Il Game delle élite
Il Ministero ha riconosciuto legalmente un corso di laurea della scuola di Alessandro Baricco, ma non è chiaro cosa si studia e con quali metodi. L'unica cosa evidente è che per laurearsi servono trentamila euro
Sono settimane intense per Alessandro Baricco. Il suo ultimo saggio, The Game, ha occupato una discreta fetta del recente dibattito culturale. Un suo articolo apparso su Repubblica il 10 gennaio, dal titolo «E ora le élite si mettano in gioco», ha dato il via a una lunga catena di interventi intorno alla dicotomia popolo/élite. Infine il 23 gennaio la Scuola Holden, da lui fondata venticinque anni fa, e di cui è tuttora Preside, ha annunciato l’avvio di un corso di laurea legalmente riconosciuto. Academy (questo è il nome del corso; un po’ come chiamare una nuova disciplina olimpica Sport) dura tre anni e, a quanto pare, è equipollente a una laurea triennale in Discipline delle arti figurative, della musica, dello spettacolo e della moda. Costa diecimila euro. Sarebbe a dire, ventidue volte il costo medio delle tasse universitarie nel sistema pubblico. Ne vale la pena?
Per rispondere può essere utile, ancorché sfiancante, dare un’occhiata al sito ufficiale del corso di laurea: senza giri di parole, la presentazione di Academy che il sito offre è una parodia involontaria di ciò che un corso di laurea è o dovrebbe essere. Si scopre che Academy è un corso di Scrittura, ma solo «apparentemente». Che si compone di sette Discipline dai nomi suggestivi e genericissimi: Armonia, Design della mente, Figure, Instabilità, Intensità, Linguaggi, Sequenze. Che ci sono gli esami ma che, diversamente dal sistema universitario classico (verso il quale si affrettano a rimarcare ogni distanza mentre formalmente ci entrano con tutte le scarpe), questi durano una settimana a fine anno, un po’ come la Maturità. Cosa concretamente si impari dentro Academy – ovvero, perché valga la pena spendere trentamila euro per frequentarlo – resta piuttosto inespresso.
Le pagine delle singole discipline peggiorano la prospettiva. Iniziano tutte con Movimento, una sezioncina che dovrebbe riassumere in una singola frase gli obiettivi del corso (una caratteristica dominante del lessico della Holden e, invero un elemento costitutivo della prosa di Baricco, è l’impressione che la lingua si semplifichi sostituendo a espressioni forse impolverate ma chiare, come «obiettivi del corso», una singola parola affascinante ma fuori contesto, come Movimento). Questi movimenti sono frasi talmente onnicomprensive e decentrate da valere, se prese alla lettera, come piano pluridecennale per una nutrita comunità di studiosi, e in nessun senso possono credibilmente essere l’obiettivo di un corso universitario. Per esempio, Armonia si propone di «Individuare i principi che, nel tempo, hanno consentito agli umani di organizzare sistemi complessi in modo armonico, e metterli in pratica»; Figure vuole «Risalire a un minimo comune denominatore che leghi insieme oggetti diversi tra loro»; Linguaggi invita a «Mettersi nei guai esplorando una grammatica nuova».
La sezione successiva, Cosa, non risponde mai alla domanda banale: «Sì, ma cosa c’è in questo corso? Cosa imparo?». Piuttosto procede secondo due dispositivi retorici complementari:
1) Giustapponendo riferimenti a effetto che appartengono a diversi domini del discorso. Ecco, per esempio il Cosa della disciplina Design della Mente: «Ascoltare la Quinta Sinfonia di Beethoven, riconoscerne il tema e le sue variazioni. Leggere Dickens e individuare gli elementi ricorrenti delle sue opere: espedienti narrativi, quartieri, personaggi di determinate classi sociali. Disegnare un percorso che unisca i luoghi di una capitale secondo un principio di esplorazione tematica (la Parigi degli anni ’20, per esempio, o quella cinematografica)».
O analogamente, questa lista appare nell’introduzione generale al corso di laurea: «Per cui sì, studiamo anche Cartesio, Palladio, Schumann, l’inglese di Shakespeare e il tennis di Federer».
2) Allestendo una metafora liquidissima che, come le storie (secondo loro), si adatta a ogni interpretazione: «Bisogna immaginare che una storia sia come l’acqua. A seconda del contenitore in cui viene versata, occupa uno spazio e assume una forma. A seconda della temperatura, cambia di stato. Così funzionano le narrazioni oggi: nell’arco della loro vita si trasformano in continuazione per abitare luoghi diversi, coprire grandi distanze, raggiungere pubblici differenti».
La caratteristica comune a questi due dispositivi è che respingono l’esigenza, sembrerebbe costitutiva, di fissare dei confini. Di chiarire realmente cosa ci propone di studiare e con quali metodi lo si voglia fare. Di fissare un dominio. Il menù che propone Academy è invece slabbrato all’inverosimile: tutto richiama tutto – ovviamente non si periodizza mai niente – e non resta che questo infinito procedere per allusioni. Non è dato sapere chi insegni queste Discipline. I nomi dei professori saranno forse svelati via via, come i giudici di un talent show, ma l’informazione su chi siano i docenti è davvero il minimo sindacale che un corso di laurea dovrebbe dare. Insomma, Academy devia così sfacciatamente da ciò che comunemente si intende per una laurea triennale da lasciare stupefatti che il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca abbia approvato una cosa simile. Per dirne una, non c’è uno straccio di programma, o un tentativo qualsiasi di chiarire cosa sia dentro un corso e cosa fuori. Non c’è un cenno ai libri di testo.
Ora, è ovvio che questa pretesa di voler surfare sulla superficie della conoscenza potrebbe essere ricondotta a una qualche epistemologia del postmoderno, alle pagine di Jameson che Baricco rimastica da anni. Ma francamente vorrebbe dire nobilitarla troppo e perdere di vista il punto centrale. Il punto centrale è che qui abbiamo un corso di laurea che nella sua pretesa isterica di presentarsi diverso, à la page, vero figlio del Game, finisce per vendere a diecimila euro l’anno una roba di questo tipo:
«Sia al primo che al secondo anno, bisogna scegliere tra coppie di linguaggi diversi. Greco antico o Inglese di Shakespeare, Programmazione informatica o Musica. Il punto non è ovviamente quello di padroneggiare alla perfezione, nel giro di pochi mesi, una lingua nuova: si tratta piuttosto di capirne i meccanismi, riconoscerne gli ingranaggi e imparare a sillabarne qualche parola, scoprendo lì dentro una forma di bellezza».
Al netto dell’oggettiva difficoltà di capire quale sia il senso di somministrare dosi omeopatiche di Greco antico e Programmazione, qui la questione sta tutta in «imparare a sillabarne qualche parola». Eccolo il compito di Academy: sillabare concetti surfando sui successivi. (Fra parentesi, nel mio corso di laurea a Siena insegno, nel giro di pochi mesi, ben due linguaggi nuovi! E altro che sillabare, alla fine ogni studente li manipola decentemente. Frequentarlo è, guarda un po’, gratis).
Insomma Academy rappresenta il punto di arrivo dell’idea infelice, e ultrabaricchiana, che la trasmissione del sapere possa darsi, nel migliore dei casi, come una perenne sequenza di Lezioni americane – pronunciate da docenti che non hanno un grammo dell’acume che Calvino aveva. E, nel peggiore dei casi, nella costruzione di effetti di senso analoghi a quelli della formidabile parodia dei TED talks di Will Stephen:
«I have absolutely nothing to say whatsoever. And yet, through my manner of speaking, I will make it seem like I do. Like what I am saying is brilliant. And maybe, just maybe, you will feel like you’ve learned something».
Al momento l’unica cosa che si può sensatamente desumere dall’offerta didattica di Academy è che chi si è laureato là aveva trentamila euro da spendere. A proposito di élite.
*Luca Francesco San Mauro è ricercatore di logica matematica alla Technische Universität di Vienna. Ha studiato e svolto ricerche a Bologna, Siena, Pisa, Buenos Aires e Novosibirsk. Dal 2010 al 2017, cioè dal primo all’ultimo giorno, è stato fra i redattori della rivista 404: file not found.
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