Tagliare il reddito per punire il lavoro
L'Italia è l'unico paese europeo in cui i salari medi negli ultimi trent'anni sono diminuiti. Attaccare le forme di sussidio ai disoccupati è un modo per rendere ancora più ricattabile la manodopera a basso costo
L’immagine dell’Italia di oggi è quella di un paese bloccato da trent’anni in una lunga agonia, in cui imperversa una guerra senza sosta contro le classi lavoratrici. Non è spiegabile altrimenti l’accanimento quotidiano contro il Reddito di cittadinanza, strumento presente ormai in ogni angolo d’Europa per sostenere quelle fasce di popolazione che vivono in condizioni di indigenza economica. L’ultimo residuo di un sistema di protezione sociale in via di decomposizione, vittima di tagli lineari e oggetto di una propaganda martellante che non si è arrestata neanche davanti al dramma della pandemia.
L’attacco al Reddito di cittadinanza non è solo una guerra ai poveri, è anche parte di una strategia più ampia volta a comprimere e disciplinare le richieste di emancipazione sociale e politica di vasti strati di classe lavoratrice. Attaccare il Reddito significa, infatti, imbrigliare il mondo del lavoro in una gabbia di bassi salari e di precarietà crescente. La minaccia della perdita del sussidio, con la conseguente assenza di strumenti di sostegno in caso di disoccupazione, funge da deterrente per quei milioni di lavoratori e lavoratrici che guadagnano salari da fame e che si trovano a un bivio: accettare un lavoro povero o finire nell’inferno del non lavoro.
Working poors
Ma sbaglieremmo a pensare che il dramma del lavoro povero sia collocato in aree specifiche del mercato del lavoro. L’aggressione ai salari è un fenomeno che investe l’intera struttura economica del paese. Lo dimostrano i risultati di un’indagine condotta da Michele Bavaro nell’ambito del rapporto annuale del 2020 dell’Inps. L’analisi di Bavaro certifica che più del 30% dei lavoratori guadagnano in Italia un salario inferiore al 60% del valore mediano. In sintesi, più di un lavoratore su tre si trova in una condizione di povertà relativa, ovvero non riuscirebbe a provvedere a spese impreviste che si dovessero presentare nell’arco di un mese. Recentemente anche l’Ocse ha rincarato la dose, certificando come l’Italia sia l’unico paese in Europa che ha visto diminuire i salari medi negli ultimi trent’anni, mentre nello stesso periodo Francia e Germania segnavano un aumento del 30%. Insomma, la compressione dei salari e l’impoverimento del mondo del lavoro è una questione che riguarda anche fasce di classe media e non solo la vecchia e nuova classe operaia. Al dato sul lavoro povero si accompagna la persistenza di un’ampia quota di persone disoccupate, che superano i 2,5 milioni e di larghe fasce di lavoro sommerso.
L’Istat ha stimato che In Italia nel 2020 erano 5 milioni i lavoratori e le lavoratrici che percepivano un reddito annuo inferiore ai 10 mila euro, dunque sotto la soglia della povertà. Li abbiamo conosciuti con il termine «working poors» dopo la crisi del 2008, come se fossero un’entità esotica, marginale, per poi accorgerci che erano tanti, tantissimi. L’Inps nel diciannovesimo rapporto annuale (2019) contava 4,5 milioni di lavoratori e lavoratrici con un salario minimo orario inferiore ai 9 euro lordi. Si tratta in maggioranza di donne, giovani e stranieri, con occupazioni saltuarie, contratti a termine, part-time involontari. Una schiera di invisibili, che passano nell’arco di un anno dalla disoccupazione a lavori sottopagati. Li troviamo collocati nei servizi di cura alla persona, dal settore della ristorazione e degli alloggi alle colf e badanti che sopperiscono all’assenza di strutture pubbliche di sostegno agli anziani, dalle cooperative sociali che si occupano di accoglienza ai migranti e che operano nelle scuole dell’infanzia agli addetti e alle addette ai servizi di pulizia nelle strutture pubbliche e private, e ancora le commesse e i commessi occupati nella grande distribuzione sino al mondo dell’editoria e del giornalismo. Un vasto universo di lavoratori e lavoratrici essenziali, che garantiscono la riproduzione materiale e simbolica della società in cui viviamo e che subiscono sulla propria pelle lo svuotamento del welfare e la violenza di un capitalismo parassitario che scarica a valle le proprie inefficienze.
Perché attaccano il Reddito di cittadinanza
Se questi dati consentono di mettere a fuoco la profondità del malessere sociale che attanaglia le classi medio-basse della società italiana, offrono anche lo sfondo per cogliere le ragioni dell’attacco congiunto mosso contro i salari e il Reddito di cittadinanza. Quest’ultimo è, infatti, vissuto come un ostacolo alla gestione di manodopera a basso costo, un vincolo alla piena disponibilità delle imprese a ricorrere a contratti saltuari con salari da fame. I continui attacchi provenienti da vasti settori del mondo dell’impresa contro «i sussidi», con la sponda solerte della quasi totalità dei media, nascono dall’esigenza di garantire margini di recupero del profitto attraverso il meccanismo tradizionale della compressione del costo del lavoro. Il Reddito di cittadinanza deve essere colpito perché costituisce «potenzialmente» una risorsa per le persone momentaneamente espulse dal mercato del lavoro da far valere contro offerte prive di garanzie salariali e di tutele giuridiche.
Una motivazione che ha potuto contare sul sostegno dell’esecutivo di Mario Draghi, che non ha perso tempo per dimostrare agli occhi del paese gli interessi da difendere e gli obiettivi da realizzare. Tra i primi provvedimenti del nuovo governo figura, infatti, la liberalizzazione del contratto a termine che – cancellando le restrizioni sull’utilizzo dei rapporti di lavoro a tempo determinato – ha garantito alle imprese il ricorso al lavoro precario, questo sì, a tempo indeterminato. Un regalo alle realtà imprenditoriali che operano nei servizi privati colpiti dalle chiusure, imposte dalla pandemia, e risarciti con la compressione del costo del lavoro. Hanno dovuto ricredersi immediatamente coloro che vedevano nella figura di Mario Draghi un tecnico al di sopra delle parti, che avrebbe condotto il paese a una tanto attesa modernizzazione. La celebrazione dei media, uniti nella raffigurazione trascendente dell’ex presidente della Banca centrale europea, si scontra ogni giorno con una politica orientata a garantire la continuità delle strutture di fondo che regolano economia, società e politica. Fuori dal mito di un Draghi «shumpeteriano» che avrebbe scosso le vetuste basi economiche del paese, si è scoperto il volto di una politica vecchia di trent’anni. Senza troppi giri di parole, l’esecutivo Draghi si colloca a metà strada tra i governi Monti e Renzi. Come il primo impone austerità salariale e taglio della spesa sociale, come dimostrano il ritorno repentino alla riforma Fornero, la stretta al Reddito di Cittadinanza, e la scelta di garantire piena flessibilità sull’uso della forza lavoro. Del governo Renzi ha preso in prestito l’uso del debito come strumento di sostegno indiscriminato alle imprese, inondate di soldi pubblici con agevolazioni per tutte le taglie e senza alcun obbligo sul versante occupazionale e degli investimenti produttivi. Più che «distruzione creatrice» quella di Draghi sembra una restaurazione stantia, figlia di un compromesso politico che ha governato il paese dall’alba della seconda repubblica sino a oggi. La musica è sempre la stessa: in nome del consenso politico l’Italia può e deve pagare un prezzo economico e questa operazione deve essere condotta asservendo la dialettica democratica alla volontà provvidenziale del «tecnico» chiamato a curare i malanni del paese.
E allora bisogna continuare come si è sempre fatto, nonostante gli incentivi alle imprese e la moderazione salariale abbiano mancato gli obiettivi della crescita della produttività e dell’occupazione, funzionando esclusivamente come garanzia pubblica contro i rischi del «mercato». Si devono sussidiare gli attori economici, affidando la gestione di quel che resta del settore pubblico ai grandi gruppi privati con la privatizzazione dei beni comuni, e si devono aprire i rubinetti della spesa pubblica esclusivamente per sussidiare la galassia di micro e piccole imprese, utilizzando all’occorrenza le risorse europee nel modesto Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Un progetto politico spiccatamente neoliberale, in cui la libera concorrenza vale solo per i lavoratori e le lavoratrici, mentre le imprese possono contare sull’intervento attivo dello stato. Un disegno funzionale a garantire la saldatura tra piccola e media borghesia, rimettendo in equilibrio il blocco di forze scosso dalla crisi economica successiva all’ondata pandemica.
Per realizzare questo obiettivo era necessario affinare le armi ideologiche, veicolando ogni giorno un immaginario corrosivo della povertà, in cui i percettori del Reddito di cittadinanza fossero identificati all’occorrenza come «furbetti», approfittatori sociali, fannulloni. Una propaganda che più che lo strumento in sé deve colpire ciò che esso rappresenta per milioni di persone. Deve essere rimossa l’esistenza stessa di un pavimento di tutele minime e con essa la percezione individuale e collettiva che esista un margine di autonomia, garantito dallo stato, che il potere di mercato non può violare. La posta in gioco è il completo disciplinamento della società, l’asservimento totalizzante a una logica di scambio mercantile, in cui i diritti e le libertà personali vengano svuotate e rimesse al libero gioco dei rapporti di forza. Come è evidente plasticamente dall’erogazione del Reddito di cittadinanza alle imprese che assumono i percettori del sussidio. C’è una lucida strategia di riproduzione del potere di classe, che opera come cerniera tra società e luoghi di lavoro, tra potere politico e gerarchie economiche e sociali.
Che si tratti di un progetto politico-ideologico emerge ancor più chiaramente se si valutano gli effetti del Reddito di cittadinanza sia nella sua funzione «passiva» di sostegno al reddito, sia nel rapporto con la dimensione «attiva» di inserimento nel mercato del lavoro. Sul primo punto, è indiscutibile come il Reddito di cittadinanza abbia svolto una funzione fondamentale nel sostenere vecchie e nuove povertà. A fronte di una crescita continua della povertà assoluta che ha riguardato quest’anno – secondo i dati Inps – 5,6 milioni di persone, il Reddito di cittadinanza ha coinvolto 1,5 milioni di famiglie e circa 3 milioni e mezzo di persone. Il 57% dei beneficiari è riuscito ad attutire la condizione di povertà assoluta, potendo contare su risorse economiche necessarie alla sopravvivenza. Evidenze che inducono a ritenere come il Reddito di cittadinanza abbia svolto una funzione essenziale di contrasto alla povertà, specie nelle fasi più dure della pandemia, e che il problema è semmai l’inadeguata copertura dello strumento, che esclude ancora oggi più di due milioni di poveri. Considerazioni analoghe valgono per le polemiche sui limiti dello strumento nella parte relativa all’inserimento nel mercato del lavoro. L’opinione secondo cui disincentiverebbe al lavoro, consentendo a milioni di persone di preferire il «divano», si scontra con due evidenze elementari. La prima riguarda il fatto che l’indennità media mensile è di 584 euro a nucleo familiare e la somma erogata varia dai 453 euro mensili per una famiglia con un solo componente a 721 euro per quelle con cinque componenti. Dunque, il problema non risiede nell’indolenza dei percettori del Reddito di cittadinanza, ma nella prevalenza di una domanda di lavoro che prevede salari indecenti e condizioni contrattuali inaccettabili. Nessuna persona in stato di povertà rifiuterebbe un’offerta di lavoro dignitosa, caratterizzata da condizioni salariali eque e da tutele giuridiche adeguate, in cambio di un’indennità che non supera i 700 euro mensili.
La bassa domanda di lavoro
Un dato che trova ulteriore conferma dalla bassa domanda di lavoro delle imprese. Dalle rilevazioni Istat, riguardanti il primo semestre del 2021, emerge che a fronte di un tasso di disoccupazione che si attesta al 10%, la domanda di lavoro aggiuntiva delle imprese rimane pressoché stabile all’1%: per 10 persone alla ricerca di lavoro (la definizione di disoccupato) esiste appena un posto disponibile. D’altronde l’idea che la disoccupazione sia una colpa individuale, legata alle scarse competenze dei lavoratori e delle lavoratrici o dall’indole «divanista», è un corollario ideologico fondamentale per mascherare le responsabilità che attengono al sistema delle imprese e all’assenza di una politica orientata alla creazione di buona occupazione. In questo piano inclinato in cui la finzione si impone sulla realtà – scaricando le responsabilità dal vertice alla base della piramide sociale – accade che la lotta di classe dall’alto spenga progressivamente le passioni civili che alimentano il fuoco della democrazia. Per evitare questo è necessario insistere per difendere e potenziare il Reddito di cittadinanza e costruire campagne per l’introduzione di un salario minimo legale. Rispondere colpo su colpo con le armi della teoria e della pratica è l’unica strada che possiamo percorrere, se vogliamo che la lotta di classe torni a dirigersi dal basso verso l’alto.
*Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Ha scritto Tempo Rubato (Imprimatur, 2018) e con Marta Fana Basta Salari da Fame (Laterza, 2019).
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