Precari e capoeira
Le polemiche di Gabicce su reddito e lavori estivi omettono il fatto che il problema per gli albergatori non è la difficoltà di reperire manodopera. Il problema è reperire manodopera al salario che vogliono loro
Il reddito di cittadinanza percepito dai giovani del sud genera un deficit di forza lavoro nel turismo? Le recenti dichiarazioni del sindaco Pd di Gabicce Mare hanno riacceso le polemiche. L’ex presidente del consiglio Matteo Renzi con un post su Facebook ha aggiunto nuova linfa alla sua personale battaglia contro la misura bandiera del Movimento 5 Stelle. Secondo Renzi, il reddito di cittadinanza è uno strumento diseducativo nei confronti dei giovani in quanto offrirebbe loro una ricompensa senza che abbiano fatto nessuno sforzo per meritarsela. Al di là della forte retorica razzista di cui sono periodicamente vittime i giovani meridionali, la polemica è del tutto strumentale alla dialettica politica e poco ha a che vedere con la fuga, presunta o reale che sia, dei giovani e meno giovani dalle occupazioni stagionali del turismo. Come ha spiegato lo stesso presidente degli albergatori di Gabicce, le ragioni della difficoltà a reperire manodopera vanno cercate altrove: ormai da molti anni a ridosso della stagione estiva viene lanciato lo stesso allarme. In effetti, rapide ricerche sul web confermano come ogni anno, puntualmente, gli albergatori denuncino le difficoltà di reperimento di manodopera. Un recente rapporto di Confesercenti-Asshotel Emilia-Romagna sostiene che l’83 delle imprese associate hanno la certezza di avere difficoltà nel reperire manodopera per la stagione 2019, dati simili al 2018. Si tratta di pura percezione e non è affatto detto che si trasformi in realtà.
Ci sono tre cose che bisognerebbe chiarire. La prima è che la difficoltà di reperire manodopera non significa necessariamente che ci sia carenza di manodopera. Non esistono dati in grado di certificare questa mancanza. Il meccanismo di incontro tra domanda e offerta nel turismo, soprattutto per la sua versione stagionale, è ancora il passaparola, sebbene negli ultimi anni ci sia stato un massiccio ricorso alle scuole professionali e alle agenzie interinali. I dati diffusi in questi giorni da molti organi di informazione provengono da diverse indagini di previsione sul fabbisogno occupazionale delle imprese, con tutti i dubbi del caso.
La seconda questione è legata al fatto che, tenuto conto della forte polarizzazione del mercato del lavoro turistico, le difficoltà nel reperire manodopera possono riguardare sia tutta la platea di lavoratori che specifici profili. A giudicare dalle lamentele degli albergatori, la mancanza di manodopera riguarderebbe solo alcune professioni, in modo particolare quelle specializzate (cuochi, maître, pizzaioli, receptionist), mentre non si registrerebbero difficoltà nel reperire manodopera poco qualificata. È lo stesso presidente degli albergatori di Gabicce a chiarire questo punto.
Il terzo elemento da chiarire è legata al fatto che la difficoltà di incrociare domanda e offerta di lavoro, soprattutto per alcune figure, appartiene storicamente alla dinamica occupazionale del settore turismo. Sistemicamente il turismo impone forti tassi di turnover della forza lavoro a causa delle sue caratteristiche sociali, economiche, produttive e di regolazione istituzionale. Alta intensità di lavoro, scarsa sensibilità all’innovazione tecnologica, saltuarietà dell’impiego, bassi salari, impegnative condizioni di lavoro aggravate dagli orari e turni antisociali, bassa propensione alla sindacalizzazione, scarso riconoscimento sociale, pregiudizi, concentrazione territoriale, e una forte segmentazione del mercato del lavoro di riferimento sulla linea del colore e del genere fanno sì che il lavoro nel turismo sia un’occupazione internazionalmente classificata come povera e precaria. La sua variante stagionale, inoltre, inasprisce queste caratteristiche tant’è che la stagionalità è considerata la principale causa di sottoccupazione nel settore. In molti paesi europei il turismo si contende il triste primato di settore meno vantaggioso per i lavoratori, insieme all’agricoltura. L’Organizzazione internazionale del lavoro ha dedicato al turismo numerosi rapporti e raccomandazioni all’interno del programma sul decent work. In molte parti del mondo, il turismo rappresenta un valido punto di ingresso nel mercato del lavoro, permette di ottenere facilmente un’occupazione anche per persone che fanno esperienza di discriminazione e di ostacoli di vario genere. Non pochi sono i turisti-lavoratori ossia giovani viaggiatori che accettano di lavorare nel settore turistico strumentalmente alla realizzazione del proprio obiettivo principale: il viaggio. I turisti-lavoratori per estrazione sociale ma anche per una generale disattenzione alle condizioni di lavoro sono considerati più vicini allo status di turisti che a quelli di lavoratori e rappresentano, in alcune località turistiche, un espediente che garantisce alle aziende la disponibilità di manodopera a basso salario.
Date le sue caratteristiche produttive e sociali, l’esigenza di trovare costantemente manodopera non è quindi un fenomeno inedito per le imprese turistiche. Già agli albori del Novecento si diffusero strumenti e figure di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro. Nei contesti stagionali poi, questa è una dinamica strutturale. Sospendendo e attivando il ciclo produttivo in funzione delle fluttuazioni stagionali, ogni anno le imprese turistiche devono procurarsi manodopera.
Verrebbe da chiedersi: cosa c’è di nuovo? Cosa lamentano i datori di lavoro? Quello che probabilmente c’è di diverso è la capacità di gestire questa esigenza. In passato, le aziende turistiche hanno fatto ricorso a diversi strumenti per garantire la gestione del turnover dei lavoratori qualificati quali la leva salariale, le reti sociali degli occupati, gli intermediari esterni (e non rari erano casi di caporalato) le scuole professionali e il ricorso al lavoro migrante. Oggi, a giudicare dalle loro preoccupazioni, i datori di lavoro mostrano molte più difficoltà di gestione del turnover, soprattutto per quel che riguarda le mansioni specializzate.
Le motivazioni principali sono da ricercare nel trend innegabile di peggioramento delle condizioni di lavoro e salariali e in altri macro-fenomeni che hanno modificato sia la conformazione spaziale sia la conformazione temporale del turismo e, con esse, le tutele sociali associate a questo tipo di occupazione.
Innanzitutto, c’è una ragione di natura aritmetica data dal fatto che l’industria turistica (stagionale e non) è in costante espansione. Se si esclude il periodo dell’ultima crisi economica in cui si è registrato un lieve calo, negli ultimi vent’anni il flusso turistico in Italia è stato sempre in crescita, raddoppiando nel volgere di qualche decennio. Le agenzie internazionali stimano una crescita del turismo a tassi da miracolo economico per i prossimi 10 anni. Basti pensare che le strutture ricettive in Italia (incluso l’extra-alberghiero ma senza considerare gli appartamenti e le stanze a uso turistico) sono passate da 137 mila nel 2000 a oltre 170 mila nel 2016. La media della forza lavoro (considerando le fluttuazioni stagionali), secondo il sesto rapporto dell’Enbt (Ente Nazionale Bilaterale del Turismo) del 2017 è aumentata solo di 10 mila unità tra gli anni 2011 e 2016. Il dato è certamente sottostimato a causa del nero e inoltre non tiene conto dell’espansione nei settori della ristorazione, che non rientrano necessariamente nel turismo ma ne fanno di fatto parte. Allo stesso tempo, si è registrata una maggiore omogeneizzazione della diffusione territoriale del turismo balneare. Se negli anni Ottanta le località della Romagna, della Versilia e del litorale Veneto vantavano una posizione dominante tra le destinazioni turistiche, oggi sono sempre più sottoposte a forte concorrenza nazionale e internazionale. Negli ultimi anni, regioni come la Puglia, la Sicilia e la Sardegna sono stabilmente entrate nella classifica delle destinazioni top.
È facile intuire come l’estensione geografica del turismo, unitamente al venire meno del vantaggio salariale, abbiano abbassato la propensione dei lavoratori stagionali a migrare nelle località del centro e nord Italia. Prendendo i dati elaborati dal centro per l’impiego di Rimini (tra le province più turistiche d’Italia) si osserva che le attivazioni di rapporti di lavoro che hanno coinvolto persone non residenti nella stessa provincia siano passati dal 41% del 2007 al 30% del 2015. Chi scrive, appena diciottenne (15 anni fa) ricevette un’offerta di lavoro per un albergo nella Riviera Romagnola tramite un conoscente. L’offerta consisteva in un salario di 1850 euro mensili più le mance. Era molto più del doppio di quanto riuscivo a spuntare con lo stesso lavoro e parità di condizioni nella mia regione di origine (la Calabria); vitto e alloggio, un giorno libero a settimana e viaggio andata e ritorno a carico del datore di lavoro completavano l’offerta. Ed io ero a tutti gli effetti un lavoratore non qualificato. Oggi, questo dumping salariale interno si è ridotto a causa molto più della diminuzione dei salari nelle località del centro-nord che della crescita di quelli del Sud.
La massificazione del turismo e il fenomeno che Marco D’Eramo definisce di «divenire marker sociale della vacanza» sono stati poi accompagnati da trasformazioni di natura temporale della pratica turistica. In primo luogo, si è registrato una diminuzione netta del tempo medio di permanenza dei turisti che ha aumentato l’esposizione delle aziende alla variabilità della domanda e i lavoratori all’incremento dei ritmi di lavoro. In secondo luogo, l’aspetto più problematico anche secondo gli albergatori di Gabicce, è la diminuzione temporale della stagionalità che ormai non supera i 3 mesi all’anno a fronte delle punte di 6 mesi registrate nei decenni precedenti. Se le località d’arte sono riuscite nell’operazione di destagionalizzare il turismo (oggi a Venezia è visitata da oltre un milione di persone nella bassa stagione), le località balneari non sono state altrettanto capaci. La diminuzione della stagionalità ha effetti significativi sui salari poiché spesso il vantaggio salariale si concretizza in un periodo medio-lungo. Negli anni Settanta, con un ciclo di lotte, invisibile ma efficace, i lavoratori stagionali riuscirono nell’obiettivo di farsi riconoscere l’eccezionalità della propria professione sia da un punto di vista salariale sia da quello del welfare. Lunghe stagioni, disoccupazione stagionale e il diritto contrattuale al richiamo obbligatorio avevano permesso una forma di stabilizzazione della precarietà strutturale del lavoro stagionale. La riduzione della stagionalità provoca inoltre una contrazione dell’assegno di disoccupazione a sua volta soggetto a numerose modifiche normative (Jobs Act) che ne hanno ristretto le condizioni e la durata.
La diminuzione della stagione non solo ha in parte invalidato quelle conquiste ma ha anche contribuito ad abbassare l’interesse di chi, per fato o per scelta, svolge questa professione come occupazione principale e magari ha investito in formazione e in qualifiche.
Per molto tempo, quindi, le gravose condizioni di lavoro che caratterizzano le occupazioni stagionali sono state controbilanciate da salari più alti della media e dalle tutele di welfare che fungevano da buon incentivo per i lavoratori, soprattutto per quelli interessati alla massimizzazione dei guadagni per sbarcare più facilmente il lunario d’inverno. Da un certo punto in poi questo bilanciamento ha smesso di funzionare. I salari hanno conosciuto una dinamica di compressione, le tutele sono state progressivamente ridotte e le sempre maggiori richieste dei datori di lavoro, in termini di quantità di lavoro erogato, non hanno più trovato un corrispondente riconoscimento monetario. Le macro-trasformazioni sociali, economiche e legislative hanno avuto quindi un impatto fondamentale nel modificare la conformazione del lavoro stagionale.
Le attuali condizioni di lavoro sono caratterizzate da salari di poche centinaia di euro, condizioni di lavoro esigenti, turni massacranti e non rispetto delle norme e dei diritti contrattuali. L’ispettorato del lavoro classifica le attività di alloggio e ristorazione tra quelle a più alto indice di irregolarità. Come si può leggere nell’ultimo rapporto dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2018 il 70% delle imprese del turismo e della ristorazione ispezionate presentava una qualche forma di irregolarità. Nel periodo del boom dei voucher, il turismo era il primo settore per utilizzo di queste forme contrattuali. A questo si sommano tutte le altre trasformazioni produttive e lavorative registrare nel settore turistico di cui, per certi versi, sembra esserne stato il settore cavia. Esternalizzazioni selvagge, utilizzo di cooperative di comodo, reintroduzione del cottimo (come nel caso delle cameriere ai piani), diminuzione dei tempi di lavorazione, la tendenza diffusa a fare di più con meno lavoratori, lavoro nero e grigio, fantasia contrattuale, eliminazione del riposo giornaliero e settimanale sono tutti elementi con cui molte imprese turistiche cercano di recuperare parte della remuneratività persa nella corsa concorrenziale. Non da meno è la diffusa pratica della co-abitazione che comprime i tempi di riproduzione ed estende il controllo dei datori di lavoro sui tempi e gli spazi di riposo e di non lavoro. Per quanto tempo poteva durare questa situazione? Intuitivamente, per poco.
In realtà, per un certo periodo di tempo il sistema si è retto grazie al massiccio ricorso alla manodopera migrante. Fenomeno più complementare che sostitutivo. I migranti sono il 25% della manodopera turistica in Italia, circa 250 mila addetti, di cui la metà sono lavoratrici. Tuttavia, la dinamica d’inserimento del lavoro migrante ha incontrato dei limiti dovuti sia al fatto che anche i lavoratori migranti tendono a considerare questo tipo di occupazione come del tutto strumentale e a girare i piedi appena possibile, sia perché l’inserimento del lavoro migrante è stato circoscritto all’interno delle mansioni dequalificate e sia, infine, dalla crescita dei fenomeni di discriminazione e razzismo. Negli ultimi due anni, i media nazionali e locali hanno riportato numerose notizie sui vari rifiuti che i datori di lavoro hanno opposto all’assunzione di lavoratori con un diverso colore della pelle alludendo alle possibili reazioni infastidite della clientela.
Caso emblematico del peggioramento delle condizioni di lavoro e di come i costi delle ristrutturazioni siano stati scaricati interamente sulla manodopera, in particolar modo quella migrante, è certamente quanto successe qualche anno fa nella Riviera Romagnola con il presentarsi di quel fenomeno che ricercatori e giornalisti hanno significativamente definito: «lavoro gravemente sfruttato». Alcuni albergatori della Riviera attirarono le attenzioni degli organi di stampa, dell’accademia e anche della procura della repubblica a seguito delle denunce e dell’agitazione di lavoratori e lavoratrici, prevalentemente migranti, supportati da associazioni locali e dai sindacati di base. Accanto alle pratiche descritte sopra, ormai ampiamente conosciute, si diffusero fenomeni quali il ricorso ad agenzie di lavoro internazionali, che spesso mancavano delle necessarie autorizzazioni del ministero del lavoro, falsi distacchi e non pochi erano i casi di truffe e raggiro a danno di lavoratrici migranti provenienti dai paesi dell’Est. Salari che quando versati non superavano i 700 euro, condizioni di lavoro insostenibili, alloggi messi a disposizione dei datori di lavoro in cui si registrava promiscuità di spazi e condizioni igienico-sanitarie degradanti e che le stesse lavoratrici definirono «topaie», violenze psicologiche e fisiche, molestie e condizioni di soggezione e paura erano gli elementi più comuni che potevano essere facilmente riscontrati.
Non stupisce quindi che di fronte a un peggioramento sostanziale delle condizioni di lavoro, delle tutele sociali e alla contrazione salariale si sia registrata una generale diminuzione della disponibilità della forza lavoro nel lavoro stagionale. Questo non significa necessariamente carenza di forza lavoro né tantomeno scarso interesse al lavoro nel turismo tout court. L’occupazione nel turismo è infatti in crescita – nonostante l’impatto della crisi – soprattutto nei contesti non stagionali ed è in crescita anche la componente di autoimprenditorialità, anche questa caratteristica storica del turismo.
Qualsiasi economista, almeno tra quelli ancora convinti che la forza lavoro sia una merce come le altre, sosterrebbe che bisognerebbe agire sul prezzo (cioè sul salario) per garantirsi un bene di cui vi è scarsità o difficoltà di reperimento. Personalmente sono convinto che, dato il peggioramento delle condizioni di lavoro e il graduale venir meno delle tutele di welfare che caratterizzavano l’occupazione stagionale, anche un adeguamento salariale sostanziale non basterebbe a invertire la tendenza del progressivo allontanamento della manodopera qualificata.
Il problema per gli albergatori non è la difficoltà di reperire manodopera. Il problema è reperire manodopera al salario che vogliono loro, per di più senza gli incentivi che funzionavano nel passato. Anziché interrogarsi su queste dinamiche, i nostrani commentatori preferiscono invertire totalmente l’ordine del discorso e cimentarsi in epiche discussioni sulla necessità di «educare al lavoro» e di trasmettere i valori dell’etica del lavoro ai giovani meridionali. Peraltro, facendo finta di non vedere, si dimenticano che con l’impostazione workfarista che caratterizza il reddito di cittadinanza è più probabile che, una volta entrato a regime, esso si converta in un meccanismo di coercizione al lavoro piuttosto che agevolarne il rifiuto.
Le polemiche strumentali ed effimere non aiutano a fare un po’ di luce sulle condizioni di lavoro e di vita di una manodopera composta da circa un milione di persone di cui oltre la metà sono donne. In effetti, il turismo viene considerato come una sorta di panacea dei mali della deindustrializzazione, spesso l’ultima opzione possibile per garantire sviluppo e occupazione a territori economicamente deboli. Eppure, la forza lavoro che regge i processi di accumulazione turistica continua a essere perlopiù invisibile. Ancora oggi questi lavoratori scontano quei processi di esclusione che – come ha dimostrato Paolo Raspadori in uno dei pochissimi contributi accademici sulle difficoltà di inclusione dei lavoratori del turismo e delle ristorazione nella narrazione della classe operaia – sono storicamente radicati nelle origini servili delle occupazioni turistiche.
Dappertutto le preoccupazioni per gli effetti economici e antropici della massificazione del turismo sono in crescita. Quanto tempo bisognerà aspettare affinché le questioni delle condizioni di lavoro e della povertà diffusa nel turismo stimolino preoccupazioni simili?
*Francesco E. Iannuzzi è assegnista di ricerca all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
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