente ricche – ha lasciato un sapore amaro, e sempre più pungente dopo il salvataggio delle banche nel 2008. All’opposto, quando le misure collettive e statali per fronteggiare l’epidemia hanno funzionato gli indici di consenso per l’amministrazione sono saliti.
Nel corso di memorabili conferenze stampa quotidiane, il governatore di New York Andrew Cuomo insiste sul fatto che per uscire dalla crisi attuale non ci sarà solo bisogno di immaginare un nuovo panorama politico, economico e sociale, ma sarà necessario fare leva su quella che lui definisce un’eccezionale riconciliazione tra le espressioni della volontà popolare e i poteri del governo. Per coloro di noi che hanno vissuto il recente incubo di New York, questa professione di fiducia nel valore dell’intervento statale avrebbe più di una ragion d’essere. Sfortunatamente, i preparativi di Cuomo per questo esercizio immaginativo hanno finora portato al coinvolgimento dei club di miliardari di Michael Bloomberg (per organizzare i test), di Bill Gates (per coordinare le iniziative didattiche) e dell’ex-Ceo di Google Eric Schmidt (per ricalibrare le comunicazioni e le funzioni del governo). La marea democratica che sale dal basso e ha preso piede nelle strade non è ancora riuscita a incidere sul potere politico. Nel pensiero di Cuomo, lo sforzo immaginativo e la ricostruzione devono essere tarate sui bisogni del capitale e su quelli delle persone così come sono definiti dall’élite capitalista progressista.
Le città di cui abbiamo bisogno
Nella lunga storia della governance borghese degli Stati uniti, ci sono state alcune fasi significative che hanno visto riforme radicali, come ad esempio l’era progressista alla fine degli anni Venti del Novecento, il New Deal degli anni Trenta e la Great Society degli anni Sessanta. L’opinione diffusa sembra dirci che siamo già in ritardo sulla prossima.
È in un contesto del genere che sembra esserci una gara a ricostruire soprattutto la vita urbana, per rivitalizzare i processi urbani e promuovere non solo una forma di sviluppo più razionale – e più eco-friendly – ma anche una modalità di organizzazione della vita quotidiana più adeguata. Così come ha svelato i danni latenti inflitti alla qualità della vita quotidiana della gran parte dei newyorkesi, il virus ha anche rivelato l’enorme quantità di marciume sotto la superficie glitterata del consumismo di massa, di un individualismo auto-indulgente, e degli sgargianti interventi architettonici.
È in questo spirito che le riflessioni recenti della redazione del New York Times, intitolate «Le città di cui abbiamo bisogno» – integrato da diversi editoriali di esperti invitati a esprimersi – ci chiedono di prendere parola. Il tema centrale è abbastanza semplice. Tanto tempo fa «le città funzionavano. Ora non funzionano». Abbiamo bisogno di farle funzionare di nuovo.
Dietro un’affermazione del genere si cela la ricostruzione nostalgica di un’epoca in cui «le città americane erano il motore rombante del progresso economico della nazione, la vetrina della sua ricchezza e cultura, oggetto di fascinazione, ammirazione e aspirazione in tutto il mondo». Nei bei vecchi tempi, «le città erano le chiavi per sbloccare il potenziale umano; un’infrastruttura di scuole pubbliche e college, biblioteche e parchi pubblici, con un sistema di trasporto pubblico e un’acqua potabile e pulita», anche se erano «deturpate dal razzismo, sanguinanti per le spoliazioni delle élite e insozzate dall’inquinamento e dalle malattie». Ma, soprattutto, queste città «offrivano un’opportunità».
Oggi il problema – è questo che il virus ha rivelato con un’evidenza lacerante – è che «le nostre aree urbane sono avviluppate da confini invisibili [?] e sempre più impermeabili che dividono enclavi di privilegio e ricchezza da quartieri in piena decadenza, con edifici vecchi e lotti vuoti in cui il lavoro scarseggia e la vita è difficile e troppo spesso breve». L’aspettativa di vita nei quartieri più poveri è di soli sessant’anni, mentre nei sobborghi più ricchi è di novanta. Per enfatizzare questo dato, il Times ha pubblicato una mappa incentrata sulle differenze di aspettativa di vita nelle città statunitensi.
Tutti insieme?
Non ci sono dubbi sul fatto che le opportunità di vita dipendano dal codice postale in cui si è nati. La litania degli odierni fallimenti è lunga (e per niente invisibile). Come osserva il Times:
Nel corso dell’ultimo mezzo secolo l’infrastruttura delle possibilità cittadine ha subito un tracollo. Le scuole pubbliche non sono più in grado di formare gli studenti per il successo. Le metropolitane non sono più affidabili. L’acqua è contaminata dal piombo.
La carenza di case accessibili in buoni quartieri costringe lavoratori e lavoratrici con salari bassi a spostamenti sempre più lunghi e difficili con un sistema di trasporti pubblici sempre peggiori. Significa centinaia di senzatetto accampati sulle strade, sugli autobus e sulle metro. Implica che la mappa delle opportunità educative si strutturi attorno alle differenze di reddito e ricchezza, contribuendo a cristallizzare e approfondire le divisioni di classe e razza. La conclusione della redazione è che «i ricchi hanno bisogno di forza lavoro; i poveri hanno bisogno di capitale. E la città ha bisogno di entrambi». Dobbiamo fare uno sforzo tutti insieme per costruire una forma urbana più soddisfacente e più equa. È una conclusione incredibile. Non fa altro che riaffermare la supremazia delle strutture che stanno alla base della gran parte dei problemi della vita urbana contemporanea.
I ricchi hanno bisogno di forza lavoro perché è il lavoro a farli ricchi. Ma è il capitale a essersi preso la fetta più grande della torta della ricchezza prodotta negli ultimi quarant’anni. Ed è sempre il capitale ad aver ridotto la forza lavoro all’ombra di sé stessa attraverso la precarietà, il dislocamento tecnologico, la deindustrializzazione, e molti altri malanni che producono città la cui popolazione vive di assegno in assegno, incapace di sopravvivere senza ricorrere a un’ente di beneficienza o a una banca del cibo e a pasti gratis. Produce una popolazione che non è in grado di pagare l’affitto, per non parlare di un mutuo, quando è colpita dalla disoccupazione o da qualche altra tragedia personale o malattia.
Ronald Reagan disse in una frase divenuta celebre che «il governo non è la soluzione al nostro problema, il governo è il problema». Finché non capiamo che «il capitale non è la soluzione al nostro problema, il capitale è il problema» non ci sarà niente da fare. Il capitale costruisce complessi residenziali di lusso per gente che prova a vivere con meno di 40 mila dollari l’anno. Finché il capitale lo renderà possibile, qualunque tentativo di riforma, per quanto ben intenzionato, sarà sicuramente cooptato dal ciclo infinito di accumulazione capitalista a beneficio di pochi. Il capitale continuerà a funzionare in questo modo irrispettoso delle conseguenze sociali ed ecologiche delle sue azioni, lasciando la stragrande maggioranza della popolazione a grattare il fondo e risparmiare – sempre che sia possibile – semplicemente per restare a galla.
Un motivo familiare
La redazione ci lascia con una semplice esortazione speranzosa diretta ai nostri istinti morali più elevati, ai nostri angioletti buoni, per risolvere un problema per cui ci sarebbe bisogno di una profonda riforma strutturale. «Ridurre la segregazione significa chiedere agli americani più ricchi di condividere, non necessariamente di sacrificarsi», dicono loro. Dio non voglia che i più ricchi si debbano sacrificare! «Costruire quartieri più differenziati, e scollegare le istituzioni pubbliche dalla ricchezza privata», sostengono speranzosi, «renderà più ricche le vite di tutti gli americani – e renderà le città in cui vivono e lavorano nuovamente un modello per tutto il mondo».
Io ho ottantaquattro anni, e ho sentito troppe volte cose del genere per poterle prendere sul serio. Nel 1969 mi sono trasferito in una Baltimora segregata un anno dopo che la città era stata bruciata dai riot seguiti all’assassinio di Martin Luther King Jr. Non mi ci volle molto all’epoca per stancarmi della moralizzazione pietistica – la stessa che la redazione mi ha suscitato ancora – e dello spirito da benefattore di quanti genuinamente (ma anche ingenuamente) credono che si sistemerà tutto, che quelli di noi di buona volontà (con l’aiuto, si presume, di una qualche pillola d’empatia creata apposta per i soggetti più riluttanti) riconosceranno i nostri destini come interconnessi, che tutti noi condividiamo la stessa città.
Ho scritto un libro su tutta quest’esperienza, Giustizia sociale e città, nel quale cerco di affrontare la continuità di lungo periodo dei problemi urbani legati al capitalismo. Cinquant’anni dopo sembriamo finiti in un loop, commettiamo sempre gli stessi errori. All’epoca era già perfettamente chiaro che il meccanismo di mercato – che richiede la produzione di carenze per funzionare – era il principale colpevole di questo sordido dramma. Pensarla in questi termini aiuta a spiegare perché quasi tutte le politiche pensate per alleviare le diseguaglianze urbane finiscono impantanate nella contraddizione che ne sta alla base.
Se ci impegniamo nella «rigenerazione urbana» non faremo altro che spostare la povertà in giro (Engels, nel suo saggio del 1872 sulla questione abitativa, suggerì che questa fosse l’unica soluzione della borghesia ai problemi urbani). Se non lo facciamo, non ci resta che sederci e aspettare che lo sfacelo avanzi. «Indorare il ghetto» – come si dice – purtroppo non aveva funzionato, e così sparpagliare la popolazione interessata lungo lo spazio urbano doveva essere la nuova risposta. Ma anche questo non ha funzionato granché. Quest’ultimo approccio può aver smantellato il ghetto in qualche modo, ma non ha ridotto i livelli di povertà o diminuito la discriminazione razziale.
La frustrazione causata da risultati tanto fallimentari ha portato alla conclusione che i poveri siano responsabili delle loro condizioni precarie, rinchiusi come sono in specifiche «culture della povertà». L’unica risposta adeguata, disse all’epoca Daniel Patrick Moynihan [sociologo e docente ad Harvard è stato sia consigliere di Richard Nixon che senatore di New York del Partito democratico] era la «negligenza benevola». Era l’anticamera del topos neoliberista della responsabilità personale e dell’«imprenditore di sé stesso», che ha giustificato la colpevolizzazione delle vittime e ha aiutato a evadere i bisogni imbarazzanti che emergevano dal continuo fallimento di quelle politiche. Pochi osservatori analizzano le forze che governano il cuore pulsante del nostro sistema economico (Moynihan, per inciso, è anche il modello e mentore politico di Cuomo).
Turismo emozionale
Il risultato è che in quegli anni venne sperimentato ed esplorato ogni genere di soluzioni, tranne quelle che avrebbero potuto sfidare l’economia di mercato capitalista. Eppure questa è l’economia che, lasciata a sé stessa, inevitabilmente produce quella spirale di impoverimento che l’attuale pandemia sta così crudamente rivelando. Quando il 40% dei trenta milioni di persone che oggi sono disoccupate guadagna meno di 40 mila dollari l’anno, dobbiamo prendere atto del fallimento del capitalismo contemporaneo nel provvedere alle necessità umane di base. La linea neoliberista della responsabilità personale e della formazione di capitale umano che si è sviluppata negli anni Settanta si è dimostrata un modo conveniente per la classe capitalista e per le aziende per fuggire dai fallimenti dell’ondata di riforme degli anni Sessanta, senza smettere per questo di arricchirsi.
È dunque vitale mettere attentamente sotto esame le basi della nostra società. È un compito urgente. Ma fatemi prima dire che cosa questo compito non include. Come dicevo nei primi anni Settanta, non si tratta di fare una nuova indagine empirica sulle condizioni sociali delle nostre città. Per la verità mappare ulteriori evidenze della palese disumanità dell’uomo nei confronti degli altri uomini è controproducente, nel senso che permette ai liberali dal cuore tenero che sono in noi di fingere di star contribuendo a trovare una soluzione, quando in realtà non è così. Questo genere di empirismo è irrilevante, anche se potrebbe valere un Premio Nobel.
Ci sono già abbastanza informazioni disponibili, con tutte le prove di cui abbiamo bisogno. Il nostro compito non riguarda questo campo. Non include quella che possiamo solo definire come «masturbazione morale», del tipo che accompagna il montaggio masochistico di qualche dossier immenso sulle ingiustizie quotidiane a cui è soggetta la popolazione urbana, sulle quali possiamo batterci il petto e commiserarci l’uno con l’altro prima di ritirarci nel comfort delle nostre case. Anche questo è controrivoluzionario, perché serve soltanto a espiare una colpa senza mai costringerci a confrontarci con il problema fondamentale, figuriamoci a fare qualcosa.
E non è una soluzione nemmeno indulgere in quel genere di turismo emozionale che ci porta a vivere e lavorare insieme ai poveri «per un po’», nella speranza di poter davvero aiutarli a migliorare il loro quartiere facendo volontariato in una cucina sociale o donando a una banca del cibo (per quanto possa essere utile nel breve periodo). A cosa serve aiutare una comunità a costruirsi un parco giochi in un’estate di lavoro, se poi in autunno le scuole cadono a pezzi? Queste sono strade che non dovremmo prendere. Rappresentano soltanto una distrazione rispetto al compito che abbiamo davanti.
Un nuovo quadro
Questo compito immediato non è niente di più che la costruzione della coscienza di un nuovo quadro politico per approcciare la questione delle diseguaglianze, attraverso una critica profonda del nostro sistema economico e sociale. Dobbiamo mobilitare collettivamente la nostra capacità di pensiero per formulare concetti e categorie, teorie e argomenti, che possano essere applicati al compito di realizzare una trasformazione sociale più umana. Questi concetti e queste categorie non possono essere formulati astraendosi dalla realtà sociale. Devono essere forgiati realisticamente, rispettando gli eventi e le azioni mentre si sviluppano attorno a noi. Le evidenze empiriche, che sono già di per sé un dossier, e le esperienze guadagnate nella comunità possono e devono essere utilizzate. E bisogna far tesoro di quell’onda crescente di empatia politica che aumenta la stima diffusa per le persone che sono andate avanti con le loro vite di fronte al pericolo. Quell’onda non porterà a nulla se non viene consolidata da riforme radicali e di lungo respiro.
Il virus, si dice, non discrimina. Certo, come no! Al pari della redazione del New York Times, io vivo confortevolmente isolato in casa mia, forte del mio salario, sulle spalle di una forza lavoro segregata che deve scegliere tra lo sfratto e la fame per disoccupazione da un lato, o mandare avanti la città e la sua rete di cura e sicurezza a salario minimo dall’altro. E deve anche affrontare il rischio di contagio con un virus mortale, ogni giorno. In che parte della città risiedono questi lavoratori e queste lavoratrici? E quante e quanti di loro sono razzializzati, immigrati, latinos e latinas? Quanti computer hanno a disposizione i loro figli?
In questo senso ci troviamo di fronte a una continuità inquietante nell’ultimo secolo e mezzo. È sicuramente il momento di interrompere questo spettacolo già visto. Dobbiamo farla finita, e progettare la creazione di forme di urbanizzazione più democratiche e socialmente eque, animate da una politica economica diversa e una differente struttura di relazioni sociali. Le disparità che hanno portato alle rivolte urbane degli anni Sessanta sono ancora tra noi. A dirla tutta, sono più profonde che mai. Qualche mese in più di lockdown e di collasso capitalista e si verificheranno certamente delle rivolte. Ma ricordate: «il capitalismo è il problema, non la soluzione».
*David Harvey è professore di antropologia e geografia al Graduate Center of the City University of New York. Il suo ultimo libro è The Ways of the World. Questo testo, uscito su JacobinMag, è stato scritto alla fine dello scorso mese di maggio, prima dell’inizio delle proteste. La traduzione è di Gaia Benzi.
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