Sulle tracce della parola sciopero
Che vuol dire oggi scioperare? E cosa significava quando questa pratica è nata? In che modo il linguaggio che usiamo può aiutarci a riflettere sulla storia delle azioni politiche? Un viaggio etimologico nell’Europa che lotta
Perché parlare oggi di etimologie? Che senso ha andare a cercare nei meandri della storia linguistica il significato che le parole avevano cento, duecento, trecento anni fa? Potrebbe sembrare un esercizio ozioso, una curiosità da eruditi, ma non lo è.
Ne è passato di tempo da quando Isidoro di Siviglia vergava pagine e pagine di pergamene con le Etymologiae della lingua latina, andando a scartabellare accezioni, riscontri, incrociando fonti e attestazioni. Uno sforzo improbo che oggi ci sembra superfluo, disabituati come siamo a porre domande che non possano avere una risposta immediata. Grazie a Google sappiamo tutto, e subito. Basta indirizzare l’algoritmo al meglio e il desiderio di conoscenza diventa niente più che un prurito da grattare.
Eppure non tutte le domande trovano risposta in un codice binario. Certo, capire da dove viene un termine è in linea di massima abbastanza facile, ma non sempre il mero dato genealogico basta a spiegarne il significato. E non vale nemmeno la pena cercare un’origine al senso, da cui far scaturire le accezioni successive quasi fossero mere variazioni sul tema, interpretazioni di una purezza primordiale. È solo attraverso la ricostruzione dei contesti mutevoli in cui la parola è stata utilizzata che possiamo sperare di far luce, almeno in parte, sulla sua carica espressiva. Come dice Indiana Jones: «La X non indica mai il punto in cui scavare».
In queste righe ho provato a scavare un po’ intorno alla X, seguendo le tracce lasciate dalla parola sciopero in alcune lingue europee. Nei paesi mediterranei, dove la rivoluzione industriale è arrivata con calma, la parola “sciopero” era presente nelle pieghe di un atteggiamento esistenziale, in una visione della vita priva di lavoro che sembra già inglobarne gli aspetti riproduttivi. In Francia e Inghilterra, invece, dove la pratica dello sciopero moderno è nata e si è sviluppata per la prima volta, la parola risulta più legata al dato materiale, a luoghi o episodi specifici.
Nelle parole che usiamo ci sono tanti significati, di cui a volte non siamo consapevoli, e che non sempre finiscono su Wikipedia. Ma la lingua ne porta le tracce, e può aiutarci a riadattarle al presente.
In italiano Sciopero
Se dovessimo fare un’analisi di storia della lingua, dovremmo cominciare dicendo che la parola sciopero, come moltissime parole italiane, ha un’etimologia latina. Un’etimologia per la verità assai pulita e lineare, davvero semplice e immediata:il prefisso “sci” sta per ex, mentre “opero” viene da operare, vale a dire “lavorare, produrre”. Dunque scioperare significa ex-operare, “uscire dal lavoro”, “smettere di lavorare”, “lavorare al di fuori di”.
La linguistica dice questo, e lo dice correttamente, ma di certo non lascia trapelare il disprezzo, l’acredine e in buona sostanza l’onta sociale che questa “fuoriuscita dalla produttività imposta” si è sempre portata dietro. “Sei uno scioperato !”, gridavano i nostri nonni, e cioè sei un vagabondo, uno sfaticato, anzi meglio uno scansafatiche, uno che il lavoro lo evita in tutti i modi – perché lavorare, come i nostri nonni sapevano bene, stanca. Se poi lo sei in forma accrescitiva – ovverosia uno scioperone – probabilmente sei anche un po’ “scimunito, merendone”, e così via.
Insomma lo scioperato è un pericoloso sfaccendato, che anzi addirittura “impedisce alcuno dall’accudire le sue faccende”: si vede che, come le risate, anche gli scioperi sono contagiosi. Eppure nei vocabolari dell’Ottocento – quando gli scioperi veri e propri iniziarono a prendere forma, e da oltremanica arrivarono in Francia, e poi in Italia scavallando le Alpi – la scioperaggine è una qualità dell’anima, “il non far nulla, il perdimento di tempo”.
Perder tempo che ha anche una sua connotazione nobile: per tornare al latino, è l’otium dello studio, della vita campagnola e dell’attività fisica, contrapposto al negotium della città con i suoi tribunali e il clientelismo dilagante. È una predisposizione ad affrontare una vita grama e a inventarsi possibili vie di fuga, da cui risuona ancora l’eco di una novella boccacciana o di una pièce da Commedia dell’Arte in cui il povero Zanni vessato dai padroni si ingegna in tutti i modi per metterli nel sacco e finalmente scioperare.
In francese Grève
Sciopero, in francese, si dice grève, che in italiano suona un po’ come “ghiaia, terriccio, bordo limaccioso di un fiume” – magari la Senna, ai lati della quale si snodano gli argini e le piazze di Parigi. Una di queste, l’odierna place de l’Hôtel-de-Ville, era un tempo place de Grève, la piazza di ghiaia, per tanto tempo la più grande della città. Sede dei mercati generali fino al 1135, per i parigini d’epoca moderna fu soprattutto la piazza deputata alle esecuzioni capitali; e proprio a place de Grève fece la sua comparsa per la prima volta madame guillotine quando, il 25 aprile del 1792, troncò la testa a un ladro di nome Nicolas Pelletier.
Ma place de Grève era anche il luogo dove si radunavano gli operai sfaccendati, in attesa di un impiego: da mercato generale era passato ad essere, letteralmente, il mercato della manodopera. Fino al 1850 entrer en grève significava cercarlo, un lavoro, attenderlo pazientemente seduti da una parte, in piazza, a non far niente. Già da qualche anno, però, grève stava assumendo altri significati. Non lavorare, questo era sicuro, ma non perché il lavoro non c’è, bensì perché non si vuole: dall’assenza di lavoro all’atto di rifiuto del lavoro stesso. En grève non era più l’operaio disoccupato, in passiva attesa e alla mercé dei caporali, ma il padrone: mettre un patron en grève, rendere lui quello senza niente da fare, rifiutandosi di lavorare. I primi furono i tagliatori di pietre, che un lunedì mattina del 1805 incrociarono le braccia chiedendo un aumento di salario, e molti altri ne seguirono.
Oggi la vecchia place de Grève vive soltanto nella memoria letteraria, nelle pagine del Rosso e il Nero in cui un giovane Julien Sorel vaga distrutto dall’amore per la bella Mathilde discettando della tragica storia di Boniface de La Mole. Per fortuna l’odierna Esplanade de la Libération ospita ancora scioperi e manifestazioni, tenendo viva l’antica tradizione.
In spagnolo Huelga
La parola usata per “sciopero” in lingua spagnola è huelga, e come per l’italiano deriva da un termine latino. Solo che in questo caso la strada è stata molto, molto più lunga: huelga è un sostantivo che a sua volta deriva dal verbo holgar – letteralmente “riposarsi, stare senza far niente”, ma anche “divertirsi, rallegrarsi”. Anche in spagnolo scioperare ha a che fare con l’ozio, cioè la cessazione della produttività lavorativa, ma non solo: ha qualcosa dell’assenza totale di fatica, stress, preoccupazioni, letteralmente di vacanza – di sé dal mondo e del mondo dal sé. Solo che quando holgar si è affacciato alle coscienze le vacanze non esistevano affatto, e men che mai le ferie; e se per fortuna si trovava un lavoro, quasi sempre era fatica e sofferenza.
Non sorprende allora che holgar sia etimologicamente connesso al respiro, nella parola tardo latina da cui deriva, follicare. Un respiro quasi sempre di sollievo, di quando finalmente si stacca e si torna a casa, si levano le scarpe e ci si butta sul letto. Un respiro che è un rantolo di soddisfazione, quasi un ansimare, che non indica malattia ma felicità (l’ansimare di una risata convulsa) o piacere (l’ansimare del sesso). Chi sicuramente cercava sempre di holgar era Sancho Panza nel romanzo fondativo della coscienza europea, il Quijote, dove la parola si incontra spessissimo con il significato di scansar le fatiche, ma anche giacere carnalmente – e le due cose, in fondo, possono andare perfettamente d’accordo.
Nella lingua che ha inventato i picari e le loro mirabolanti disavventure, la parola sciopero resta dunque legata a un atto fisico, sensuale, e c’è da sperare che di questa allegria gioiosa resti ancora qualche traccia nell’odierno huelga.
In inglese Strike
Dalle rive della Senna a quelle del Tamigi per il primo strike della storia: lo sciopero dei marinai portuali nella Londra del 1768. Un anno significativo per l’Inghilterra, all’epoca in pieno fermento industriale. Avevano aperto le prime fabbriche, e i fiumi della nazione trasportavano incessantemente carbone dalle miniere alla capitale. Ogni mese frotte di individui si riversavano in città dalle campagne in cerca di opportunità tra le ciminiere fumanti. Molti di loro si erano specializzati nel nuovo business del carbone, scaricandolo dalle chiatte che facevano su e giù per il Tamigi, spesso in cambio del semplice vitto e alloggio. La maggior parte di loro era composta da irlandesi, che dopo le rivolte agrarie del 1762-63 si erano trasferiti altrove, non senza però portarsi dietro le strategie e le tattiche usate dai contadini fittavoli per contrastare le vessazioni dei proprietari terrieri. La vita degli scaricatori di carbone era dura, ma certo anche per gli altri operai della filiera c’era poco da scherzare: dai minatori ai portuali, se la passavano male un po’ tutti. Erano anni travagliati, ricchi di rivolte e sommovimenti. I primi a protestare per paghe migliori furono i tessitori di seta nel 1765. Quando tre anni dopo, nel mezzo di una carestia alimentare, scoppiò la protesta dei lavoratori del carbone, non si poteva dire non fosse nell’aria. Il gesto dei marinai di ammainare (to strike) la vela di controranda ebbe un grande successo, e fu ripetuto negli anni successivi da molti in tutta l’isola, finendo col dare il nome alla pratica stessa dello sciopero. E in fondo non può stupire che siano stati proprio i marinai a dettare il passo dei cambiamenti sociali in un’isola come l’Inghilterra, che di navi e marinai ha sempre vissuto e prosperato. Si potrebbe quasi dire, esagerando forse un po’, che uno sciopero è una forma diversa e contemporanea di ammutinamento. In questo caso non per un fantomatico tesoro alla Long John Silver, ma per una giusta paga e sacrosanti diritti.
*Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.
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