Sul mio corpo
Emily Ratajkowski racconta cosa succede quando le donne provano a usare gli strumenti del patriarcato per liberarsi dal suo sistema: finiscono per introiettarlo o per scoprire che da dentro non c’è alcuna via di fuga
Emily è sempre stata molto bella. Se lo è sentita dire da chiunque, dappertutto, fin da molto piccola, fin da quando la madre considerava questo suo attributo il dono più importante che aveva fatto a sua figlia dandole la vita. Ha scoperto presto, iniziati i primi provini, che «bella» non significa quasi niente: nell’industria della moda e della pubblicità bisogna essere «adatte», ci sono misure standard da rispettare e canoni rigidissimi che stabiliscono per te se sei funzionale come fotomodella o come nome da sfilata, come indossatrice di intimo commerciale o come angelo di Victoria’s Secret. Emily ha sempre saputo che essere «belle» non reca con sé alcun particolare merito ma, nel mezzo della crisi del 2008 e delle sue conseguenze economiche, quando ha notato che «man mano che i numeri sulla bilancia scendevano, le cifre degli ingaggi aumentavano», ha deciso di sfruttare il proprio corpo per assicurarsi una stabilità e un tenore di vita che, altrimenti, non avrebbe potuto permettersi: «In un modo o nell’altro, pensavo, tutte le donne sono ridotte a oggetto o merce sessuale, tanto valeva che fossi io a stabilire i termini di quella transazione. Mi sembrava di rivendicare la mia libertà di scelta». In più raggiungere il successo avrebbe comportato e ha comportato anche dei minuscoli spazi di libertà e autodeterminazione reali: «In un certo senso, l’eccesso di esposizione mi è sempre sembrato la via più sicura. Se sei tu a spogliarti, gli altri non possono farlo al tuo posto; se non nascondi niente, nessuno può usare i tuoi segreti per farti del male».
Sul mio corpo è un’autobiografia, potente perché schietta e impietosa, che mette a tema essenzialmente tre grandi questioni del femminismo contemporaneo: l’utilizzo del corpo oggettificato come mero strumento di lavoro e la vendita della sua immagine continuamente sessualizzata possono essere una libera scelta? Raggiungere il successo e la notorietà grazie alla mercificazione del proprio corpo e della propria immagine significa in qualche forma vincere al gioco del patriarcato o vi si rimane schiacciate anche quando si arriva al vertice? Può esistere un femminismo che si concepisce come lotta «dall’interno» del sistema? Questioni che non vengono mai affrontate dalla Ratajkowski da un punto di vista strettamente teorico ma che, come spesso accade, sono affrontate anche più significativamente attraverso il racconto di aneddoti, riflessioni, incontri nella cui trama i tre interrogativi rimangono costanti e ineludibili.
Mercificazione
In coda per uno dei primi provini della sua carriera, la madre di Emily le ha detto di muovere i capelli. «’Quel ragazzo ti ha guardata quando ti sei alzata e hai scosso la testa’. Commentò mia madre. ‘E ha continuato a guardarti finché sei sparita’. Che cosa avrà visto? Mi chiesi io». Emily racconta che la risposta a quella domanda ha smesso di cercarla ben presto. Spogliarsi e assumere pose provocanti le assicurava di non fare la fine delle sue coetanee: soffocate dai debiti studenteschi, schiacciate dalla precarietà e costrette spesso a riparare a casa dei genitori nell’impossibilità di costruirsi una vita autonoma. «Imbronciare le labbra su comando di un fotografo maschio di mezza età» le sembrava uno sforzo ragionevole da fare per l’indipendenza e l’autonomia.
La schiettezza del racconto di Emily è uno schiaffo morale metaforico a tutto il femminismo liberal che ha fatto del centro del proprio discorso l’idea del «credi in te stessa» e «valorizzati»: le condizioni di partenza fanno spesso la differenza nel «quanto» è lecito farlo. Emily ha scelto di capitalizzare la propria sessualità non perché credesse, come pure afferma, nella libera espressione di quel tratto, ma biecamente per soldi, così biecamente che per diverso tempo non le interessava neppure la fama, che le avevano detto non sarebbe mai potuta arrivare perché non rispettava le misure considerate adatte a far altro che pubblicità commerciali.
L’equazione denaro uguale libertà, un’equazione che solo chi nasce senza problemi economici può permettersi di ignorare, permea tutto il libro e se, da un punto di vista teorico, è ben chiaro che non esista alcuna libertà ottenuta per mezzo della mercificazione di sé, il racconto intimo ha il pregio di disvelare come sul piano dei vissuti la questione si complichi non poco.
Le contraddizioni si annidano dovunque. Persino sul set di Blurred Lines, il video che ha consacrato la Ratajkowski alla fama, popolato quasi solo da donne impiegate come staff in quasi tutte le posizioni e in un ambiente nel quale si era sentita protetta e si stava divertendo a ballare nuda davanti alle telecamere, uno dei rapper protagonisti senza chiedere il permesso le ha messo le mani addosso, generando la sensazione che le donne coinvolte nel video non fossero lì come inno alla liberazione dei corpi ma come contorno a un protagonismo tutto maschile. Ciononostante, Emily considerava insensato il femminismo che additò il video alla sua uscita come esempio di pura mercificazione, condannandolo, tanto quanto le voci critiche avevano bollato lei e le donne che a quello spettacolo si erano prestate di rendere un pessimo servizio alla causa femminista a loro volta.
Nel caricare le foto del proprio sedere su instagram Emily ha sempre saputo che una piattaforma avrebbe guadagnato dai suoi like, che avrebbe guadagnato anche lei e che il suo compagno che le aveva scattato la foto di spalle col fine di caricarla sui social come adv era ospite di un soggiorno di lusso che né lei né lui si sarebbero potuti permettere senza la mercificazione del corpo di lei a mezzo di foto sponsor del resort. Nelle sue parole non c’è alcuna illusione ma c’è il tentativo di rimarcare un principio: «Per me, il fatto che le ragazze esibissero la loro sessualità non era un problema, come invece sostenevano femministe e antifemministe; l’errore era indurle a vergognarsene. Perché toccava sempre a noi adeguarci, coprendo e mortificando il nostro corpo? Ero stufa di sentirmi in colpa per come ero fatta». Il problema con le invettive di essere delle pessime femministe è sempre lo stesso: il sistema continua a funzionare inscalfito, mentre le sue vittime si rimpallano accuse e scuse tra loro.
Evasione
Ben prima di diventare una modella affermata, Emily Ratajkowski ha perso la verginità in uno stupro, mai denunciato, perpetrato dal suo fidanzato dell’epoca. Lo racconta nel libro insistendo più sulla propria incapacità di ribellarsi che sulle colpe dell’abusante. La ribellione è arrivata solo dopo, con il successo e su tutt’altro piano. «Ammettilo: anche tu sei una capitalista» […] «Cerco di tenermi a galla nel sistema capitalista. […] ma questo non significa che mi piaccia. Per me è lavoro e basta», ha detto a un fidanzato che la accusava scherzosamente di essere connivente col sistema da cui traeva sostentamento e nel quale si andava affermando. Emily torna più volte sul meccanismo psicologico che le ha consentito di sopportare quel tasso di mercificazione e sessualizzazione: si estraniava dalla situazione contingente, fingeva di non avere un corpo, di non essere del tutto lì mentre la fotografavano e osservavano. La questione del consenso, nell’autobiografia, non la solleva in relazione alle molestie, dalle più gravi alle più lievi, subite nel corso degli anni ma a proposito dell’utilizzo che di quelle immagini viene fatto. Quando un grande nome della fotografia la invita a casa sua per scattarle centinaia di foto di nudi e pose provocatorie per un progetto artistico, prova a portarsela a letto subendo un rifiuto e poi tempo dopo pubblica un libro fotografico con le immagini di quella notte, Emily prova a fare causa senza successo. In tutti gli episodi nei quali delle sue immagini sono utilizzate senza consenso o per finalità diverse da quelle concordate prova a combattere. La fama ha cambiato le regole del gioco: quel corpo di cui provava a spossessarsi diventava, nelle sue rappresentazioni e riproduzioni, qualcosa di cui riappropriarsi.
Della depressione Emily parla senza farsi sconti, come ad ammettere che non ha mai voluto davvero provare a combatterla, non la pone mai in relazione al tipo di vita che ha condotto o alle cose che le sono successe. «In quelle mattine mi svegliavo sull’enorme materasso rigido del letto matrimoniale e fissavo il vuoto. […] Indossavo le magliette di S. – enormi per me e impregnate del suo odore – per sentirlo vicino, ma servivano solo a rendere più acuta la mia solitudine. Lui mi scriveva e mi chiamava, tuttavia a me non interessava sentirlo parlare delle sue giornate o del lavoro. Chiudevo quelle conversazioni in tono secco, pentendomi subito dopo della tensione che stavo creando tra noi. Non mi venne in mente che da lui volevo la stessa cosa che mia madre pretendeva da me: avere qualcuno che soffrisse con lei».
Quando l’analista le chiede come sfoga la rabbia, Emily risponde che non la sfoga perché a nessuno piacciono le donne rabbiose. Come nel più antico gioco di ruoli, ai suoi fidanzati chiedeva protezione e sicurezza, nonostante fosse economicamente indipendente e avesse una carriera affermata: non per introiezione di quei ruoli tradizionali ma per capire se il partner potesse darle ciò che i soldi e il successo non bastavano a garantire. Una di queste esigenze era condividere un punto di vista sul mondo dello star system nel quale Emily si era fatta strada: iniziava a disprezzarlo sempre di più e avrebbe voluto accanto a sé qualcuno che condividesse quel punto di vista critico. Tuttavia, anche coloro che le stavano più vicini non riuscivano a concepirla prescindendo da quel mondo, la sua immagine mercificata non aveva sussunto solo la sua vita lavorativa ma la sua vita in toto. Su questo grande equivoco si gioca la presa di coscienza della supermodella: aveva firmato e acconsentito a mercificare il proprio corpo ma non un’intera esistenza. Quando ha provato a mostrarsi a un uomo come «qualcosa di più» di un corpo, cioè come un’appassionata di storia dell’arte, lui le ha chiesto di spogliarsi per farle delle foto: «E va bene, pensava intanto una parte di me, comunque a me piace stare nuda, perciò che differenza fa? Avevo appena cominciato a rendermi conto che per gli altri ne faceva eccome».
Spossessarsi di sé andava bene fin tanto che serviva al raggiungimento della stabilità economica come fine in sé, ma ogni volta che entravano in gioco altre variabili, la reputazione, l’orgoglio, l’ambizione a diventare più di un corpo, la vita di Emily si scontrava contro il fatto che l’unica arma in suo possesso era quella che pensava di aver scelto di usare ma che ora era usata principalmente dagli altri: «Gli uomini non si accorgono mai della quantità di calcoli che le donne sono costrette a fare. Credono che le cose accadano ‘per qualche strano motivo’, mentre le donne si fanno in quattro, recitando la parte, esibendosi in balletti e acrobazie affinché le cose accadano. […] A tutte quelle ragazze vorrei dire che forse non ne vale la pena; che i soldi e la fama non meritano tanti sforzi. Anche se mentirei negando che la celebrità ha i suoi vantaggi: chi avrebbe mai letto il mio libro, se non avessi colpito gli uomini come te?». Si può evadere dal proprio corpo per vendersi, ma non si può evadere dagli altri una volta che ti hanno comprata.
Emancipazione
«Da molti punti di vista è innegabile che capitalizzare la mia sessualità mi abbia dato tanto […] in parte mi ha dato la possibilità di pubblicare questo libro. […] ho guadagnato grazie al mio corpo entro i confini di un mondo cisessuale, capitalista e patriarcale, in cui la bellezza e il sex appeal hanno valore solo perché soddisfano lo sguardo maschile. Qualunque influenza o status avessi acquisito mi erano concessi unicamente perché piacevo agli uomini. La mia posizione mi ha portata a stretto contatto con la ricchezza e il potere; ho conquistato una certa autonomia, ma non un’autentica emancipazione».
Così, Sul mio corpo è un’autobiografia potentissima perché non è solo un racconto ma un mezzo, quello sì autentico e di autodeterminazione, per porsi al di fuori – per quanto possibile – del sistema, non per rimarcarne gli aspetti violenti e perversi – quelli sono già noti –, ma per disvelare come le sofferenze che infligge siano ben più democratiche del sistema stesso: Emily riflette sul fatto che quando pensa a Demi Moore, Halle Berry, Britney Spears, che le sono sempre sembrate star inarrivabili, donne che aveva ammirato, invidiato e idolatrato, si scopre a concepirle come mere icone, si stupisce quando legge delle loro sofferenze e delle loro difficoltà, ammette di aver interiorizzato il patriarcato perché associa alle loro figure non l’idea di professioniste del cinema o della musica ma figurine che si risolvono in una funzione estetica e sessuale. Quando un’amica le manda una frase di Halle Berry – «La mia bellezza non mi ha protetta dalla sofferenza» – commenta: «La cosa strana è che all’inizio mi ha proprio fatto girare le palle, perché, insomma, lei è Halle Berry cazzo!!! Poi però ho cominciato a pensare alla tua vita, e a come all’inizio avevo dato per scontato che tu potessi avere tutto grazie al tuo aspetto. Mentre adesso so che non è così. Non è vero per nessuna donna! Nemmeno per la fottutissima Halle Berry. Eppure, da donna, non riesco a smettere di pensare che se solo avessi il culo un po’ più sodo o il naso più piccolo, se riuscissi a rendermi più attraente agli occhi degli uomini, la mia vita sarebbe completamente diversa».
Anche le super modelle piangono. Quando Emily scrive che si sente colpita dall’infelicità di Halle Berry o Britney Spears, perché reconditamente pensava che la bellezza e il successo immunizzassero dalle forme più diffuse di insoddisfazione, quando riflette su come pensasse che essere Demi Moore ponesse «sopra» il sistema, disvela un potentissimo meccanismo psicologico che agisce involontariamente nella mente della maggioranza delle donne. L’influencer FraIntesa, scomparsa prematuramente nel 2020, prima di morire di cancro ha registrato un video su instagram nel quale raccontava come essere magra, condizione data dalla malattia, l’aveva fatta riflettere su quanto le nostre vite siano condizionate dall’idea che se solo «perdessi tre chili» la vita sarebbe più facile, le cose andrebbero meglio e non solo con gli uomini ma su tutti i fronti. Così il meccanismo di autocritica, autopunizione e autolimitazione diventa il dispositivo attraverso il quale concentrarsi sul proprio peso, o altre caratteristiche da modificare per essere più rispondenti al sistema, nella speranza che tale modifica darà accesso a una serenità che al momento ci viene impedita dalle imperfezioni estetiche.
Quando Emily Ratajkowski scrive che per rendersene conto ha avuto bisogno di scoprire l’infelicità di quelle che lei considera delle dive e quando noi leggiamo di quella di Emily che noi consideriamo una diva, si capisce che è una catena che non ha una fine, che non importa a quale livello della piramide sociale del patriarcato ti collochi: se non affronti questo dispositivo in quanto tale non te ne libererai mai. In forme diverse, con manifestazioni eterogenee, le stesse umiliazioni, le stesse molestie, le stesse discriminazioni e moralizzazioni che ha vissuto una donna «bella», poi diventata ricca, sono quelle che hanno vissuto milioni di altre donne che non sono o non si considerano né avvenenti né benestanti e che non hanno scelto di usare il proprio corpo per guadagnare status e successo. Di questo libro, questo è ciò che colpisce sopra ogni altra cosa: le riflessioni di una supermodella americana sono le stesse, in gran parte, che abbiamo incrociato tutte noi – che ai canoni invece non corrispondiamo – che ci siamo domandate quale fosse il nostro posto in un sistema che analizziamo lucidamente, che sappiamo essere patriarcale e ciò nonostante ci ritroviamo a subire o, nel migliore dei casi, tentando di sfuggirvi, a definirci per sua contrapposizione.
Sul mio corpo è una testimonianza del tentativo di giocare alle regole del gioco nella speranza di vincere e di come quelle regole sembrino immodificabili persino quando ci si rende conto che il gioco è truccato. «The system is rigged» è stato uno degli slogan di Bernie Sanders in entrambe le sue campagne elettorali alle primarie del Partito democratico statunitense e forse anche per questo Emily Ratajkoswki ha deciso di sostenerlo apertamente, comparendo per la prima volta nel 2016 su instagram con un maglioncino che lasciava scoperto l’ombelico con su scritto «Bernie» con la «i» trasformata nel simbolo di genere femminile e tempo dopo in un video nel quale indossava una maglietta con i motti del programma del senatore socialista «College for all. Medicare for all. Jobs for all. Justice for all».
Chi l’ha criticata sostenendo che il suo esporsi politicamente fosse una manovra di immagine finalizzata a darsi un tono più intellettuale non ha capito che prendere coscienza di quanto siano truccate le regole che governano la propria vita, se queste regole dipendono da un’oppressione sistemica, significa necessariamente a un certo punto assumere una posizione politica su come cambiare non sé stessi per vincere al gioco truccato ma su come ribaltare il tavolo da gioco. «A vent’anni non capivo che le donne che traggono potere dalla propria bellezza devono quel potere agli uomini di cui hanno suscitato il desiderio. Che per quanto idolatrate dal mondo, sono gli uomini a esercitare il controllo, non loro. Affrontare la realtà delle dinamiche in gioco avrebbe significato ammettere quanto era limitato il mio potere, quanto è limitato il potere di qualsiasi donna che campa e magari raggiunge il successo come un oggetto da guardare». Lo ha scritto una supermodella, ma avrebbe potuto scriverlo un’amministratrice delegata, una deputata, un’avvocata di successo, una professoressa ordinaria. Denunciare questa cosa a partire dal corpo nudo e sessualizzato è solo più immediato, ma non fa differenza se si tratta di un’intelligenza al servizio dello stesso sistema o di una capacità di qualunque tipo usata per compiacere uomini al vertice di un sistema pensato per gli uomini.
Ciò che colpisce delle riflessioni di Emily è che non sono in nulla sostanzialmente diverse da quelle di chi non si è mai sentita bella o non ha potuto usare il proprio corpo per guadagnare e avere successo. Gli stessi giochi di potere del set fotografico si verificano alle casse di un supermercato, la stessa sessualizzazione dei cartelloni pubblicitari si verifica in un tribunale, la stessa frustrazione per il mancato riconoscimento a un party patinato dilaga in accademia, la stessa illusione di poter usare le leve offerte dal sistema per sopravvivervi si dà in ogni contesto.
Il libro della Ratajkoswki non è mai edificante: non offre una soluzione, non è un inno a sabotare il sistema o sottrarvisi, si limita a offrire un punto di vista. Se fosse vero che si possono usare gli strumenti offerti da un mondo organizzato su misura maschile per costruircisi una posizione dentro, considerati il successo e l’affermazione come sex symbol dell’autrice, l’autobiografia avrebbe potuto intitolarsi «col mio corpo», non «sul mio corpo». Invece la supermodella non ha scritto una rivendicazione di cosa si può fare sfruttando la bellezza e la sessualizzazione: ha sfatato un mito che circola in più di un ambiente misogino.
La sua testimonianza è la decostruzione degli assunti di chi crede che possa esistere una gerarchia dei diritti e degli sfruttamenti, che le questioni economiche abbiano una qualche priorità su quelle culturali e che l’emancipazione sia un fatto di condizioni solo materiali. Emily Ratajkowski ha scritto una laconica presa d’atto del fatto che, anche nel migliore dei casi, se pure una donna trovasse il modo di sopravvivere nel capitalismo, ancora questo non significa che possa sfuggire al patriarcato.
*Rosa Fioravante, ricercatrice e teaching assistant alla Luiss Guido Carli, autrice e curatrice di Bernie Sanders. Quando è troppo è troppo! (Castelvecchi 2016, seconda edizione 2018). Collabora con Fondazione Feltrinelli e Acli Lombardia.
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