Un Marx del ritorno al futuro
Kohei Saito individua la battaglia ecologista e quella egualitaria come necessarie a rendere l’ambientalismo socialmente sostenibile, ma fatica a individuare nella decrescita una prospettiva credibile
La crisi climatica è tema indubbiamente complesso, ma come suggerisce John Maeda occorre trovare un equilibrio tra complessità e semplicità attraverso una graduale riduzione della prima pur senza avere l’obiettivo di liberarsene. Se semplificare rischia di condurre alla semplificazione, l’eccesso di complessità, al contrario, fa scivolare verso l’inconcludenza, il disorientamento e di conseguenza l’inazione. Da qui la necessità di trovare un equilibrio tra le due polarità.
Fatta questa un po’ pedante precisazione provo a misurarmi con il tema a partire dall’ultimo testo del filosofo marxista giapponese Kohei Saito [Il Capitale nell’antropocene, Einaudi, 2024]. Un testo di un autore che, come dice Salvatore Cannavò in un’intervista [Saito Kohei: quell’ecologista di Marx, in «Millennium», novembre 2024], ha «il dono della chiarezza» e forse anche per questo sta diventando un fenomeno editoriale mondiale a partire dalle 500 mila copie vendute proprio in Giappone. Un numero esorbitante, un fenomeno editoriale che non è detto possa tradursi in cambiamenti concreti. Questo successo tuttavia suggerisce come i contenuti del testo abbiano intercettato un sentire comune grazie a un modo parzialmente inedito di fare critica alla contemporaneità, nonostante si parli di Marx, anticapitalismo, comunismo coniugato alla decrescita. Temi che se presi uno a uno non sono certo nuovi e che vengono considerati spinosi e controversi, anche in campo democratico-progressista e persino alternativo. Ma nel loro esser messi in relazione in modo eclettico recuperano una forza epistemologica.
Perché la decrescita?
Il cambiamento climatico, come affermava Ulrich Beck già dieci anni fa [Come il cambiamento climatico potrebbe cambiare il mondo, Castelvecchi, 2024], attraverso la forse infelice formula del «catastrofismo emancipatorio», potenzialmente contiene una spinta per porre «fine alla fine della politica», dando vita a una svolta cosmopolita che di fronte alla sfide globali metta al centro nuove «preoccupazioni pubbliche transnazionali». Ecco allora che il successo di Saito si può spiegare attraverso questo stretto cunicolo che lascia intravvedere importanti potenzialità a patto che si provi a rimuovere i limiti finora registrati nell’intreccio tra progetto ecologista e soggetti sociali che dovrebbero esserne i protagonisti.
Saito nel suo tentativo di coniugare critica marxiana e decrescita parte da un nodo che mi pare divenuto inaggirabile: la crescita verde è una chimera. Una via che per rendere meno inquinante lo sviluppo conduce a ulteriori dosi di inquinamento. Banalmente possiamo notare che se aggiungiamo una corsia in una strada di città frequentemente intasata, dopo una breve parentesi di decongestionamento, il traffico riporta a una nuova e peggiore congestione in quel tratto stradale. Cioè il primato dell’uso privato del mezzo di trasporto deregolamentato conduce a una ulteriore intensità di traffico, dovuto alle presunta comodità del muoversi autonomamente. Tale parabola inquinante non si inverte neppure con il ricorso a mezzi più ecologici, come ad esempio quelli elettrici, se il numero di auto private continua a crescere. Cioè al crescere smisurato di auto elettriche corrispondono l’estrazione dei materiali di fabbricazione, con le conseguenti emissioni di carbonio, il loro smaltimento e la produzione di tanta energia elettrica che richiede la costruzione di nuove centrali. La quantità finisce per essere impedimento alla qualità. Un corto circuito. Saito riattualizza il cosiddetto paradosso di Jevons affermando che la maggiore efficienza offerta dallo sviluppo di nuove tecniche consente ai prodotti di diventare più accessibili, finendo per aumentarne il consumo. Se un televisore di nuova generazione consuma meno energia, il consumatore ne compra uno più grande, consumando più energia. Se le vetture consumano meno aumentano le vendite di Suv. L’innovazione tecnologica attraverso l’ottimizzazione dei prodotti vanifica il suo effetto benefico, producendo un «rimbalzo dei consumi».
L’impossibilità di una crescita felice
Ma non è semplicemente un problema afferente le dinamiche di mercato. Non basta imbrigliare l’ipotetica mano invisibile del mercato. Saito afferma che la crescita economica ecologicamente sostenibile non è realizzabile. Il cosiddetto decoupling (disaccopiamento), cioè la separazione tra la crescita economica e il conseguente impatto ambientale attraverso l’impiego di nuove tecnologie, consente una riduzione dei ritmi d’inquinamento, cioè del loro andamento relativo, ma non riesce a ridurli in termini assoluti. Cioè, in definitiva, non si riduce effettivamente l’inquinamento, lo si rallenta soltanto, a partire dall’immissione di Co2 nell’atmosfera. Questa tendenza dimostra l’inefficacia del progetto di decoupling dato che ormai è scientificamente provato che non abbiamo più tempo da perdere per ottenere un contenimento dell’aumento della temperatura terreste di soli 1,5 gradi. E non esistono soluzioni tecnologiche che al momento facciano ipotizzare la possibilità di incidere adeguatamente nella riduzione, in termini assoluti, delle emissioni, nello smaltimento delle scorie, nella deforestazione e nell’impedire l’industrializzazione crescente di territori naturali.
Il decoupling assoluto non è dato poiché la tendenziale entropia economica del capitalismo obbliga a perseguire la crescita ogni giorno. Per perseguire il profitto alcune politiche ambientaliste condotte nei paesi ricchi hanno usufruito della possibilità di delocalizzare l’industria e traslare l’inquinamento. Saito per fotografare questo processo evidenzia come in Inghilterra tra il 2000 e il 2013 il Pil è aumentato del 27% con un calo delle emissioni del 9%. Tendenze analoghe sono state registrate in paesi come Germania e Danimarca. Ma il tasso di crescita annuo dell’immissione di anidride carbonica negli Stati Uniti è del +1,6% e a livello globale del +2,6%.
Ancor più preciso sul tema risulta la tedesca Ulrike Herrmann [La fine del capitalismo, Castelvecchi, 2023] che sostiene che «la crescita verde non esiste». Essa elenca nel dettaglio le molteplici possibili vie ecologiche che il capitalismo dovrebbe intraprendere, indicandone chiaramente limiti e inefficacia. In alcuni comparti riconosce come il disaccoppiamento sia realizzabile. Ad esempio l’elettricità verde (solare ed eolico) consente di produrre energia diretta, senza dover azionare turbine, con un risparmio di circa ¼ di energia. Lo stesso vale per una riduzione dei consumi energetici con il passaggio all’impiego più diffuso dell’energia elettrica al posto di consumi fossili. Ma in definitiva sottolinea come anche i progetti più avveniristici, attesi a volte con spirito tecno-messianico piuttosto che con ragionevole realismo, non sono in grado di filtrare anidride carbonica, vuoi perché sarebbe necessaria a sua volta una quantità spropositata di energia, vuoi perché la tecnologia per farlo non è ancora matura, a fronte dei tempi drammaticamente ristretti di cui disponiamo. Il nucleare così rimane un errore per costi di produzione e scorie prodotte, eolico e solare non forniscono la continuità necessaria. Esistono, dunque, problemi enormi di stoccaggio dell’energia. Quella elettrica, ad esempio, per sopravvivere nelle batterie deve prima essere trasformata chimicamente. Stesso discorso per l’idrogeno. In questi processi di trasformazione si verifica una importante dose di dispersione. L’energia verde, così, risulta costosa, non economica. È fuorviante ritenere che «il sole non manda fatture». Luce e vento sono gratuiti, ma il resto del processo di transizione ha dei costi elevati in termini economici e di materie prime necessarie. Lo stesso vale per l’ambizione alla smaterializzazione del mondo attraverso il digitale. Tale smaterializzazione è solo la percezione superficiale dei processi in atto. Anche in questo caso lo stoccaggio delle informazioni e la pervasiva circolazione di dati comporta un crescente impiego di energia e di materie prime. Esiste un lato oscuro (materiale) dell’economia smaterializzata. Anche progetti virtuosi come l’economia circolare non riescono a superare il problema delle materie prime. L’agenzia Internazionale dell’Energia ha calcolato che il riciclo potrebbe fornire solo il 10% delle materie prime necessarie nel 2040. Troppo poco per fronteggiare la fame di litio, rame e cobalto.
In definitiva Hermann fa notare come negli ultimi anni la crescita economica globale sia avvenuta a un ritmo medio del 2,8%, ciò significa che la produzione economica globale raddoppia ogni 26 anni. Entro il 2100 l’inondazione di beni di consumo è destinata ad aumentare di sedici volte. La terra è troppo piccola per sopportarlo.
Decrescita e comunismo
Il rischio, dunque, è quello di ipotizzare un «nuovo miracolo economico» che se è realizzabile keynesianamente sul fronte economico, non lo è su quello ambientale. Si tratta allora di escludere una via ecologica keynesiana, cioè quella che scommette su ruolo dello Stato e investimenti pubblici verdi, su innovazione tecnologica spinta: il famigerato Green New Deal.
Ecco allora il limite insormontabile dell’obiettivo crescita. Un limite che tradizionalmente anche ecologisti e marxisti hanno ipotizzato di aggirare mediante il principio di una crescita diversa, sostenibile. Anzi si è sempre detto che per rimediare ai danni ambientali e a quelli socio-economici derivanti avremmo bisogno di maggiore crescita, seppur diversamente orientata. Saito ritiene che la crescita non sia più perseguibile. Da qui ne deduce che la regolamentazione del mercato attraverso stimoli non sia sufficiente. Quel che serve è «una forza di coercizione esterna al mercato». Cioè afferma che l’obiettivo della crescita pone problemi tecnicamente insormontabili, ma anche politicamente e culturalmente fuorvianti. In poche parole semplicemente elevare, mantenendone inalterato il profilo, i consumi delle fasce più povere e ridurre quelli di quelle dominanti è obiettivo sbagliato, poiché impraticabile.
Ecco allora che per coniugare economia, ecologia e giustizia sociale Saito mette in relazione decrescita e comunismo. Cioè se la crescita, per quanto temperata, è una chimera in termini ambientali, ci resta la decrescita. Cioè una riduzione, complessivamente intesa, della crescita economica per ottenere risultati significativi contro le emissioni di Co2 innanzitutto. Rispetto al precedente pensiero della decrescita Saito si caratterizza come innovatore. Premetto che la parte in cui l’autore indaga Marx e ritiene di aver scoperto filologicamente un Marx decrescista mi pare la meno interessante. Probabilmente anche la più debole, basata su elementi insufficienti. Ma l’operazione di «ritorno al futuro» che viene fatta rapportando il pensiero di Marx ai dilemmi contemporanei mi pare invece degna di nota, per la sua carica innovativa e in sintonia con un potenziale sentire comune. Un’operazione che potrebbe fornire le gambe a un progetto di resistenza e cambiamento adeguato alle difficoltà dell’attuale fase. Va detto che negli anni il progetto ambientalista è passato dall’essere egemonizzato da inconcludenti e incoerenti soggetti politici a essere un progetto calato dall’alto, assunto cioè dalle classi dirigenti. Tale processo ha allontanato da una sensibilità ambientalista crescenti strati popolari che si vedevano solo accollare i costi di una possibile riconversione in senso ecologico dell’economia, tanto più dopo un periodo di ripetute crisi, senza capirne i vantaggi né immediati né di lungo periodo. Ora che con Trump l’impegno ecologista non può che tornare dal basso, occorrerà riportare sotto i riflettori la coincidenza del fattore ambientale e di quello socio-economico. Le classi popolari e subalterne sono destinate a pagare il prezzo più alto della crescente diseguaglianza sovrapposta al riscaldamento globale, a flagelli come alluvioni e siccità. Ma la contraddizione più urgente con cui misurarsi è proprio la sfasatura tra condizioni di vita odierne e prospettiva ecologista. Va cioè affrontato di petto quell’insidioso slogan apparso nelle lotte dei gilet gialli francesi che dichiarava che tra la «fine del mondo e la fine del mese preoccupa la fine del mese». Bisogna scardinare tale contrapposizione e riconoscere la prossimità dei problemi vissuti. Un tempo un movimento operaio egemone riusciva a mettere al centro salari e condizioni di vita, oggi nella crisi la destra liberista e sovranista ha messo a valore segmentazione sociale, razzismo, guerra tra poveri.
A questo proposito mi pare che Saito provi a rimettere la palla al centro riportando sotto i riflettori tematiche sociali e di uguaglianza assieme a quelle ecologiste. Prova a individuare nuove prossimità in un percorso originale. Tra chi si ritrova la casa allagata o non riesce a bere acqua potabile e al contempo ha un lavoro poco pagato o precario. Non tutte le classi sociali vivono nel medesimo modo questa coincidenza di problemi. Chi è ricco si sposta dove le temperature sono più ragionevoli oppure si costruisce un artificiale micro-habitat al prezzo di aggravare ulteriormente l’inquinamento. Da questo punto di vista Bruno Latour abbozza il principio di una «nuova classe geosociale», concetto che andrebbe approfondito e che potrebbe fare il paio con le indagini di Riccardo Mastini su l’impronta ecologica delle classi abbienti su scala planetaria rispetto a quelle subalterne. Dove emerge che i ricchi in Cina inquinano molto di più dei poveri, anche del mondo occidentale. Una riconfigurazione, dunque, dello scontro d’interessi e di bisogni di classe su scala gobale.
Che fare?
Il principio che sta alla base del Green New Deal non viene rinnegato da Saito, che ammette che sia necessario un grande intervento pubblico per investire in trasporto pubblico, infrastrutture, energia pulita, ecc… Ma tutto ciò non basta. E qui intervengono le riflessioni anticapitalistiche, propedeutiche alla soluzione che propone. Saito parte dal presupposto marxiano che il capitalismo sia ingiusto: «l’attuale sistema non è solo colpevole di un’immane devastazione ambientale, è anche iniquo». Ed è iniquo in quanto si fonda sul primato del profitto incessante. Quello che Marx chiamava processo «illimitato». In questo momento storico Saito parla di un sistema con «l’obiettivo di autoproliferazione del capitale». Un altro disaccoppiamento irrealizzabile, dunque, risulta quello tra capitalismo e profitto che trova fondamento nell’incessante ricerca della crescita economica. Da qui la necessità di «scelte politiche più coraggiose, più innovative». Da questo punto di vista non è neppure sufficiente un approccio antiausteritario. Il grande cambiamento post-capitalista deve essere centrato sulla decrescita, modello in antitesi al capitalismo. E per meglio spiegare cosa intende porta ad esempio il suo Giappone. Dopo circa un trentennio di stagnazione capitalistica il paese del Sol Levante ha prodotto impoverimento e aumento delle disuguaglianze, mentre la decrescita dovrebbe puntare a sostenibilità e uguaglianza. Meno Suv, carne di manzo e fast fashion per aumentare educazione, arte, assistenza sociale. In buona sostanza nessuna strizzata d’occhio a un immaginifico ritorno alle origini, a una civiltà contadina perduta. Che le città siano diventate il principale campo di contesa per un’alternativa è chiaro, nessuna fascinazione per un esodo dalle metropoli. Si tratta, dunque, di ridurre gli ambiti di scarsità artificiale indotti per creare spazi del «comune», non necessariamente dipendenti dallo Stato, ma attraverso una gestione multipla, sperimentale, un’amministrazione dei cittadini/utenti. Si ridurranno gli spazi commerciabili, con conseguente riduzione del Pil, ma senza un impoverimento delle persone. Decrescita economica, ma non pauperizzazione. Svincolare il concetto di benessere da quello di accumulazione. Contrastare e superare il marketing fondato sul desiderio senza limiti, ritrovare un’idea del limite ecosociale, reinventarsi il necessario al posto del troppo. Evitare la sistematica sovrabbondanza dell’offerta. Un Green New Deal senza crescita, che giunga all’obbiettivo di uno sviluppo stazionario, formula che appare un ossimoro, ma che invece scardina dogmi che sono capitalistici, non certo naturali. Recuperare quelli che Emanuele Leonardi definisce i beni riproduttivi «capitalisticamente invisibili». I limiti economici, sottolinea Leonardi, non sono «oggettivamente dati», ma «politicamente posti». Riaccoppiare (altro che disaccoppiamento!) economia e politica su un piano inedito, corrispondente alle contraddizioni contemporanee, dove la decrescita diventa prerequisito per superare la crisi.
Limiti e potenzialità
Già nel 2007 André Gorz affermava che la «decrescita è un imperativo di sopravvivenza», che consente di giocare su un nuovo terreno la partita. Va, però, precisato che le modalità sono ancora da trovare. Saito in qualche passaggio parla con troppa facilità dell’«abbondanza dei commons» in contrapposizione alla «scarsità» creata dal capitalismo a partire dal suo originario regime di accumulazione. Ritiene correttamente che di quel mondo possa essere recuperata unicamente una sorta di convivialità in strutture orizzontali, da adattare però al mondo contemporaneo. Ma è proprio sulla contrapposizione scarsità/abbondanza che Saito è ancora vago. Problema insuperato da qualsiasi pensiero economico critico per altro. Mentre ben individua la battaglia ecologista come passaggio essenziale e altrettanto correttamente considera una battaglia egualitaria (comunista?) necessaria a rendere l’ambientalismo socialmente sostenibile, fatica invece a individuare nel nuovo meccanismo fondato sulla decrescita un’opzione che sappia creare una prospettiva credibile. Indubbiamente la ricchezza privata (con tutti i suoi portati di eccesso che abbiamo sotto gli occhi) presuppone un regime, costruito anche artificialmente, di scarsità, ma la ricchezza pubblica, o sociale, genera inevitabilmente abbondanza (seppur corretta dagli eccessi consumistici)? Resto convinto che permanga un problema di creazione e tutela di un’abbondanza pubblica. Si tratta, dunque, non solo di trovare un nuovo baricentro tra bisogni autentici e sostenibili, scevri da consumi distruttivi, ma anche di individuare dei meccanismi di creazione di ricchezza materiale necessaria e voluta. Infrastrutture e consumi materiali che consentano anche di condurre una vita ecologicamente sostenibile su scala globale. Quali incentivi collettivi, ma anche individuali, dovrebbero subentrare a quelli capitalistici per produrre la nuova ricchezza? Su questo anche il comunismo della decrescita, sebbene ne condivida l’impostazione di fondo determinata dalle oggettive condizioni in cui ci troviamo, mi pare ancora debole.
Mentre mi paiono piuttosto ingenerose le critiche di Jacopo Nicola Bergamo [Marx e la decrescita: il caso Saito, in www.leparoleelecose.it] quando afferma che Saito non individuerebbe i soggetti della trasformazione. A me pare che lungo il testo vi siano ripetuti riferimenti alle classi subalterne, al mondo del lavoro, a una sua ritrovata centralità. Ad un certo punto espressamente afferma che solo da «iniziative concrete […] nella sfera della produzione […] può ripartire il primo passo per il cambiamento». Cosicché «cambiare forma al lavoro è di cruciale importanza per superare la crisi ambientale». Si tratta allora di «incorporare una prospettiva incentrata sulla produzione». Lì è il terreno di scontro politico, ma anche economico. Non si scappa. Certo oggi gli attori sociali sono difficili da ritrovare. Saito sulla base dell’impostazione descritta mette in evidenza cooperative, autogestione, controllo, proprio nell’ottica che «i luoghi di produzione [generino] comunità». Non idee nate in laboratorio, ma esperienze pilota che in questi anni sono emerse come forme sperimentali del conflitto sociale. Nulla di risolutivo, ma l’indicazione di nuove strade, che stanno a indicare possibili percorsi. Quella «sperimentazione esemplare» che Gorz diceva «noi possiamo ormai realmente volere».
*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
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