Rivoluzioni Passive
Oltre la leggenda dell’egemonia culturale della sinistra, ecco come tra redenzioni improvvise e finte trasgressioni lo specchio deforme dell’individualismo si materializzò in rete e in televisione
La Madonna appare a Paolo Brosio mentre sta partecipando a un’orgia. È il dicembre del 2008, manca qualche giorno a Natale e l’orologio segna le tre del mattino. Quando ha la visione si trova in un appartamento di Torino. La grande crisi incombe e la sinistra italiana per la prima volta nella storia della Repubblica è da pochi mesi fuori dal parlamento.
Brosio si inginocchia e recita per tre volte l’Ave Maria. Anche il popolo immerso nei festini berlusconiani e irretito dal sogno degli anni Ottanta infiniti ha da poco visto la luce. Gli italiani hanno cominciato la loro conversione ritrovandosi in una piazza convocata da un attore comico che manda tutti affanculo. Brosio intanto si dedica alla Madonna di Medjugorie. Coltivando una forma di culto tutt’altro che riservata decide di mettere in scena la sua spiritualità. Parla della sua fede sui social, scrive libri, raccoglie denaro a scopi benefici nel corso di eventi teletrasmessi. Brosio, del resto, ha già accompagnato gli italiani verso un’altra specie di catarsi. È diventato famoso stazionando su di un marciapiede, alle sue spalle il Palazzo di giustizia di Milano. Ha raccontato Tangentopoli, i politici con le occhiaie sotto il torchio degli interrogatori, la fila davanti alla procura per vuotare il sacco, il collasso dei partiti della Prima Repubblica. In quegli anni le reti berlusconiane lanciano i loro telegiornali e cominciano a mescolare intrattenimento e politica. La sua immagine di uomo impacciato accompagna il sogno giustizialista. Quel mix di ingenuità e ferocia culmina nel trionfo elettorale di Forza Italia. Da cronista del Tg4, a furia di siparietti con il direttore che lo bullizza dallo studio, Brosio diventa una specie di macchietta che compare davanti alle telecamere in coppia con la su’ mamma.
Se vivere in un paese senza sinistra significasse liberarsi dell’universalismo eurocentrico e smettere di considerarsi pura testimonianza delle lotte (e delle, pur se onorevoli, sconfitte) del Novecento, allora non avremmo nulla da recriminare. Ma se per «sinistra» si intende l’attitudine di guardare alla società come un processo in continuo mutamento e non come un oggetto con un suo ordine definito e compiuto, allora è necessario chiedersi non cosa siamo ma in cosa ci stiamo trasformando. Per farlo bisogna riconoscere, leggere, innescare i conflitti che attraversano la società e orientano queste trasformazioni. L’improvvisa redenzione di Paolo Brosio ci interessa perché si trova in risonanza con le cicliche conversioni soft degli italiani. La sua storia abbraccia un momento storico decisivo. Dapprima l’Italia si tuffa, in ritardo rispetto al resto del mondo e col fervore tipico del principiante, nella politica spettacolo. La gente partecipa senza risparmio, come il pubblico pagato di una puntata della Ruota della Fortuna: esulta guardando i politici alla sbarra, lancia monete ai potenti in rotta («Vuoi pure queste/ Bettino vuoi pure queste» sulla cantilena di Guantanamera al potente in rotta Bettino Craxi) e infine, in attesa della conversione successiva, si rifugia nel tepore rassicurante del focolare della Casa della libertà.
Chissà se dopo aver sentito quella voce cristallina che gli dice «Paolo, devi smettere» per un attimo Brosio pensa a quel decennio vorticoso che sta per finire. Magari gli sono passati davanti in soggettiva gli Anni Zero che hanno incubato il paese-senza-sinistra. In questo periodo alligna l’egemonia culturale che viene da lontano e che si proietta nel nuovo millennio. Antonio Gramsci chiama «rivoluzione passiva» il rinnovamento cui non corrisponde alcuna mobilitazione dal basso. Lo stato moderno tra le guerre napoleoniche, annota, nasce ad esempio «senza passare per la rivoluzione politica di tipo radicale-giacobino». La formula prevede che l’«egemonia culturale» sia solo un passaggio tattico che precede la conquista del potere. Da cui l’interpretazione scolastica, molto in voga presso i paranoici anticomunisti: nel paese in cui la rivoluzione è impossibile bisogna lavorare sottotraccia, impadronirsi lentamente delle casematte della cultura al fine di diventare classe dirigente. Questa semplicistica contiene il mito dell’«egemonia culturale» della sinistra. In realtà, Gramsci era poco avvezzo a formule tanto lineari. Aveva già intuito, nello scritto su «Americanismo e fordismo», che il modello di produzione della grande industria influenzava l’esistenza dei lavoratori oltre le mura della fabbrica e il tempo di lavoro. Ecco allora che l’«egemonia culturale» non è una specie di escamotage tattico per prendere il potere nel paese delle rivoluzioni mancate.
Se sprovincializziamo Gramsci, l’autore italiano più letto al mondo, scopriamo che la sua lezione serve piuttosto a capire come funziona il potere. Il potere non si limita a comanda dall’alto ma produce identità. Per questo, quando deve superare una crisi, cambiare tutto affinchè tutto resti uguale, ha bisogno di rivoluzioni passive. Gramsci ci aiuta a individuare la cultura come il campo di battaglia che definisce il nostro modo di vivere e leggere il mondo. «La cultura ha cessato di essere una sorta di appendice decorativa del “mondo pesante” della produzione e degli oggetti, la ciliegina sulla torta del mondo materiale», scrive il sociologo britannico Stuart Hall cercando un’«interpretazione gramsciana» dei «tempi nuovi». Per sfatare la leggenda della «egemonia culturale delle sinistre» bisogna disporre il proprio sguardo oltre i templi della cosiddetta «cultura ufficiale» e rigettare il campo di battaglia definito dal nostro nemico. Prendere atto che non c’è nulla di più ideologico delle narrazioni che si presentano come post-ideologiche. Bisogna sondare l’insolito, misurarsi con dispositivi che paiono non avere nulla a che fare con la politica. «Può un socialismo del ventunesimo secolo risorgere o anche sopravvivere se resta completamente tagliato fuori dal campo dei piaceri popolari, per quanto questo rappresenti un’arena del tutto contradditoria e mercificata?» si chiede ancora Stuart Hall. Indagando la cultura popolare ci poniamo nella condizione di decostruire l’idea stessa di «popolo» che è andata affermandosi nel paese-senza-sinistra prima ancora che la sinistra scomparisse e che rischiamo di assumere come un dato naturale, oggettivo e totalizzante invece che come un dispositivo ben preciso. Non ci troviamo di fronte a un processo di lobotomia di massa, a un meccanismo unidirezionale e disarmante. Non parliamo di gente ipnotizzata davanti agli schermi. Scrivendo la storia della «mutazione individualistica» prodotta dal rapporto tra televisione e società italiana lo storico Giovanni Gozzini ci aiuta a rifuggire ogni tentazione apocalittica: «La televisione non è onnipotente. Se riesce a cambiare la testa delle persone è perché funziona da sponda (da specchio) a una trasformazione sociale profonda».
Pietro Taricone è il personaggio simbolo della prima edizione del reality show per eccellenza, Il Grande Fratello, un altro dei feticci del decennio in cui l’egemonia culturale della televisione si è rinforzata attraverso l’uso scriteriato e di massa del web 2.0. All’alba del decennio che spazza via la sinistra, Taricone parla come un Narciso postmoderno davanti alla sua immagine riflessa. «E dai, dimmi qualcosa! Lo so che ci sei dietro il vetro. Non mi vuoi parlare? Almeno girati che me devo cambia’ le mutande», dice una sera parlando allo specchio delle sue brame dietro al quale si nasconde una telecamera dello show che sarà oltrepassato dal panopticon dei social network ma che per primo segnala l’opportunità di mettere in scena senza soste la propria vita e trasforma in normalità la disponibilità a discutere dei cazzi propri con chiunque passi di lì per caso. Lo spiega bene Alessandra Ghisleri, la maga dei sondaggi artefice dei successi berlusconiani: «Il Gf copriva un periodo di campagna elettorale: fu un evento di costume, dirette 24 ore su 24, e iniziai a farmi domande su come quell’overdose di protagonismo cambiava la percezione della politica».
È il 18 settembre del 2000 quando milioni persone assistono a un amplesso veloce, consumato dietro una tenda, tra Taricone e Cristina Pievani, un’altra concorrente. Gli italiani si innamorano del maschio dominante Taricone, se potessero già farlo stamperebbero un like immediato sulla sua pagina Facebook per seguirne tutti gli aggiornamenti. Intanto, fuori da quel set televisivo, succedono cose. Il numero di telefoni cellulari per la prima volta nella storia supera quello di impianti fissi. La bolla finanziaria di Internet sta esplodendo, ci vorranno i grandi monopoli digitali e la messa al lavoro molecolare del 2.0 per risollevare le sorti dei profitti. Si aprono scenari comunicativi inediti e si intravedono formulette politiche sincretistiche, fortunate e confusionarie. Da Venezia, in quel 18 settembre, il fondatore della Lega Umberto Bossi svuota l’ampolle con le sacre acque del Po, mette una pietra sopra allo scontro con Berlusconi e annuncia la nascita del Polo della Libertà contro i «nazisti rossi alleati con i banchieri». I ragazzi rinchiusi da cinque giorni nella casa, ripresi dalle telecamere permanenti del Grande fratello, sono ignari di tutto ciò. Non lo sanno Pietro Taricone e Cristina Pievani mentre amoreggiano. Lei, sedotta e abbandonata, vince la prima edizione del reality show per eccellenza. Lui, Taricone, muore dieci anni dopo, per un tragico incidente durante un lancio col paracadute.
La rappresentanza cede il passo alla rappresentazione
Nell’immaginario collettivo galleggiano ambivalenze che restano tali e che riescono a paralizzare chi le subisce perché paiono foriere di contraddizioni ma non sfociano mai in conflitti. L’oggetto culturale Taricone è l’emblema di una forma di vita che cominciava a dilagare, imprenditore di sé stesso e cultore della propria immagine. «Se me piace lu maccarrone perché devo rinunciare allo spaghetto che me piace pure assai?», domanda ai suoi coinquilini per giustificare l’ostentata bulimia sessuale. La stessa voracità che anni prima è stata preparata, con la scusa dell’ironia, dalle macchiette di Drive In che trasformano in burletta la liberazione sessuale. Il suo lancio nel vuoto dello star system, e i tremila e passa giorni che trascorrono dal salto allo schianto, durano quanto gli anni del ritorno al potere, dopo la fugace esperienza del 1994, di Silvio Berlusconi. Se si eccettua la parentesi claudicante del governo Prodi del 2006, il suo governo si protrae dal 2001 fino al tragico circo televisivo dell’Aquila all’indomani del tragico terremoto del 2009. È allora che il presidente, in palese delirio di onnipotenza e sancendo definitivamente il matrimonio tra rappresentanza politica e rappresentazione spettacolare, mette in scena il teatro dell’assurdo della shock economy. Costruisce una città parallela a quella devastata dal sisma. Era nato come palazzinaro artefice di Milano 2, gated community all’italiana costruita tra la Brianza e la metropoli. E cosa c’è di più politico del sogno borghese di una città senza conflitti sociali all’alba degli anni Settanta del Novecento? Adesso mescola le origini con la storia successiva di impresario megalomane e provinciale al tempo stesso. Diventa il grande cerimoniere dello stato d’emergenza ospitando il G8 in mezzo alle macerie. Anni dopo la repressione sanguinosa del movimento che si era incontrato a Genova nel 2001 riconsegna all’opinione pubblica internazionale un’Italia pacificata e un mondo volenteroso. In mezzo ad un’orgia mediatica, ci si converte senza impegno, ci si sente più buoni.
Non c’è da stupirsi se Taricone sembri più autentico dei suoi colleghi. È l’espressione di una generazione, quella nata negli anni Settanta, che ha digerito la televisione e che sa muoversi su più livelli. Recita la parte del coatto palestrato o è un coatto palestrato che sa recitare? Di certo si mostra consapevole, come i politici vecchi e nuovi «recita la normalità». «Pietro voleva fare il politico, prima di voler diventare imprenditore e poi attore», testimonia lo scrittore del momento Roberto Saviano, che Taricone lo conosce dai tempi della scuola. «Lei si farà strada nella vita», dice a Taricone l’ex presidente del consiglio Lamberto Dini dopo un comizio per le elezioni amministrative, alle quali il nostro concorre nelle liste di Rinnovamento Italiano (88 voti, 6 annullati). Lui mette in scena il suo corpo ma giocava con le parole, ipnotizzando e spiazzando un popolo di piccolo borghesi che sta scoprendo la trasgressione che in quegli anni diviene di massa fino a dilagare: l’inchiostro sul corpo depilato diventa la regola invece che la sua violazione. «L’usanza prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale», scriveva Cesare Lombroso dei tatuaggi. Danilo Montaldi, ancora un secolo dopo, afferma che il tatuaggio contiene l’autobiografia del delinquente di strada. Poi all’improvviso, come intuiscono Elio e le Storie tese in un brano di una quindicina di anni fa, tutti quanti «corrono a farsi un tatuaggetto» come Taricone. Oggi più di 8 milioni di italiani sfoggiano un marchio indelebile sul corpo: è un numero impressionante e fino a poco tempo fa impensabile. Ancora una volta, un codice che viene dai margini viene importato dalla cultura di massa e svuotato di senso. Taricone è espressione di una generazione disimpegnata che sposa il mito dell’autoimprenditoria, prima di diventare famoso si barcamena tra diverse attività commerciali, ma trasuda una carica politica nitidissima. Ha conosciuto il grado zero della convivenza umana. Ha fatto l’amministratore di condominio investendo di nascosto la liquidità fresca proveniente dalle bollette dell’acqua degli inquilini e nel corso di riunioni in cortili e androni ha maneggiato le passioni tristi dell’individualismo proprietario, mediato tra millesimi, gestito i beni comuni in maniera decorosa, senza turbare i difensori del pianerottolo. «È un intellettuale, il Taricone. Un intellettuale duro. È un liberale, un liberale attento alla divisione crociana del liberalismo», azzarda Christian Rocca sul Foglio. Quando il suo volo emblematico si è quasi concluso, Taricone scopre i fascisti. La sua figura anticipatrice diviene quasi profetica: «CasaPound mi piace moltissimo, mi piace il mutuo sociale, mi affascina l’idea del fare a prescindere dalle ideologie, credo che questo sia il futuro della politica», dice nel 2009, forse primo a endorsare i fascisti del terzo millennio. Il paese che dopo i generosi moti del movimento dell’Onda studentesca si prepara a espungere i conflitti dal suo orizzonte si specchia nell’immagine di Taricone. Si rivede in un trentenne che è espressione di un poutporri culturale che non ha alcuna coerenza interna e che proprio per questo appare irresistibile.
Il nostro doppio agghiacciante
Federico Fellini nel 1985 non aveva ancora visto Facebook ma aveva capito da che parte stava andando la neotelevisione e profetizzato il flusso superficiale dell’informazione che si sovrappone al tempo della vita (la timeline) e le platee-ghetto delle bolle dei social network: «Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato quello di creare una sterminata platea di analfabeti pronti a ridere, a esaltarsi, ad applaudire tutto quello che è veloce, privo di senso e ripetitivo». «È la cosa più orribile che abbia mai visto», è la sentenza che Marco Giusti ed Enrico Ghezzi campionano dal b-movie «The Blob» per riprodurre in forma paradossale lo spezzatino della neotelevisione e la sua tendenza a riprodurre i linguaggi della pubblicità. La cultura di destra è egemone, con Furio Jesi diremmo che «possiede tutta la sua oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta la sua ripugnanza per la storia che è camuffata di venerazione del passato glorioso, tutto il suo immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva perenne». In virtù della mancanza di vincoli sociali se non quelli di rielaborare miti per legittimare poteri vecchi e nuovi, l’egemonia della cultura è il prodotto di una capacità camaleontica che le consente di passare dalla letteratura di consumo al giornalismo popolare, dalla televisione alla rete. Dalle pagine di Gente e Oggi ereditiamo l’ossessione monarchica incartata di gossip che accarezza un paese che si sente organo dei Savoia e che approderà ai giorni nostri a certe nostalgie borboniche mascherate di meridionalismo, rappresentate dai bestseller di Pino Aprile, che di Gente è stato direttore. Ma in fondo, se si insegue «la rivoluzione senza ghigliottina» (copyright Beppe Grillo) non serve far saltare teste, basta cambiare cavallo e passare ad altra dinastia: in questo caso dai Savoia si passa ai Borbone. La grande capacità di Indro Montanelli nel conoscere, blandire e rappresentare le pulsioni della piccola e media borghesia italiana si trasmette in tronconi giornalistici apparentemente diversi e confliggenti che pure (e a ragione) rivendicano la sua lezione e che nel governo gialloverde trovano una sintesi: il giustizialismo spinto e il conservatorismo bieco, il ghigno manettaro e il borbottio reazionario. Il tutto impacchettato dalle «idee senza parole» che dal lusso spirituale della letteratura reazionaria dell’Ottocento si trasmette negli slogan pubblicitari e in quelli elettorali. Del resto, cosa c’è di più falso e al tempo stesso realmente efficace della propaganda commerciale? Tutti sanno che è pensata proprio per spacciare merce eppure funziona, altrimenti avrebbe cessato di esistere da tempo.
Attraverso lo specchio osserviamo i Taricone e ci troviamo di fronte a quello che Paolo Virno ha definito il nostro «doppio agghiacciante», perverte e al tempo stesso affianca le forme di vita radicali contemporanee. Il fenomeno del quale Taricone è stato anticipatore è il simbolo di un’egemonia culturale ancora più pervasiva. Siamo di fronte all’immagine riflessa che ci ipnotizza. A una figura che per Virno deforma caratteristiche comuni come «l’intellettualità di massa, le spinte autonomistiche e destatalizzanti, le “singolarità qualunque”, i cittadini smaliziati della società dello spettacolo». L’audience è diviso in nicchie che non si parlano tra loro e che per ognuna di esse è possibile impacchettare una verità ad hoc senza che queste entrino in contraddizione perché è ormai dato per scontato che la sfera della parola sia performativa. La narrazione spezzettata, i tormentoni di Drive In e le bolle di Facebook.
Attraverso lo specchio scorgiamo un altro concorrente un po’ defilato, sovente dileggiato dagli altri reclusi nella Casa. Lui, a differenza dello scaltro e sfortunato Taricone, percorre tutta la discesa agli inferi dello show biz che tocca agli ex concorrenti del Grande fratello, fino ad arrivare alla corte di Lele Mora. (E pensare che una volta Taricone aveva detto di voler fondare un sindacato degli ex concorrenti del Gf: «Sciopero compagni! Pensa alle trasmissioni tv senza quelli del Grande Fratello»). Verrà umiliato a favore di telecamera da un altro degli eroi tragici e ambivalenti degli Anni Zero, quel Fabrizio Corona che secondo lo scrittore Walter Siti rappresenta alla perfezione il rovesciamento della profezia pasoliniana: tutta la strafottenza del sottoproletariato e tutto l’egoismo della borghesia in una sola forma di vita. Il concorrente che pareva destinato come i suoi colleghi all’oblio o a campare facendo ospitate nelle discoteche di provincia e nei mobilifici della Brianza è diventato uno degli uomini più potenti d’Italia. Si chiama Rocco Casalino.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.