
Un grande autore in cerca di una grande storia
«Mank», di David Fincher, ripropone la questione autoriale e il rapporto tra cinema e potere. Ma fallisce nel restituire lo spirito della vecchia Hollywood
Ho pensato che Mank fosse un film atroce, il che è strano. Voglio dire, sicuramente questo progetto Netflix diretto da David Fincher è stato fatto praticamente per me.
Sono uno di quei tipi strani a cui importa davvero della carriera dello sceneggiatore Herman J. Mank Mankiewicz (Gary Oldman) e della sua battaglia con il ragazzo prodigio dei media Orson Welles (Tom Burke) sulla titolarità della scrittura di Quarto Potere. Posso esaltarmi persino per il ritratto del fratello minore di Herman e rivale nella professione Joe Mankiewicz, una leggenda a pieno titolo. E sono affascinata dalla trama strana e inventata del film che vede Mank arrabbiato e vendicativo per il modo in cui i magnati di Hollywood, finanziati dal magnate del giornale William Randolph Hearst, mettono in ginocchio il socialista Upton Sinclair nella sua corsa del 1934 per diventare governatore della California. In Mank, è questo sabotaggio della destra che spinge il nostro eroe sceneggiatore a infilzare Hearst con la caratterizzazione sottilmente nascosta che ne fa nel personaggio di Charles Foster Kane.
Louis B. Mayer (Arliss Howard) e Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley) degli Mgm Studios, appaiono entrambi più volte in Mank, e sono stati davvero magnati che hanno tagliato le gambe a Sinclair. Dal loro trespolo alla Mgm, hanno promosso una brutta campagna mediatica diffamatoria fatta di interviste con cittadini apparentemente comuni, molti dei quali attori assunti per rappresentare i sostenitori di Sinclair con qualità «indesiderabili» come l’aspetto malmesso e irregolare o l’origine straniera.
Ma Mankiewicz – che nella vita reale era antisindacale e conservatore – non aveva niente a che fare con tutto ciò. Il suo rivale Orson Welles era l’ala sinistra di questo gruppo di personaggi di Hollywood e, guarda coso, Hearst ha fatto del suo meglio per distruggere anche lui, esiliandolo efficacemente in Europa.
Quindi il mio fascino si è trasformato in irritazione mentre la sceneggiatura del padre di Fincher, Jack, continuava a distorcere la verità di questi eventi per creare un Mank filo-socialista che semplicemente non è esistito. È un peccato, perché la storia di Herman Mankiewicz è interessante, una storia sull’uomo tanto quanto sul sistema degli studi di Hollywood ormai scomparso che lo ha reso quello che era. Era un ex reporter e critico ammirato, rinomato per il suo spirito fulmineo, nonché un drammaturgo fallito.
Mankiewicz è uno dei tanti scrittori di talento della fine degli anni Venti e Trenta attirati da New York City a Hollywood con secchi di denaro, e si è dedicato alla sceneggiatura con leggerezza spassandossela nella vita lussureggiante dei migliori talenti dell’industria cinematografica, tenendo per Hollywood e per sé stesso un atteggiamento sprezzate che pungolava gran parte del suo umorismo pungente.
Sia Herman che Joe Mankiewicz erano personaggi tormentati perché, nonostante tutto il successo, si sentivano come se non fossero stati all’altezza degli elevati standard stabiliti dal loro padre severamente esigente Franz Mankiewicz. Un «emigrato ebreo-tedesco che adorava la cultura tedesca» e «un severo supervisore che oscillava tra il bullizzare i suoi figli e l’ignorarli» che concluse la sua carriera di insegnante come professore di educazione al City College di New York, la cui cerchia intellettuale includeva Albert Einstein.
La storia di Mank non ha bisogno di essere abbellita, ma i Fincher, padre e figlio, lo fanno comunque. Ci sono una cinquantina di post che spiegano quali parti di Mank sono reali e quali sono inventate. Il più efficace, che include alcuni dei film anti-Upton Sinclair, è questo.
Il nocciolo della verità è che Mankiewicz è stato lo sceneggiatore hollywoodiano di successo degli anni Trenta e Quaranta che inviò a Ben Hecht il telegramma che per primo lo condusse a Ovest: «Vieni a Hollywood, ci sono milioni da guadagnare e i tuoi unici rivali sono degli idioti. Non lasciare che questo vada in giro». Ma le sue inarrestabili inclinazioni a bere, giocare d’azzardo e fare battute a spese dei pezzi grossi di Hollywood ne minarono la carriera, e presto il fratello minore Joe lo eclissò con un’impressionante carriera di produttore seguita da traguardi ancora maggiori come scrittore-regista con successi come Lettera a tre mogli e Eva contro Eva.
Una sola questione autoriale è al centro di Mank, quella a lungo contestata a proposito di Quarto Potere. Al verde come al solito, Mankiewicz aveva accettato di scrivere la sceneggiatura per soldi e semplicemente di rinunciare alla firma, intrappolato in una casa a Victorville con una governante (Monika Gossmann) che aveva il compito di controllare la sua gamba rotta e il suo bere, e una segretaria (Lily Collins) che lo seguiva passo dopo passo.
Cambiò idea alla fine, quando capì che la poderosa prima bozza di oltre trecento pagine era la cosa migliore che avesse scritto e che avrebbe potuto rilanciare la sua carriera, il che implicò un’aspra lotta con Welles, che era intenzionato a rivendicare la paternità del film.
Pauline Kael, implacabile critica della «teoria dell’autore», ha notoriamente riacceso questa guerra quando nel 1971 ha scritto un lungo e influente saggio sul New Yorker intitolato Raising Kane, accusando Welles di essersi intestato il merito di essere l’«autore» di Quarto Potere che giustamente apparteneva a Mankiewicz.
Peter Bogdanovich, scrittore/ regista/collaboratore della leggenda di Hollywood, scrisse con il suo amico Welles una lunga confutazione su Esquire, The Kane Mutiny. Mank si presenta come una risposta tardiva a Bogdanovich, prende le parti di Mankiewicz dandogli l’ultima parola alla fine del film, in un’altra nota battuta che Mankiewicz pronunciò dopo aver vinto il premio Oscar nel 1942 come miglior sceneggiatore. «Sono molto felice di accettare questo premio in assenza del signor Welles, perché anche la sceneggiatura è stata scritta in assenza del signor Welles».
È un dibattito futile, davvero. Mankiewicz ha il merito della maggior parte della scrittura iniziale, ma Welles ha sostanzialmente rivisto e modificato la sua prima bozza e, naturalmente, ha avuto il controllo creativo totale del film finale. Quanto è difficile dirlo e finirla qui? Estremamente difficile per le persone coinvolte, a quanto pare, e ora eccoci qui, stufi dell’intera querelle.
È una triste ironia che Mank abbia persino un aspetto spiacevole, se ti importa qualcosa delle glorie del cinema in bianco e nero. Diavolo, guarda Quarto Potere se vuoi vedere le glorie, perché Welles era determinato a dimostrare lo stato dell’arte cinematografica nel 1941, oltre ad aggiungere alcuni splendidi esperimenti ideati da lui e dal brillante direttore della fotografia Gregg Toland. Ma Mank in generale è piattamente illuminato e poco interessante. Gary Oldman si agita, facendo del suo meglio per rendere il film coerente intorno a lui. È un grande attore e ovviamente segna alcuni momenti illuminanti, ma è in gran parte uno sforzo sprecato.
Come tanti film sulla vita nella vecchia Hollywood, anche questo è elaborato, imbottito e morto dentro. Fincher cerca di dimostrare i folli meccanismi interni del sistema degli studios di quei tempi e non riesce a trovare niente di meglio di una conferenza sulla storia piena di uomini urlanti le cui osservazioni vengono rimosse da una dattilografa che non indossa nulla dalla vita in su se non sfavillanti pasticcini sui capezzoli.
Per avere un’idea più efficace del vortice in cui finivano gli sceneggiatori ingaggiati dagli studios, bisogna guardare i fratelli Coen di Barton Fink (1991). In Fink, il capo degli studios di nome Jack Lipnick rappresenta un motore primo della follia di Hollywood. Probabilmente un mix tra Louis B. Mayer della Mgm e Jack Warner della Warner Brothers, questo personaggio induce un caso epico di blocco dello scrittore nello sceneggiatore debuttante Fink, un drammaturgo snob di New York City che scopre che il suo intelletto apparentemente superiore in questo nuovo mondo non gli servirà.
L’attore caratterista Michael Lerner ha vinto un Oscar interpretando gli oscillanti cali di tensione, l’ego imponente e la rabbia improvvisa di Lipnick. Le sue tirate sono probabilmente basate sulle leggendarie esibizioni in ufficio di Mayer che prevedevano fiumi di lacrime, svenimenti e terrificanti esplosioni di volgarità che turbavano anche i più duri. I dipendenti intimiditi lo hanno definito il miglior attore di Hollywood.
E Fincher come si rapporta con Mayer? Ha scelto Arliss Howard, che sembra un impiegato d’ufficio avvizzito e risentito, l’Uriah Heep di Hollywood. La sua parlata stridula e monotona non avrebbe persuaso nessuno a fare nulla. Eppure in qualche modo riceve una standing ovation dopo aver convinto gli attori riuniti alla Mgm ad accettare una grossa riduzione dello stipendio per aiutare gli studios a sopravvivere alla Depressione, promettendo di ripristinare i vecchi livelli di paga non appena fossero arrivati tempi migliori (è successo, e ovviamente Mayer non ha mai mantenuto la sua promessa).
Per avere una rappresentazione di Mank, guardate la terribile scena verso la fine, l’interminabile catastrofe di una cena a San Simeon, la massiccia casa di William Randolph Hearst (Charles Dance) e la sua amante-attrice Marion Davies (Amanda Seyfried), che ispirò Xanadu, la mostruosa villa del cittadino Kane. Ancora una volta, Fincher si sforza di trasmettere l’eccesso di Hollywood, enfatizzando lo splendore baronale della sala da pranzo, l’immensa lunghezza del tavolo e i folli costumi da circo indossati dagli ospiti, i quali dovrebbero essere tutti i migliori personaggi di Hollywood sebbene siano per la gran parte non identificati.
Mank, ubriaco fradicio, rovina la festa e si mette al centro della scena, imbarazzando tutti mentre farfuglia la trama della sua nuova sceneggiatura, che dovremmo riconoscere come una prima versione di Quarto Potere, offrendo così la prova della rivendicazione di Mankiewicz della paternità su Welles. Questa versione di Quarto Potere però è mescolata a Don Chisciotte e dovrebbe anche mettere sotto accusa l’intreccio tossico dei rapporti commerciali di Hearst e Mayer, che lavorano in tandem per creare e distruggere le carriere dell’industria cinematografica e decidere chi diventerà governatore della California.
La scena finisce quando Mankiewicz vomita. È successo davvero a Mankiewicz durante un evento di Hollywood, provocando uno dei suoi famosi motti improvvisi all’ospite attento all’etichetta che lo osservava con orrore: «Non si preoccupi, col pesce è venuto fuori anche il vino bianco».
La scena della cena è un pasticcio confuso, anche se Fincher sembra averla elaborata con attenzione. È difficile sapere esattamente cosa stesse cercando, visto che l’esito è un girato in modo ingombrante e ritmato come un funerale. Ho avuto molte opportunità di prestare attenzione alle comparse nella scena, cercando una mia amica ed ex studentessa di nome Scarlet che interpretava Bette Davis vestita da donna barbuta. Ottiene alcuni scatti sullo sfondo (Ciao Scarlet! Sei stata fantastica! Girare quella scena per le comparse deve essere stato un inferno!).
Anche se la sceneggiatura fosse stata potente – scritta dal padre di Fincher, Jack, negli anni Novanta e conservata con cura da suo figlio – il modo in cui è stata girata è così blandamente non memorabile, che avrebbe fatto molto per sminuirla. La struttura lassista del flashback del film dal punto di vista di Mankiewicz sembra essere in contrasto con la struttura dinamica del flashback di Quarto Potere da punti di vista multipli e contraddittori, proprio come la cinematografia superficiale di Mank potrebbe essere accostata a Quarto Potere per mostrare cosa non fare con la pellicola in bianco e nero. Bizzarri espedienti come le «bruciature di sigaretta» nell’angolo in alto a destra del fotogramma e gli schiocchi della colonna sonora che hanno caratterizzato il processo di proiezione del film nel 1941 sono inclusi in Mank per nessuno scopo se non quello di farti pensare che ci sia stato un errore.
Sia Mank che Quarto Potere mettono al centro della narrazione uomini leggendari, tormentati e contraddittori. Ma Mank insiste talmente sul fatto che il suo eroe fosse un uomo onesto irritato dalla vile politica di potere di Hollywood da sminuire il fascino del bere ossessivo, del gioco d’azzardo e delle battute di Mankiewicz. Tutta questa evocazione stilistica e narrativa di Quarto Potere senza uno scopo chiaro è forse la cosa più fastidiosa in una massa di fastidi legati a Mank.
Il miglior consiglio è probabilmente quello di saltare Mank, guardare Quarto Potere (o Barton Fink) e leggere una biografia dei fratelli Mankiewicz. Vi divertirete molto di più.
*Eileen Jones si occupa di critica cinematografica per JacobinMag. Ha scritto Filmsuck Usa. Insegna alla University of California, Berkeley.Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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