Vogliamo il pane, ma anche la poesia
Uno scrittore italiano e uno argentino, entrambi autori di storie working class e di estrazione proletaria, si confrontano sul senso, gli obiettivi e la condizione di raccontare dal punto di vista della classe lavoratrice
Viviamo a migliaia di chilometri di distanza, io in Italia e tu in Argentina, ma condividiamo il fatto di essere nati in famiglie di lavoratori. Mio padre era un saldatore ed è morto di cancro dopo anni di esposizione all’amianto. Io ho lavorato per anni nelle cucine dei ristoranti e quando sono emigrato in Inghilterra vivevo di lavori minimum wage, al salario minimo, come pulitore di bagni in un grande centro commerciale di Bristol o come kitchen assistant e sguattero in una mensa scolastica. Tu lavori nella metropolitana di Buenos Aires. Però facciamo entrambi un altro mestiere. Un lavoro che abbiamo rubato alla borghesia: quello di scrittori.
K.F.: Per quanto siano certe le distanze di cui tu parli, non sono meno certe le cause che le accorciano. Tanto per iniziare, come si può capire dal mio nome (e dal cognome di mia madre, che si chiama Pagano), la mia famiglia ha origini italiane. Ma, cosa più importante, entrambi apparteniamo alla stessa classe nella stessa epoca: quella della scomposizione del vecchio proletariato, dell’uscita a destra dei paesi del socialismo reale e della fase egemonica del capitale che Mark Fisher ha definito «realismo capitalista». Tutto questo ci unisce più dei chilometri che ci separano.
A partire dal 1988 ho iniziato a lavorare passando attraverso un’infinità di lavori, la maggior parte dei quali manuali. Anch’io sono emigrato, nel mio caso negli Stati uniti, dove ho vissuto tra il 1999 e il 2003, quando mi hanno deportato in Argentina. Da alcuni anni la letteratura è il mio mestiere. Il mio secondo mestiere, visto che continuo ad alzarmi presto la mattina per andare a lavorare nella metropolitana di Buenos Aires per garantire la mia sussistenza materiale.
Un’altra cosa che ci accomuna è la presenza dell’amianto nella nostra vita: nel tuo caso, come assassino nell’operaicidio di tuo padre; nel mio, nella forma di una minaccia latente e di una lotta. Da alcuni anni infatti l’amministrazione della città di Buenos Aires, nelle mani irrancidite di politici reazionari, ha fatto un affare (torbido come le loro idee) con la società che gestisce la metropolitana di Madrid: ha comprato vecchi treni che contengono amianto. Il nostro sindacato ha scoperto la faccenda. Così abbiamo iniziato una campagna di denuncia e organizzato un piano di lotta, riuscendo a ottenere che l’amministrazione comunale e l’impresa riconoscessero la presenza di questo materiale nocivo. Adesso col sindacato stiamo continuando la lotta per ottenere la bonifica totale dell’amianto dalla metropolitana di Buenos Aires.
Ma torniamo alla letteratura, se sei d’accordo.
AP: Certo. Come scrittore ho raccontato in forma letteraria le mie esperienze di lavoro in tre diversi libri, adottando scelte stilistiche differenti per formare una trilogia working class. Per ora solo i primi due sono disponibili in traduzione spagnola, il terzo dovrebbe essere tradotto nel prossimo anno. Amianto è la storia di mio padre, la storia di un operaio della vecchia generazione, con la tuta blu e le mani sporche di grasso. 108 metri è la storia dei nuovi lavoratori di oggi… ed è anche la storia della mia emigrazione in Inghilterra. La forma che principalmente uso nella mia opera, semplificando molto per esigenze di spazio, è un intreccio tra l’inchiesta, il racconto di auto-fiction e il pamphlet di denuncia politica.
Di fatto per me la letteratura argentina è un punto di riferimento importante e considero autori come Rodolfo Walsh e Osvaldo Bayer fondamentali. Da Walsh ho appreso la forma della no ficción (che lui ha sviluppato anche prima di Truman Capote), che fonde giornalismo e inchiesta con la narrativa, tenendo tutto assieme con una forte tensione etica e ritmica. Per questo la forma della mia scrittura è così ibrida già nelle sue fonti, dato che mi sono ispirato sia alla no ficción ispanoamericana che al romanzo working class della letteratura anglofona, soprattutto quella inglese e scozzese.
Vedo che quel che fai tu nei tuoi romanzi (notevole Da lontano sembrano mosche, pubblicato in italiano da Feltrinelli con traduzione di Pino Cacucci). E vedo anche che le tue scelte stilistiche sono diverse dalle mie. Non è un male: bisogna raccontare storie working class con ogni mezzo necessario e ognuno segue la sua pista. Vorrei però chiederti che tipo di impatto ha avuto sulla tua scrittura il fatto di essere una persona di classe lavoratrice.
K.F.: Io cerco, quando mi siedo a scrivere fiction, di dimenticare la mia condizione di operaio. E cerco anche di dimenticare che sono marxista. Perché so già che, per quanti sforzi faccia per evitarlo, tutto questo emergerà da sé. E anche perché mi interessa molto la letteratura politica – e per me è ovvio che la politica prende la forma della lotta di classe – e credo che nulla possa danneggiarla più del pamphlettismo.
Credo che la cosa più importante che la mia condizione di classe mi abbia dato sia il modo con cui mi approccio alla letteratura. Io mi confronto con la mia scrittura come un operaio che si rapporta alle macchine, pensate per la riproduzione del capitale, e si chiede come dovrebbero funzionare per il bene collettivo in un mondo che ancora non esiste: pronto a usare quegli attrezzi che mi permettono di costruire un testo che ancora non esiste, la narrativa di un mondo che verrà. Un mondo che ancora non è reale ma che è vero. E per questo trovo che siano di grande utilità i generi popolari, soprattutto l’incrocio tra generi, che mi permettono di «lateralizzare il senso», ossia di guardare le cose da una prospettiva obliqua, e di costruire artefatti narrativi che operino contro la realtà. Mi piacerebbe chiederti come tu risolvi questa tensione, o meglio ancora come credi che la letteratura operaia possa rispondere ai punti ciechi del vecchio realismo sociale.
A.P.: È un tema importante. La retorica dell’ideologia per me si trasforma presto in «lettera morta». Non vedo niente di interessante nel vecchio romanzo da realismo socialista. E credo che per raccontare la realtà, bisogna andare oltre il realismo. Per questo utilizzo molto l’umorismo e l’ibridazione di diversi generi letterari: per non morire di realismo sociale. Racconto la vita lavorativa degli emigrati nel Regno Unito e nel racconto ci infilo il fantasma di Margaret Thatcher, come se uscisse da un romanzo weird o gotic. Bisogna trovare nuove metafore, che siano vive, perché le vecchie sono logore o morte. E tu, Kike, questa cosa la fai molto bene. Il tuo romanzo noir Da lontano sembrano mosche è molto forte e veloce. Leggendolo si rimane attaccati alle pagine. Mi è piaciuto molto il tuo sguardo verso la borghesia criminale, verso una certa lumpen-borghesia. Serve a descrivere bene una buona fetta della borghesia sia in Italia che in Argentina: una borghesia che è fatta spesso da nuovi ricchi privi di capitale culturale ma dotati di un consistente capitale di relazioni familiari (a cui non trema il polso di farsi la legge da soli, se serve), una borghesia molto diversa da quella dell’Europa del nord.
Il tuo romanzo è anche un atto di giustizia, volendo di giustizia poetica (anche se non credo che la giustizia vera si faccia dai libri: si ottiene piuttosto trasformando i rapporti di forza reali nella società). Spesso noi lavoratori la giustizia ce la ritroviamo a metterci i paletti tra le ruote. Ma il destino che incontra nel tuo noir il protagonista, il signor Machi, è un atto di giustizia. Non importa da chi arriverà il colpo finale, se dal cameriere, dal cuoco o dalle prostitute. Tutte le persone di classe lavoratrice odiano il signor Machi, il fottuto padrone (Che gran noir, sarebbe piaciuto a Dashiell Hammett e a Jean-Patrick Manchette).
Questa ricerca di una giustizia attraverso la letteratura la sento vicina. In Amianto ho cercato una forma di giustizia poetica per la morte di mio padre, già che non trovavo giustizia nei tribunali. Ma la vera giustizia non arriva dalla scrittura: arriva dalle lotte sociali (a meno da non pensare che sia possibile cambiare il mondo con la letteratura, cosa che mi sembra poco probabile). Per questo ti chiedo se il tema della giustizia sociale – così difficile da realizzare nella vita reale – possa esprimersi in una narrativa di classe operaia.
K.F.: È una gran domanda quella che poni. E come mi capita spesso con le grandi domande, non ho una risposta. O meglio: ho una risposta sperimentale, che offro a me stesso attraverso la mia opera di finzione. Io provo un odio così profondo verso la borghesia che voglio che le accadano cose orribili in ogni universo concepibile. Incluso ovviamente quello della finzione letteraria. Ma allo stesso tempo mi spaventa che questo mio fervente desiderio trasformi la mia letteratura in una letteratura dell’ottimismo. Di un ottimismo che, ovviamente, non ho. Per questo preferisco, parafrasando Rodolfo Walsh, che questi oscuri momenti di giustizia siano opachi, frammentati, senza un senso finale. In certo modo sono d’accordo con te: la ricerca di alcune forme di giustizia – sebbene questa parola sia un po’ troppo grande per quel che vogliamo dire – può essere utile per la costruzione di una narrativa che, come dicevo prima, affronti la realtà dalla parte della nostra classe.
A.P.: In passato ho avuto difficoltà a trovare case editrici per pubblicare i miei libri. Mi han detto che i miei libri sono pieni di rabbia, che su queste storie operaie non arrivano segnali positivi dagli uffici marketing. Ora molto meno: sono le case editrici a cercarmi, la mia opera è tradotta in svariate lingue, non posso lamentarmi. Eppure il tema della classe lavoratrice fatica a trovare spazio nelle storie che il mercato editoriale manda in stampa. Non è facile che si accenda il semaforo verde per le storie di classe operaia. Questo accade quasi ovunque, nei media come nell’accademia: guai a parlare di classe, perché «le classi non esistono», come sostengono gli allievi di Margaret Thatcher. «Don’t mention the C Word». Tuttavia dobbiamo avere fiducia nelle storie che raccontiamo, perché se non ci raccontiamo da soli, ci racconteranno gli altri. Se lasciamo spazio allo storytelling della classe media sui lavoratori, ci ritroveremo con storie in cui non ci riconosciamo. E non penso solo alla lagna giornalistica sui lavoratori «che non si trovano» nei ristoranti e nei lavori agricoli – e che cavolo, prima dite che la classe operaia non esiste, che siamo tutti classe media, e poi vi lamentate che non la trovate, brodi! – , o all’apologia degli imprenditori onesti (ce ne saranno, immagino). Penso anche a opere più progressiste, scritte da intellettuali di classe media che si sentono vicini ai lavoratori. Sai, ogni volta che leggo una storia di classe lavoratrice scritta da qualcuno che non è di classe lavoratrice, sento quasi subito che le manca qualcosa, in certo modo mi risulta d’istinto estranea. Inoltre, soprattutto in passato, almeno fino a una decina di anni fa, si faceva una grande confusione quando si parlava di letteratura del lavoro in Italia. Si mescolava «letteratura industriale» con la «letteratura del lavoro» infilandoci dentro la «letteratura sull’impresa» (in genere agiografie di imprenditori «onesti») e affossando la «letteratura di classe operaia», al massimo caratterizzata come «letteratura del precariato» e sussunta in questo pastrocchio dove, come sempre, nel nome del lavoro si mettevano assieme sfruttati e sfruttatori. Per uscire da questa marmellata indistinta priva di connotazioni di classe ho scelto di parlare di letteratura working class per il mio lavoro di scrittura. Cosa ne pensi? Ci sono problemi simili nella letteratura latinoamericana? L’industria editoriale ispanoamericana come si pone rispetto alla letteratura operaia? Ci sono sentieri praticabili? O magari la macchina editoriale si riconcilia con le tematiche operaie solo quando questa letteratura è scritta dalla classe media?
K.F.: La piccola borghesia è senza dubbio, anche in America Latina, il settore più rappresentato nella finzione in tutte le sue forme, inclusa la letteratura. Assieme alle storie della borghesia, sono anche molto rappresentati i lumpen e i marginali (in realtà dovremmo dire: è molto rappresentato lo sguardo della piccola borghesia verso lumpen e marginali). La grande assente a questo tavolo, salvo rare eccezioni, è la classe operaia. Così come festeggiamo l’importanza della narrativa femminista e ci auguriamo che i gruppi oppressi per ragioni etniche o per il loro orientamento sessuale abbiano sempre più voce nella narrativa, dovremmo anche farci qualche domanda su questa assenza.
Forse, aldilà dell’ostilità del mondo editoriale, c’è una certa assenza di voci fresche proprio per quella rabbia di cui parlavi. In ogni caso, quel che mi colpisce – anche se non sorprende – è il fatto che a brillare per la sua assenza sia la classe che è ancora la grande oppressa del sistema. E dico che la cosa mi colpisce perché, nonostante tante trasformazioni, parliamo della classe maggioritaria, della forza che muove il mondo. E dico che questo non mi sembra strano – e lo dico a rischio di guadagnarmi antipatie – perché sono convinto che la classe lavoratrice continui a essere l’unica che porta in sé il germe per farla finita col capitalismo.
A.P.: Non ti sembra che il problema della visibilità editoriale della classe lavoratrice abbia in parte a che fare col fatto che il mondo della letteratura, intendo proprio l’industria editoriale, non è solo dominato dalla borghesia ai piani alti, ma è spesso composto da persone di classe media anche ai suoi piani inferiori? Se gli editor delle case editrici fossero persone che da piccoli sentivano parlare in casa di scioperi e disoccupazione, forse le nostre storie operaie avrebbero una migliore ricezione. Prendiamo un libro anche di successo, come Shuggie Bain di Douglas Stuart, un romanzo ambientato nella working class di Glasgow che nel 2020 ha vinto il Booker Prize, uno dei premi letterari più importanti al mondo. Ecco: questo romanzo è stato un successo dopo la pubblicazione, ma prima di essere pubblicato è stato rifiutato da decine e decine di case editrici. Il tema dei rifiuti editoriali è un classico, per chi scrive da un punto di vista working class.
Il semaforo verde invece si accende con più facilità per le storie delle persone ben nate. O anche solo per le tematiche sensibili per la classe media. Spesso, più che un problema di tematiche, è un problema di forme. E non accade solo nella letteratura. Prendiamo le pubblicità: sono tutte storie di classe media. In realtà la pasta Barilla ci fa vedere solo una famiglia che mangia. Ma ci dicono che è una famiglia italiana. Eppure l’arredo non è operaio. Ma non è quello il divide di classe. Quando vedo la pubblicità della pasta Barilla, con il padre seduto a capotavola, penso alla casa di mia madre. Non tanto alla miseria degli arredi, ai muri ingialliti della cucina e alle vecchie stampe impolverite che stanno lì da sessant’anni. Penso al fatto che a casa, quando io ero piccolo, mio padre non c’era mai, perché stava in trasferta nelle acciaierie e nelle raffinerie. Eppure vogliono che le famiglie «italiane» le pensiamo come le famiglie Barilla, come famiglie di ceto medio riunite in una bella cucina. Quel che accade nello storytelling del marketing, accade ahimè anche nella letteratura. Le storie di classe media sono percepite come naturali, le nostre come marginali, di nicchia, oppure vengono travestite con etichette come «urban», «youth», «subculture». Loro sono la cultura, noi siamo la sottocultura. Che ne pensi?
K.F.: Tanto per cominciare, credo che il problema principale è che il mondo – non solo quello editoriale, ma tutto il mondo – è dominato dalla borghesia. E che in questo mondo il posto che ci assegnano come lavoratori, in ambito culturale, non è quello di produttori, bensì di consumatori.
E al tempo stesso credo che se per il capitale fossero redditizie le storie di classe operaia, avremmo una novità letterario-proletaria alla settimana. E la classe operaia non ci guadagnerebbe nulla. Per questo dobbiamo piuttosto chiederci: a chi vogliamo raccontare queste storie operaie? Perché e da dove le raccontiamo?
A.P: Per come la vedo io, bisogna ricostruire un immaginario conflittuale per la classe operaia, altrimenti ci racconteranno come bruti, rozzi, ignoranti, sessisti. Oppure avidi, individualisti e interessati solo ai cazzi propri (ossia come loro), ma senza il buon gusto (che loro sì, loro pretendono di avere). Per questo bisogna obbligare l’industria culturale a occuparsi delle nostre storie. Questo accadeva, sulla spinta della lotta di classe, negli anni Settanta, anche se già allora di rado gli operai si raccontavano da soli (e quando succedeva, come nel caso di scrittori operai come Di Ciaula o Di Ruscio, non a caso li chiamavano «scrittori selvaggi»). Ma poi, col riflusso e il neoliberismo, senza la spinta di movimenti sociali forti, l’industria culturale ha potuto allegramente fottersene dei lavoratori. E già che c’erano, se ne sono fregati anche delle nostre storie e delle nostre scritture. Ma per me la cultura, l’editoria e l’industria editoriale sono un campo di battaglia, tanto quanto le piazze. Le cose cambieranno nell’editoria quando cambieranno i rapporti di forza nel paese. Quando gli operai usciranno dalle fabbriche per riprendersi le strade, le rotonde, le piazze. Sarei idealista e ipocrita se dicessi che le battaglie si vincono coi libri e che la giustizia è quella poetica. Sono i conflitti sociali a spostare il peso dei rapporti di forza nelle società. E le nostre scritture si alimentano dei conflitti sociali ma possono contribuire a tenere alto il livello del dibattito attorno alla classe lavoratrice. Possiamo smontare le narrazioni tossiche sugli operai e partecipare da attivisti comuni (più che da scrittori) alle loro lotte. Ma infine il punto è il solito, ed è anche una questione di egemonia: se la cultura e il sistema simbolico sono un campo di battaglia, non possiamo regalare l’industria culturale e editoriale ai figli di papà e alla classe media.
K.F.: Certo. E secondo me questa è la ragione per cui dovremmo trovare delle forme alternative per far circolare e raccontare le nostre storie. Che tipo di circolazione? Ovviamente non lo so, però ti racconto alcune esperienze. Il nostro sindacato dei lavoratori della metropolitana – Agtsyp, Asociación Gremial de lo Trabajadores del Subte y Premetro – ha una radio e una casa editrice. Questo è un esempio. Pubblichiamo una rivista di cultura – Acoplando – e libri scritti da lavoratori. Alcuni sono libri sulle nostre lotte, sulla nostra storia, altri sono libri di finzione o poesie. Perché, qualcuno dei migliori tra i nostri l’ha già detto, bisogna guadagnarci il diritto al pane, ma anche alla poesia. Un altro esempio è la Indómita Luz, la casa editrice del Utep (Unión de Trabajadores de la Economía Popular), che ha pubblicato il mio ultimo libro, Territorios sin cartografiar, e che ha un catalogo in cui convivono saggi, poesia, letteratura operaia e new weird.
Poi c’è il problema delle forme: possiamo fare letteratura da un punto di vista di classe, raccontando uno sciopero, ad esempio; oppure scrivere un racconto in cui in un paese una forza soprannaturale fa scomparire tutti quelli che escono di casa per fare qualcosa che non sia lavorare. O introdurre nella storia, come mi raccontavi tu, il fantasma di Margaret Thatcher. Scrivere contro la realtà.
Nel mio romanzo Todos nosotros – perdonami per l’autoreferenzialità – ci sono alcuni capitoli narrati da oggetti. Questi oggetti autocoscienti pensano il processo che ha permesso loro di esistere. Uno di questi oggetti è un libro – Stato e rivoluzione – che si riconosce figlio tanto dei tipografi che l’hanno stampato, del traduttore che ci ha messo le sue parole e di Lenin che l’ha scritto la prima volta. Voglio dire, provando a completare le parole che nelle mie prime risposte uscivano a balbettii, che queste sono le forme oblique e opache che plasmano il mio tentativo, uno dei tanti possibili, di nominare la classe a cui apparteniamo.
*Kike Ferrari è scrittore e lavoratore nella metropolitana di Buenos Aires e delegato sindacale. Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, dirige per Alegre la collana di narrativa Working Class.
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