
Sempre più a destra
Dopo il fallimento del governo Draghi il quadro politico conosce un ulteriore smottamento: alla destra sovranista si contrappone un centro liberista
La fine del governo Draghi, come il suo inizio, non segna rotture storiche, ma un ulteriore smottamento: il campo politico italiano fa un passo in più verso destra, sul piano dei contenuti, e un passo in avanti verso la destrutturazione totale, su quello delle forme. Nella crisi di questi giorni, l’ex presidente della Bce ha tentato di spaccare destra e centrosinistra creando un blocco a sua immagine: un’operazione fallita a destra, dove l’obiettivo del potere e l’eredità del berlusconismo mantengono una compattezza innegabile, e riuscita invece nel centrosinistra, da cui i Cinque Stelle sono di fatto cacciati. La montagna del «governo dei migliori» ha partorito sparuti topolini in termini di policy, crollando dopo un anno e mezzo nonostante la sbandierata «competenza», senza aver portato a casa pressoché nessuno degli obiettivi di modernizzazione che si poneva. L’eredità del governo Draghi, in questi giorni, sembra essere tutta politica: un centrosinistra ancora più spostato a destra, che si presenta alle elezioni del 25 settembre nel nome della continuità con Draghi, scommettendo sull’astensione e sulla possibilità che la spoliticizzazione generale lasci spazio al populismo dell’élite. Una scommessa pericolosa, che porta l’Italia verso un bipolarismo alla francese tra destra reazionaria e centro liberista, senza però una Nupes che rappresenti non solo la sinistra, ma anche e soprattutto la concretezza dei temi che riguardano la maggioranza delle persone: salario, reddito, welfare, clima.
La montagna del governo Draghi e il topolino
Nel febbraio dell’anno scorso Mario Draghi ottenne la fiducia dell’89% dei deputati e dell’86% dei senatori. La maggioranza più ampia della storia repubblicana, guidata da un uomo dal curriculum indiscutibile, e sostenuta da un coro mediatico interno e da una rete di vincoli internazionali senza precedenti. Anche chi, come abbiamo fatto su queste pagine, ha criticato questo governo fin dalle origini, non poteva immaginare che sarebbe crollato così fragorosamente in meno di 17 mesi, e senza lasciare grossi ricordi di sé in termini di risultati concreti. Il Pnrr, per scrivere e gestire il quale questo governo era nato, si sta dimostrando una distribuzione a pioggia di denaro al sistema economico esistente, senza alcuna velleità di trasformarlo, neanche nel senso di una modernizzazione capitalista. La grande riforma fiscale promessa all’Ue si è ridotto in un piccolo sconto ai redditi medio-alti. Di fronte al combinato disposto tra inflazione e crisi energetica, che sta attaccando direttamente il reddito di milioni di abitanti di questo paese, l’unica soluzione trovata è stata un bonus una tantum di 200 euro, una versione striminzita di quella politica di bonus e sussidi per la quale il precedente governo, il Conte 2, era stato tanto criticato. Il governo della transizione ecologica, con il superministro Roberto Cingolani incoronato allo stesso tempo dall’establishment e da Beppe Grillo, ha spinto per l’inserimento del gas tra le energie green nella tassonomia europea recentemente approvata e scelto i rigassificatori come infrastruttura strategica per l’energia. Neanche l’ombra non solo delle politiche ecosocialiste che questa fase richiederebbe, e che certo non si possono chiedere a Mario Draghi, ma neanche di quella modernizzazione capitalista in grado di integrare l’Italia nell’élite della globalizzazione, promessa un anno e mezzo fa.
Del resto, aspettarsi che un governo, per quanto guidato da una personalità autorevole, potesse portare avanti riforme radicali, in un senso o nell’altro, con una maggioranza che andava dalla Lega ad Art. 1, era poco realistico. Il supertecnico Mario Draghi si è trovato per la maggior parte del tempo a fare da mediatore tra proposte e interessi divergenti, senza peraltro dare grande prova di sé in tale ruolo. Il tentativo delle scorse settimane di far rientrare dalla finestra il salario minimo, eliminato dal Pnrr appena arrivato al governo, riproponendolo al tavolo con i sindacati in una formulazione che, di fatto, non stabiliva alcuna soglia minima salariale, è solo uno dei tanti esempi di un governo sostanzialmente incapace di produrre alcuna innovazione. Se il ruolo di ministro-ombra dell’economia ricoperto dal potente consigliere economico di Palazzo Chigi Francesco Giavazzi ha sicuramente dato un’impronta ideologica molto forte nel senso della più stretta ortodossia liberista all’operato dal governo Draghi, la capacità di tale ideologia di farsi policy è stata neutralizzata dalla stessa composizione del governo. L’idea che un governo di unità nazionale nato nell’emergenza potesse farsi carico di grandi riforme e trasformazioni si è dimostrata, sostanzialmente, una sciocchezza.
La figura di Draghi stesso non può che uscire appannata da quest’esperienza. Nelle due volte in cui il presidente del consiglio si è trovato a dover agire in prima persona nel campo politico, misurandosi neanche con il consenso popolare, ma semplicemente con quello parlamentare, si sono registrate due sconfitte. La prima a gennaio, con la partita del Quirinale, che ha visto la sostanziale bocciatura della candidatura Draghi da parte degli stessi partiti che ne sostenevano il governo, e la seconda in questi giorni, con l’uscita di Forza Italia, Lega e Movimento Cinque Stelle, cioè tre dei quattro principali soci dell’esecutivo, dalla maggioranza che lo sosteneva.
La gestione della crisi è stata paradossale. Come ha ben spiegato Salvatore Cannavò nei giorni scorsi, la crisi è stata in buona parte orchestrata dallo stesso Draghi, che ha scelto di drammatizzare un normalissimo incidente parlamentare, con un dissenso espresso dal M5S sul dl aiuti, cogliendo l’occasione per regolare i conti con un partner considerato troppo poco accomodante, cioè il leader grillino Giuseppe Conte. Il presidente del consiglio si è presentato in parlamento con un discorso non più da mediatore di un governo di unità nazionale, bensì da leader politico con una propria linea da portare avanti, e ha provato a spaccare, su quella linea, sia la destra, sia il centrosinistra. L’operazione gli è riuscita con il centrosinistra, come vedremo, ma la destra ha deciso di vedere il bluff di Draghi, cogliendo l’occasione per far cadere il governo e lanciarsi verso le elezioni forte di sondaggi favorevoli.
Si fa fatica a concepire che una persona dell’esperienza di Draghi possa davvero aver pensato che, a pochi mesi dalla fine della legislatura, e quindi dalle elezioni, i partiti avrebbero potuto accettare di farsi completamente commissariare, adottando una linea ortodossamente liberista che raramente porta ad ampi consensi, e rinunciando a caratterizzarsi in alcun modo con proposte e battaglie politiche. La politica non funziona così, non può funzionare così, neanche nell’epoca della depoliticizzazione. Se escludiamo dalle possibilità una totale inadeguatezza, incapacità, incompetenza personale all’esercizio di una carica politica rilevante, l’unica ipotesi che resta è che quella di Draghi sia stata una scommessa: ha scommesso che la crisi della rappresentanza, la debolezza dei partiti e la spoliticizzazione della società fossero a uno stadio talmente avanzato che lui sarebbe stato in grado di rompere gli assetti politici esistenti e rimodellarli a propria immagine e somiglianza. Non è andata così, e un presidente del consiglio entrato in parlamento con quasi il 90% dei consensi, ne è uscito poche ore dopo dimissionario e sfiduciato di fatto se non nella forma. Non proprio un successone, a voler essere gentili.
L’eredità tutta politica del draghismo
Ironia della sorte, a mandare a casa Draghi è stato l’attore politico che più ne aveva determinato l’ascesa, nominandolo nel 2005 alla guida della Banca d’Italia e nel 2011 a quella della Banca Centrale Europea: Silvio Berlusconi. Come si scriveva qualche mese fa parlando del Quirinale, la destra italiana esiste, è viva e vegeta, ed è sempre la strana bestia inventata da Berlusconi nel 1994, sebbene nel frattempo radicalizzata e incattivita. Dalle europee del 2019, da quando cioè i voti rubati dal M5S nel 2013 sono tornati finalmente a casa, quella destra ha circa il 48% dei voti in tutti i sondaggi, cambiando solo le ripartizioni interne. E alla fine, in un parlamento giunto al terzo governo diverso con la terza maggioranza diversa, davanti all’occasione fornita da Draghi che tentava di liberarsi del fastidio dei 5S, la destra ha colto l’occasione.
Una destra razzista, omofoba, pericolosa, con Meloni e Salvini che fanno a gara sul piano della sparata reazionaria mentre Berlusconi rassicura i partner europei sull’osservanza dei diktat economici. Ma una destra che, a differenza degli altri attori in campo, non ha paura delle elezioni e crede di potersi misurare con il consenso delle persone. In una politica in cui si spaccia per «mobilitazione senza precedenti» a sostegno del governo una serie di appelli dell’establishment politico e industriale, si riesce nel miracolo di far passare Giorgia Meloni, che ha ancora nel simbolo del suo partito la fiamma degli eredi di Salò, per una campionessa della sovranità popolare. Miracoli della tecnocrazia neoliberista, che una volta di più si dimostra una fenomenale fucina di consensi per la destra radicale.
Il tentativo di Draghi è miseramente fallito a destra, dove ha trovato una coalizione compatta intorno all’obiettivo del perseguimento del potere, ma sembra aver trovato campo fertile nel centrosinistra. Le dichiarazioni di questi giorni di Enrico Letta e degli altri leader del Pd sono molto nette: è rottura totale con il M5S. Il campo largo è finito, l’esperienza di nuovo centrosinistra nata nell’estate 2019 con il Conte 2, e faticosamente continuato all’interno del governo Draghi (terzo esecutivo sostenuto dai grillini nella legislatura, con la terza maggioranza diversa), non esiste più. Per quanto abbiamo sempre segnalato la scarsa solidità nella sua struttura politica e nei suoi referenti sociali di quella proposta (e il modo in cui finisce lo conferma), il fatto è rilevante. Il terzo atto dello smantellamento di quello schema (dopo la caduta del Conte 2 e la sostituzione di Nicola Zingaretti con Enrico Letta a capo del Pd), provoca un ulteriore slittamento a destra di tutto il quadro politico. Il Partito Democratico sembra volersi presentare alle elezioni non solo senza i Cinque Stelle, ma proprio esplicitamente contro i Cinque Stelle, facendo di quella rottura, e della sua origine nella crisi di governo, il principale messaggio della campagna elettorale. Nelle scorse ore, sulla pagina facebook ufficiale di Letta, è apparsa una grafica con il volto di Draghi che saluta e la scritta: «L’Italia è stata tradita. Il Partito Democratico la difende. E tu, sei con noi?»
La scommessa contro la politica e il populismo elitario
Una linea tutta populista, con tanto di riferimento patriottico in tempo di guerra, e perfettamente in linea con il discorso pronunciato da Draghi in parlamento: una scommessa sulla spoliticizzazione, sull’ulteriore indebolimento della frattura tra destra e sinistra, sulla possibilità di far identificare milioni di persone con l’eroismo del tecnico autorevole che si scaglia contro i partiti, ne è vergognosamente cacciato, ma sarà vendicato. La retorica dei competenti non è altro che il populismo delle élite. Le parole che escono dalla bocca degli esponenti del Pd in queste ore sono tutte su questa linea: le elezioni come battaglia tra europeisti e putiniani, tra chi ama l’Italia e chi la tradisce, tra competenza e populismo. Tant’è che l’ineffabile Michele Boldrin, l’economista ultraliberista già fondatore di Fare per Fermare il Declino (1,1% alle politiche 2013), è intervenuto venerdì sul Foglio per rivendicare che i veri eredi del draghismo sono, appunto, gli ultraliberisti come lui, e non certo quelli del Pd. Quando un partito di centrosinistra si trova a contendersi i riferimenti politici con Michele Boldrin, uno che privatizzerebbe e venderebbe sul mercato anche l’aria che respiriamo, è evidente che c’è qualcosa che non va.
Non scopriamo oggi la cooptazione strutturale del Pd all’interno del campo neoliberista, che lo caratterizza fin dalle origini. Ma è evidente che siamo di fronte a un ulteriore salto di qualità. Non si sa ancora quanto si allargherà a destra la coalizione che Letta sta costruendo, e se coinvolgerà anche i partiti centristi di Renzi e Calenda, pronti a loro volta ad accogliere i reduci di trent’anni di devastazione sociale berlusconiana, da Mariastella Gelmini a Renato Brunetta, trasformati come per magia in moderati europeisti responsabili. Sappiamo però, che tra gli esponenti del Pd va di moda parlare di «agenda Draghi». Un paradosso: per un anno e mezzo ci è stato ripetuto che da Draghi non si poteva avere tutto, perché ovviamente l’agenda di un governo con Fi e Lega non poteva che essere un compromesso. Oggi quel compromesso è diventato il programma del centrosinistra, o quantomeno la sua etichetta.
Nella rottura con il M5S, il Pd sembra aver interiorizzato fino in fondo l’idea grillina della fine di destra e sinistra, scommettendo su una formula peraltro già sperimentata da tempo in alcune città: cooptazione di vasti strati di borghesia di centro-destra all’interno della coalizione in nome della buona amministrazione responsabile e moderata, carenza di personale politico all’altezza nello schieramento di destra, mobilitazione diffusa intorno all’idea di difendere la competenza dai barbari, altissima astensione tra le classi popolari. Le grandi e medie città, andrebbe ricordato, ospitano solo il 15% degli italiani, ma la scommessa è che la fine della politica, sostituita da una scelta sostanzialmente estetica tra il partito del risentimento e quello della competenza, sia ormai un fenomeno nazionale. Enrico Letta parla di «occhi della tigre» e subito torna in mente la sfortunata promessa di «smacchiare il giaguaro» fatta dal suo predecessore Pierluigi Bersani nel 2013. Al di là della curiosa passione per i felini esotici che sembra caratterizzare i segretari del Pd, si tratta di tentativi coloriti di fomentare nella propria base un identitarismo senza identità, mentre sul piano dei contenuti si insegue l’agenda altrui (Monti/Draghi). Ovviamente c’è una differenza: Draghi è molto più popolare di quanto fosse dieci anni fa Mario Monti.
Letta ha dichiarato «Molti dell’altro campo verranno convinti a votare con noi, come i piccoli imprenditori veneti». Quest’ultima pare un po’ grossa, ma in realtà non è detto che non ci sia davvero, in qualche misura, un potenziale elettorale per questa proposta. Esistono fette di popolazione talmente disabituate all’idea che dalla politica possa venire qualche miglioramento alla loro vita, talmente addestrate a pensare alla politica solo come una rumorosa gazzarra di potere su temi quando va bene simbolici, quando va male del tutto incomprensibili, talmente stanche di tutto ciò che hanno visto nell’ultimo decennio, che non desiderano altro che essere lasciati stare dalla politica. Un’amministrazione autorevole, competente e silenziosa, di cui non volersi occupare. È un desiderio diffuso. Il problema sono le conseguenze politiche di questa formula: un ulteriore passo verso la trasformazione del sistema politico italiano sul modello Visegrad, con uno scontro tra centro liberista e destra reazionaria, senza alcuna componente neanche vagamente progressista. Ciò dovrebbe mettere a disagio sia le forze di sinistra interne al centrosinistra, sia le persone di sinistra che ancora stanno nel Pd, sia i soggetti sociali che a quel campo sono abituate a fare riferimento. Ci sarà spazio per i temi redistributivi, per il clima, per le questioni di genere, in una proposta di questo tipo?
Da una parte, questo scenario aprirebbe grandi spazi per un’alternativa a sinistra, dall’altra sappiamo bene che lo spostamento a destra del quadro spesso chiude le opportunità invece di aprirle. A oggi, Sinistra Italiana e Verdi sembrano orientati a stare nella coalizione di Letta, in nome del rischio (reale e innegabile) di vittoria della destra a guida Meloni. L’Unione Popolare lanciata da Luigi De Magistris, Potere al Popolo e Rifondazione Comunista neanche un mese fa è ancora allo stato embrionale, e di certo non sarà aiutata dall’accelerazione improvvisa della scadenza elettorale, mentre il Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte sembra in una crisi d’identità senza fine. Anche di questa crisi di governo, in fondo, è stato più vittima che protagonista, schiacciato tra le velleità di ritorno alla fase antisistema e la paura di essere esclusi dal sistema stesso. L’anomalia grillina, che tanto ha caratterizzato l’Italia, mettendo in particolare in difficoltà la sinistra, in questi anni, è in evidente declino, ma indietro non si torna. Quella dei Cinque Stelle è stata una delle tante forme di interpretare la politica nella sua crisi. Inevitabile che si trasformi, ma nel frattempo nuovi esperimenti sorgono, sempre più al limite di ciò che siamo abituati a chiamare democrazia.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).
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