Super Marx Bros
Steve Bannon pensa che i videogame siano naturale terreno di reclutamento di destra. Ma la consapevolezza politica nel mondo del gaming è in crescita. Un libro cerca di capire come volgere le contraddizioni di questo mondo a nostro favore
Nel 2005 Steve Bannon ha maturato un profondo interesse per i videogiochi. Il futuro stratega di Trump è entrato a far parte di Internet Gaming Entertainment, una compagnia di Hong Kong che aveva sviluppato uno schema per fare soldi grazie al popolare gioco online World of Warcraft. L’Ige ingaggiava lavoratori cinesi che, per una paga misera, completavano ripetutamente alcune sezioni del gioco in modo da guadagnare piccole quantità di soldi in-game. La compagnia vendeva poi il finto denaro ai giocatori occidentali in cambio di soldi veri. Bannon ha raccolto circa 60 milioni di dollari per l’Ige, molti dei quali venivano dalla Goldman Sachs.
La «fabbrica di soldi» non ha funzionato a lungo. Sia i fan che i creatori di World of Warcraft hanno bollato come imbroglioni quelli della Ige, e la compagnia è stata bannata dal gioco virtuale e chiusa nel mondo reale. L’esperienza ha però insegnato a Bannon una lezione importante. Tempo dopo Bannon ha detto all’autore Joshua Green che il mondo dei videogiochi è «popolato da milioni di giovani uomini appassionati, [che sono] intelligenti, concentrati, relativamente benestanti, e fortemente motivati per le questioni che interessano a loro… Questi ragazzi, questi maschi bianchi senza radici, hanno un potenziale mostruoso».
Bannon e altri intellettuali di destra hanno imparato a utilizzare questo «potenziale mostruoso» all’interno del mondo dei videogiochi e non solo. Il risentimento di un maschio bianco ferito, incanalato politicamente, ha portato le destre a dominare il settore pop dei videogiochi. L’archetipo del videogiocatore è proprio uno di quei maschi bianchi giovani e appassionati descritti da Bannon, che visita 4chan e si beve la pruriginosa campagna di diffamazione sessista #Gamergate. Alcuni pensano che i videogame siano ormai appannaggio esclusivo di questo genere di individui.
La realtà dei videogame, però, è sempre stata molto più complessa. Donne, neri, persone Lgbtq giocano, traggono e forniscono ispirazione dai e ai videogame. Certo è vero che l’industria – soprattutto nelle strategie di marketing e nella cultura del lavoro – e alcuni dei fan hanno fatto del loro meglio per marginalizzare questi gruppi. La sinistra non ha mai messo a disposizione del mondo videoludico la propria esperienza, come Bannon e altri hanno fatto per le destre. Ma fortunatamente le cose stanno cambiando. I lavoratori del settore si stanno sindacalizzando, i militanti trasmettono in streaming su Twitch, e gli sviluppatori si stanno avventurando in giochi dal contenuto politico. Nel suo nuovo libro, Marx at the Arcade, l’accademico e appassionato di videogiochi Jamie Woodcock fornisce un importante contributo al dibattito.
Il libro consiste in un’analisi marxista, approfondita e accessibile, dell’industria dei videogiochi e della cultura videoludica. È sia un resoconto di come vengono fatti materialmente i videogiochi che un’illuminante descrizione di cosa significhi essere un videogiocatore di sinistra. Marx at the Arcade sostiene che i giochi siano un oggetto culturale importante e degno di analisi, e fornisce ai militanti di sinistra gli strumenti e il linguaggio adatti a compiere quest’analisi.
L’origine dei videogame
Sin dalle loro origini i videogiochi hanno mostrato un potenziale utile tanto alla destra quanto alla sinistra. Sono stati i lavoratori del comparto tecnologico a creare i primi videogiochi, insieme con il complesso industriale militare. Fra i primi giochi c’erano i cosidetti war game, pensati per simulare un conflitto nucleare tra Stati uniti e Unione sovietica, e passatempo divertenti come tris e blackjack. Il gioco Spacewar! ha rappresentato una pietra miliare. Disegnato dallo studente del Mit Steve Russell, Spacewar! «nacque dal sottobosco culturale dei ‘freaks dei computer’ che si opponevano alle istituzioni e ai militari». Russel e altri programmatori subivano ancora l’influenza dei movimenti degli anni Sessanta, ed erano più interessati a una collaborazione creativa che a fare soldi o aiutare l’esercito.
Ma se è vero che alcuni dei videogame delle origini puntavano a sovvertire dall’interno il complesso industrial-militare, molti sono serviti a diffondere l’imperialismo statunitense. Lo studio Treyarch ha assunto Oliver North [militare statunitense coinvolto nello scandalo Iran-Contra, Ndt] come consulente e promotore di Black Ops II, un pezzo del popolare franchise Call of Duty. Il franchise è famoso per dipingere la guerra come un atto eroico, e nell’assumere North lo studio ha anche contribuito a ripulire la sua immagine. Gli studios di videogame assumono spesso consulenti militari per farsi aiutare nello sviluppo dei giochi. Il fine ultimo è quello di aggiungere un po’ di crudo realismo ai giochi, ma Woodcock ci dimostra che spesso nei videogiochi la storia viene riscritta, in modo da presentare l’intervento militare come coraggioso ed eccitante.
Un’altra relazione travagliata è quella tra i videogiochi e i produttori di armi. Le due industrie stringono spesso accordi mutualmente vantaggiosi, nei quali gli sviluppatori sono autorizzati a includere nei giochi veri modelli di armi per fare pubblicità e dare visibilità ai prodotti. Woodcock cita un rappresentante dell’industria delle armi, Barrett, che spiega: «I videogiochi mostrano il nostro brand a un giovane pubblico, considerandolo già come futuro acquirente».
Queste relazioni economiche mettono pressione agli sviluppatori affinché descrivano le armi e i conflitti armati come eccitanti, eroici. Ed è solo un esempio dei molti modi in cui l’impero statunitense organizza e dissemina le idee che giustificano la sua presenza imperialista nel mondo. Quest’analisi chiarisce come l’industria videoludica possa essere un luogo di resistenza al progetto imperialista. I giochi hanno glorificato il conflitto imperialista, ma hanno anche contribuito a indebolire l’impero usando la creatività.
Il gioco Spec Ops: The Line è un’esempio di questa creatività. Il giocatore assume il controllo di una squadra di soldati d’élite che si fanno strada combattendo attraverso una Dubai distrutta. Il gioco riproduce i meccanismi dei giochi di guerra standard, ma invece di rappresentare eroi mascelloni che si ergono sopra i cadaveri dei nemici sconfitti, si dedica a indagare la sindrome da stress post-traumatico e le conseguenze dei crimini di guerra. Woodcock spiega come «la dinamica che ne deriva pone domande retoriche come, ‘Che tipo di persona ama le uccisioni virtuali tanto da passarci ore intere della sua vita?’… Traccia anche modalità alternative di costruire e abitare i giochi sulla violenza militare».
Gioco, passione e produttività
Dalle loro umili origini, i videogiochi sono cresciuti fino a diventare uno dei settori più redditizi dell’industria dell’intrattenimento. Marx at the Arcade porta il lettore dentro le stanze segrete della produzione dei videogiochi, per mostrarci da dove deriva il profitto. Questo tour attraverso la catena produttiva globale include magazzinieri, minatori, lavoratori della catena di montaggio, e sottolinea il lavoro spesso invisibile necessario a mettere il controller nelle mani del giocatore. Ma Woodcock si concentra soprattutto sul complicato lavoro di progettazione di un gioco.
Man mano che i videogiochi diventavano sempre più importanti, le dure condizioni di lavoro all’interno dell’industria sono passate dall’essere un segreto ben custodito a elemento di dominio pubblico. Per giustificare le condizioni dei lavoratori, l’industria sfrutta la profonda passione degli sviluppatori. Ci sono innumerevoli storie sulle energie e sulla cura che le persone investono nel creare i giochi, comprese tutti coloro che sviluppano le free patch. I boss degli studios usano questa passione per giustificare uno sfruttamento intensivo.
Come spiega anche Woodcock, il crunch (il termine che l’industria usa per gli orari di lavoro massacranti durante la produzione di un gioco) è «una deliberata strategia manageriale», pensata per estrarre il maggior plusvalore possibile dai lavoratori. Dato che il crunch è estremamente comune all’interno dell’industria, «i manager hanno una percezione distorta del tempo necessario allo sviluppo di un gioco», e questa percezione distorta può solo portare nel futuro ad alimentare il meccanismo del crunch.
Il crunch ha anche l’effetto di spingere le donne fuori dai luoghi di lavoro. In una società dove le donne sono gravate della maggior parte del lavoro di riproduzione sociale – come prendersi cura di che non è indipendente e svolgere i lavori domestici – una settimana lavorativa di novanta ore non è semplicemente sostenibile. Una cultura del lavoro simile non fa altro che rinforzare una forza lavoro giovane e maschile.
Ma lavoratori dell’industria stanno iniziando a ribellarsi. I lavoratori della Riot Games, per esempio, hanno scioperato per protestare contro l’ambiente di lavoro tossico della compagnia. Woodcock dedica un intero capitolo a descrivere in che modo i lavoratori stiano iniziando a organizzarsi. Come in altri settori dell’industria tecnologica, nel settore dei videogiochi c’è una promettente coscienza radicale, la cui punta di diamante è la Game Workers Unite. In un momento in cui compiere azioni sindacali nei luoghi di lavoro sta tornando di moda e i lavoratori del comparto tecnologico stanno cominciando a sindacalizzarsi, questa opportunità non può certo essere ignorata.
Si tratta di sviluppi promettenti. Lavoratori organizzati nel settore videoludico possono contrastare i loro capi con più efficacia e sfidare l’ideale di «maschio bianco senza radici» esaltata da Bannon. Questa sfida potrebbe assumere molte forme. Negli anni Ottanta, le élite dell’industria hanno consapevolmente deciso di vendere i giochi principalmente ai giovani uomini, una decisione che ha avuto profonde conseguenze politiche. I lavoratori organizzati potrebbero decidere di ribaltare questa decisione, forzando l’industria a includere uno spettro più ampio di appassionati.
La critica ai videogame
Rigettando sia le lodi sperticate dei fan sia le denunce moralistiche, Marx at the Arcade offre un approccio fresco all’analisi dei videogiochi. Woodcock non perde mai di vista il fatto che le condizioni materiali della produzione dei giochi danno forma a cosa e a come le storie vengono raccontate, ma non riduce la sua analisi dei videogame alle condizioni materiali. Il libro si concentra invece su come ci si sente nel giocare a un particolare gioco, su cosa lo rende divertente, e sul perché questi dati siano importanti per definire cosa è il gioco in quanto prodotto culturale.
Nell’affrontare il genere sparatutto in prima persona Woodcock non ha paura di riconoscere che correre in mezzo a un campo di battaglia e ammazzare i nemici può essere uno spasso, pur normalizzando la logica perversa del conflitto armato. Nel gioco multiplayer Counter Strike: Global Offensive (CS:GO), un gruppo di «terroristi» con una kefiah addosso affronta un altro tema di «contro-terroristi» in combattimenti brevi e competitivi. Le questioni politiche interne al gioco non sono mai spiegate, anche se risultano chiari i riferimenti pro-Occidente. Malgrado queste discutibili scelte di design, il gioco risulta divertente, perché combina abilità, una buona costruzione dei livelli, e una buona animazione in un quadro immersivo e additivo. La meccanica di CS:GO è indipendente dalla sua visione politica, ed è impossibile capire il gioco, o il suo fascino, senza tenere conto di entrambi gli elementi.
La serie di Civilization targata Cid Meier presenta un mix simile di fantasia politica e game design meraviglioso. Lo scopo del gioco è costruire una civiltà mondiale a partire dalle origini. Il giocatore è in costante competizione con le altre civiltà, e per vincere deve garantirsi il dominio sia militare che culturale. Le regole del gioco «naturalizzano il capitalismo, con le sue dinamiche di accumulazione, imperialismo e conflitto» eppure «questo non vuol dire che il gioco non sia godibile – in realtà questo tipo di giochi sono incredibilmente avvincenti».
Le dinamiche complesse e interconnesse di Civilization sono difficili da padroneggiare, ma mai arbitrarie o ingiuste. Guardare una civiltà espandersi lentamente dà soddisfazione e crea dipendenza. Invece di condannare il franchise, Wookdcock rivela ciò che lo rende divertente, e usa la visione politica limitata che sottende ad esso come un trampolino per l’analisi.
Non c’è bisogno che un gioco abbia un messaggio politico esplicito per essere degno dell’attenzione della sinistra. Non deve istruire i giocatori sui momenti chiave della storia, o sui pericoli della violenza imperialista. Il mondo dei videogame ha al suo interno elementi sia critici che interessanti. Marx and the Arcade rappresenta un esempio creativo e avvincente di come approcciare questo mondo.
Il futuro dei videogame
I videogame sono pieni di contraddizioni. Sono una forma d’arte dedicata al divertimento e al gioco improduttivo. Eppure sono disegnati e creati in condizioni di lavoro di chiaro sfruttamento. I primi giochi rappresentavano un tentativo di sovversione dall’interno del complesso industriale militare. Allo stesso tempo, alcuni giochi supportano ideologicamente l’imperialismo statunitense. I giochi hanno il potere di riunire persone di tutto il mondo in un unico spazio virtuale, eppure questo spazio è frequentemente intasato con il peggio del sessismo, della xenofobia e del razzismo che la nostra cultura ha da offrire.
Per parafrasare Terry Eagleton, i videogame sono parte di quell’apparato ideologico che giustifica i peggiori impulsi della nostra società, ma contengono anche elementi e tradizioni in grado di sfidare quest’impostazione.
Marx at the Arcade auspica che la sinistra capisca come queste contraddizioni possano risolversi a nostro favore, anziché a beneficio dei nostri avversari. I videogame sono diventati un settore preminente della cultura pop e dell’intrattenimento. Come ha capito Steve Bannon più di un decennio fa, i videogiochi sono un terreno culturale in cui si possono immettere e stimolare idee. È un campo di battaglia che i militanti di sinistra non dovrebbero abbandonare.
Il libro vuole anche farci capire quanto il gioco sia parte della natura umana. Non giochiamo ai videogame per sfidare le politiche reazionarie, ma perché sono divertenti, e perché raccontano storie personali, coinvolgenti. Il moderno capitalismo lascia poco spazio nelle nostre vite per il gioco futile, e per questo i socialisti dovrebbero abbracciare qualsiasi forma d’arte fatta per riprendersi questo spazio.
*Laura Bartkowiak è un’attivista e scrittice, si occupa di analisi dei dati. Vive a New York. Brian J. Sullivan è un sindacalista, si occupa di difendere gli inquilini e fa lo scrittore. Anche lui vive a New York.
Questo articolo è uscito su jacobinmag.com. Traduzione di Gaia Benzi.
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