
Una storia pacificata
Il biopic su Bob Dylan ha tutti gli ingredienti per sbancare il botteghino e tutti i limiti del genere: la vicenda di una persona fila dritta senza troppe contraddizioni
A Complete Unknown di James Mangold si basa su tre presupposti abbastanza certi sulla nostra cultura. Primo, che a molte persone piacciono i film biografici convenzionali. Secondo, che a molte persone piace l’attore Timothée Chalamet. E terzo, che a molte persone piace l’idea di Bob Dylan come uomo di un genio talmente imperscrutabile da essere al di là della comprensione mortale. Pertanto, era ovvio che A Complete Unknown, un biopic molto canonico con Chalamet nei panni del giovane Dylan, avrebbe avuto un discreto successo al cinema. E così è stato.
Ma a me non piacciono tutte queste cose, quindi era ovvio che io fossi una delle detrattrici che si lamentava in silenzio tra sé e sé dall’ultima fila. Secondo la mia esperienza, i film biografici, quando seguono la formula del genere, riescono a evitare gli aspetti più sorprendenti e illuminanti della vita di un qualsiasi essere umano, perché favoriscono la narrazione ideologica che è stata già appaltata al pubblico. A questo proposito, A Complete Unknown può esserne considerato la prova.
Sceneggiato da Jay Cocks e diretto da James Mangold, A Complete Unknown è basato sul libro Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica di Elijah Wald. Quindi il materiale è già incentrato sulla parte preferita della vita di Dylan, la parte più leggendaria. Inizia quando arriva a New York City e si mette in viaggio per visitare Woody Guthrie, che sta morendo in ospedale, il cantante che ha reso popolare la musica folk. Si conclude con la famosa e controversa apparizione di Dylan al Newport Folk Festival del 1965, quando scandalizzò la comunità della musica folk imbracciando la chitarra elettrica.
Chalamet, snello e con i capelli a caschetto, somiglia abbastanza a Dylan da passare inosservato e non sembra avere problemi a indossare lo sguardo piatto e cupo di Dylan, il suo accento nasale ispirato a Guthrie e l’aria generale di enorme autostima. Per vedere fino a che punto fosse una faccia da schiaffi, potete osservarlo in tutta la sua gloria impertinente e maliziosa nel documentario storico di DA Pennebaker per la Direct Cinema, Bob Dylan: Dont Look Back (1967). Non è un caso che le anteprime di A Complete Unknown presentino il carattere molto più amabile, diretto ed estroverso di Johnny Cash (interpretato da Boyd Holbrook), rendendo l’affetto esuberante di Cash e la sua considerazione per Dylan un modo per entrare in contatto con la star notoriamente irritabile e sfuggente.
Le donne della vita di Dylan sono rappresentate da Monica Barbaro nel ruolo di Joan Baez, la bellissima Regina del Folk dalla voce angelica la cui turbolenta relazione e collaborazione con Dylan si è svolta dentro e fuori dal palco, ed Elle Fanning nel ruolo di Sylvie Russo, uno pseudonimo di Suze Rotolo, la fidanzata di Dylan quando raggiunse la fama (Dylan, che ha contribuito ampiamente alla sceneggiatura, ha fatto pressioni affinché il vero nome di Rotolo non venisse utilizzato). Sara Lownds, la prima moglie di Dylan che sposò nel 1965 e che era già nella sua vita a quel tempo, non viene affatto ritratta per porre l’accento sulla famosa relazione con Baez che fu un fattore della rottura tra Dylan e Russo/Rotolo.
La povera Elle Fanning è incastrata nel ruolo di donna lacrimosa e abbandonata, tipico delle biografie delle star maschili. È un peccato, perché Rotolo era una persona interessante, un’artista e un’insegnante, figlia di membri del Partito comunista e molto attiva politicamente, in modi che hanno avuto una grande influenza sulla scrittura delle canzoni di Dylan. Il suo impegno politico è accennato di sfuggita mentre spiega a Dylan cosa significa Core (Congress of Racial Equality) mentre va a una riunione, ma il movimento per i diritti civili e l’ondata di attivismo di sinistra nell’universo di Dylan rimangono appena accennati.
In più ci sono le solite assurdità dei film biografici nel mescolare goffamente grandi eventi pubblici e momenti chiave di relazioni private, come quando Dylan incanta la folla con The Times They Are a-Changin’ e Russo è tra la folla che guarda e piange perché anche la vita di Dylan sta cambiando e molto presto lui la lascerà.
L’ascesa di Dylan verso una fama straordinaria fu rapida, anche se non così rapida come viene rappresentata nel film, in cui chiunque ascolti esibirsi per la prima volta il Dylan adolescente rimane folgorato dalla sua genialità. Sicuramente sarebbe stato più interessante e più accurato mostrare scene in cui, come scrive David Browne nel suo libro recente Talkin’ Greenwich Village: The Heady Rise and Slow Fall of America’s Bohemian Music Capital, non andò affatto bene a causa di «quanto fossero stridenti la voce di Dylan, il modo di suonare la chitarra e il suo primo repertorio» nella scena folk dell’epoca:
Ai primi concerti Dylan era ‘imbarazzante e fuori posto un momento, sicuro e padrone di sé quello dopo’, con un co-manager del Gaslight [Café] che diceva che inizialmente era stato ‘disastroso’ e un giornalista del Daily News che diceva che ‘lasciava il palco con il suono di forse una mano che batteva le mani’.
Invece, il film mostra Dylan arrivare a New York City e la cosa successiva che sai è che un individuo simile a Dave Van Ronk, mai nominato ma identificabile, è già suo amico, gli dà una dritta su dove trovare l’idolo di Dylan, Woody Guthrie. Guthrie e Pete Seeger, entrambi immediatamente sbalorditi, diventano i mentori di Dylan, e tutto ciò viene descritto come se accadesse in un solo giorno. Queste prime scene sembrano suggerire che a parte Seeger e Baez, Dylan è l’unico titano nella scena folk del Greenwich Village, il che non era sicuramente vero. Che dire di Odetta, Phil Ochs, Josh White, i Clancy Brothers, Joni Mitchell, Peter, Paul e Mary e tanti altri che si esibiscono al Gerde’s Folk City, al Gaslight Café, al Café Wha? e al Bitter End? Date un’occhiata a A proposito di Davis (2013) dei fratelli Coen per avere un’idea molto più precisa dei grandi talenti che emergono nei club e nei bar, dei giovani cantanti e cantautori squattrinati che si spostano sui divani e suonano per pochi spiccioli, scrutandosi a vicenda con invidia per vedere chi sarebbe riuscito a sfondare.
Seeger, il massimo sostenitore della musica folk e attivista per la giustizia sociale, è interpretato da Edward Norton, che non assomiglia al Seeger, magro e spilungone, ma trasmette comunque la solare squadratezza della sua schiena dritta. La sua sfida alle autorità della House Un-American Activities Committee che lo avevano inserito nella lista nera è tipica nella sua dolcezza, idealismo e implacabilità: propose di cantare loro una canzone folk, la stessa che ha portato alla ribalta la sua appartenenza al Partito comunista. Ma questo è il film biografico di Dylan, quindi ciò significa che Seeger viene sacrificato, apparendo sempre più ignaro e obsoleto mentre il ragazzo cui ha fatto da mentore si allontana per diventare un pioniere della musica folk-rock.
Gli artisti neri continuano ad apparire nel film solo per essere parte dall’attenzione di Dylan che prima chiacchiera con Russo, o per Dylan che attira l’attenzione come artista. Succede talmente tante volte che ho iniziato a pensare che potrebbe esserci una ragione vera, un tentativo di rappresentare come il talento nero è stato saccheggiato e deliberatamente oscurato dal talento bianco. Ma allo stesso tempo, la cosa è gestita in modo così vago dal regista Mangold, che non è affatto chiaro se lo stia facendo intenzionalmente.
Ciò che sta facendo intenzionalmente è abbastanza imbarazzante nella scena mai accaduta di Seeger che conduce uno show televisivo con un personaggio inventato, il cantante blues nero Jesse Moffette (interpretato dal Big Bill Morganfield, chitarrista blues nella vita reale). Moffette è un ospite sostitutivo al posto di Dylan, che non si presenta. Quando Dylan arriva in ritardo, si unisce a Moffette e Seeger in una jam session improvvisata, e l’approvazione di Moffette su ciò che Dylan sta facendo è intesa a significare ancora una volta la capacità proteiforme di Dylan di oltrepassare i confini musicali (Il fatto che anche Seeger stia oltrepassando i confini musicali, e con un banjo, non gli fa guadagnare alcun merito).
Più tardi, nella scena culminante del Newport Folk Festival ’65, quando l’esperimento Dylan goes electric viene fischiato dalla folla, Moffette è dietro le quinte e saltella a mo’ di approvazione. Ci sono ripetute inquadrature/controinquadrature per rafforzare questa scena. E io ero lì per tutto il tempo a tenermi la faccia inorridita, pensando, «Oh no, non di nuovo la scena Black Approval!».
Una volta che ti rendi conto di quante scene nei film americani mettono in mostra personaggi neri che esistono solo per legittimare le azioni dei personaggi bianchi, attraverso una terribile idea di autenticità nera essenziale, ti sembra di vedere quelle scene ovunque.
Il modo in cui Dylan ha effettivamente messo insieme i pezzi della sua personalità da star è trattato solo superficialmente. Per qualche ragione, il desiderio di rispondere alla domanda ovvia, «Chi era quell’uomo mascherato?», non sembra mai avere molto successo quando si tratta di Bob Dylan, nemmeno nei film biografici. Ci sono brevissime sfide da parte di Baez e Russo/Rotolo alle «stronzate» che Dylan racconta, ad esempio, sul suo inesistente passato da giostraio. Dopo aver dato un’occhiata all’album di ritagli d’infanzia di Dylan, Russo si lamenta perché dice di non sapere nemmeno il suo vero nome di battesimo, che risulta essere Robert Zimmerman. Ma Dylan la respinge facilmente con un discorso irritato su come in America tutti inventino cose sul loro passato e possano continuare a essere chiunque vogliano.
Sarebbe stato senz’altro affascinante vedere scene formative del giovane Robert Zimmerman, un ragazzo ebreo della classe media del Minnesota, il cui padre, Abe, era un uomo d’affari di successo che lavorava per la Standard Oil finché non fu colpito da un invalidante attacco di poliomielite e finì per gestire un negozio di elettrodomestici con i suoi fratelli. Da bambino, Robert incantò i parenti cantando Accentuate the Positive e da adolescente cantava cover di Little Richard con la sua band al liceo, poi andò al college, visse in una confraternita e si allontanò gradualmente dalle influenze rock and roll per dedicarsi alla musica folk. In altre parole, Bob Dylan non è inconoscibile. È ampiamente conoscibile. Ma devi volerlo fare.
Che ne dite di un film biografico che affronta il pesante ricorso alle anfetamine che lo aiutava a superare le massacranti tournée a metà degli anni Sessanta? Invece di mostrarlo semplicemente fare bella figura mentre si allontana in moto, che ne dite del grave incidente motociclistico del 1966 e dei due anni trascorsi lontano dagli occhi del pubblico? E la sua conversione al cristianesimo evangelico e i suoi dischi gospel? E il suo complesso rapporto con la sua identità ebraica, incluso un viaggio in Israele nel 1971 e il sostegno al movimento ultra-ortodosso Chabad-Lubavitch? Le sue cover del Great American Songbook? Il suo album di Natale? La sua carriera per lo più mortificante come attore e regista cinematografico? La sua performance stordita e divertente in mezzo a una folla di star che canta We Are the World, il canto di beneficenza vagamente in aiuto dell’Africa? Le sue esibizioni al Never Ending Tour negli anni 2000, presumibilmente perché Dio gli aveva detto di dedicarsi ai tour?
Di sicuro una vita americana così folle merita un po’ di attenzione in un film biografico. Almeno il film di Todd Haynes Io non sono qui (2007) ha tentato di confrontarsi con la poliedricità di Dylan, con sei attori diversi che interpretano aspetti del suo folle e stravagante viaggio attraverso il mondo. Tuttavia, allo stesso tempo, è il film più devoto al mito dell’incomprensibile vastità di Dylan, al modo grandioso in cui contiene moltitudini, tra cui personaggi pubblici come il poeta, il profeta, il fuorilegge e il martire del rock and roll.
Dylan stesso tende a essere piuttosto collaborativo con i vari progetti cinematografici che lo mitologizzano come vorrebbe essere mitizzato. E perché no? Ogni nuovo tributo biografico o documentario è una buona scusa per tirare fuori le vecchie leggende degli anni Sessanta e le vecchie hit come Blowin’ in the Wind, Don’t Think Twice, It’s All Right, Like a Rolling Stone, Girl from the North Country, Mr Tambourine Man, A Hard Rain’s a-Gonna Fall. E c’è sempre una nuova generazione di americani, a quanto pare, che ama tutta la storia d’amore di Dylan, l’iconoclasta indomabile che deve seguire la sua musa e sembra figo mentre tira polvere in faccia ai vecchi bacucchi della musica folk.
Ma davvero, non serve martellare sull’ironia dell’approccio di questo film, un biopic convenzionale e banale che celebra l’insondabile mistero del genio unico di Dylan, vincitore del premio Nobel. È proprio quello che ci si aspetterebbe dal genere.
*Eileen Jones è critica cinematografica per Jacobin, conduce il podcast Filmsuck e ha scritto Filmsuck, Usa. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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