
La vecchia bestia del voto utile
L'emergenza Covid ha favorito i Presidenti uscenti, e il sistema elettorale ha spinto più che mai verso il bipolarismo. I Cinque stelle ne escono normalizzati e ciò che resta a sinistra del Pd non può più non accorgersi che occorre inventarsi qualcosa
Ogni elezione è bene che sia analizzata tenendo sempre conto di due coordinate: il contesto politico e il tipo di elezione, il suo sistema elettorale, le specificità che influenzano i risultati.
Nel caso delle Regionali, ad esempio, si tratta dell’unica elezione che afferma pienamente uno spirito maggioritario, con il metodo del First past the post, per quanto riguarda il presidente, in cui il più votato vince senza ballottaggio. Un’analisi che se ci si soffermasse solo al quadro politico, quindi alle spinte interne al Partito democratico per mettere a verifica la segreteria di Nicola Zingaretti oppure a quelle presenti nel padronato che vorrebbe liberarsi dell’alleanza Pd-M5S o, ancora, a quelle del centrodestra che vede ormai lanciata una competizione tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, sarebbe parziale. E non permetterebbe di cogliere un dato tra i più rilevanti di questa tornata elettorale: la spinta al voto utile e il ruolo stratosferico assunto da alcuni presidenti di Regione.
Il voto utile è una vecchia bestia della politica italiana, di cui ha fatto ampiamente le spese la sinistra più radicale, e la regola si è confermata anche il 20 e il 21 settembre. Gli appelli al voto disgiunto o comunque a concentrare le forze sui candidati di centrosinistra che avrebbero potuto meglio fermare la destra di Salvini & co sono stati vincenti. E non hanno riguardato, come nel caso dell’indicazione a «turarsi il naso» lanciata da Marco Travaglio, solo il voto del M5S ma anche la sinistra, come conferma il deludente risultato del pur bravo Tommaso Fattori in Toscana.
Questa spinta si lega all’altra, quella di liste dei presidenti di Regione premiate oltre ogni misura. Il leader leghista del Veneto, Luca Zaia, ha visto i consensi alla propria lista personale più che raddoppiare dai 427 mila voti del 2015 ai 915 mila del 2020: in Veneto la Lega nord ha ottenuto «solo» 347 mila voti, sostanzialmente gli stessi del 2015. Vincenzo De Luca, «boss» della Campania, ha visto passare le liste a suo nome da 111 mila voti a 308 mila, mentre il Pd, suo principale sponsor, ne ha avuti poco di più, 395 mila, un po’ sotto ai 417 mila delle europee. Il fenomeno ha riguardato anche Giovanni Toti, presidente ligure, con un bottino personale di 141 mila voti rispetto ai 107 mila del primo partito della sua coalizione, la Lega nord. Dove invece i candidati presidenti non hanno avuto una lista personale in genere hanno perso. È il caso di Stefano Caldoro in Campania, di Raffaele Fitto in Puglia, di Susanna Ceccardi in Toscana.
Personalizzazione e concentrazione dei voti sul personaggio di riferimento della Regione. Effetto sicuramente del Covid e dell’emergenza da lockdown che ha caratterizzato gran parte dell’anno e che ha fatto percepire, al di là della realtà, l’azione di presidenti di Regione costantemente sotto i riflettori dei media e che si sono prodigati per essere visibili nell’emergenza (i video surreali di De Luca o il «metodo Zaia» mutuato dal professor Andrea Crisanti in Veneto), come decisiva. E per questo sono stati premiati. I tre leader appena citati, quelli che hanno svolto un ruolo nazionale nel corso della crisi da Coronavirus, superano tutti il 50% dei consensi e nel caso di Zaia e De Luca lo superano in modo impressionante.
Il fenomeno non è nuovo, ma stavolta è stato ancora più incisivo. E contribuisce a strozzare le forze intermedie, o più piccole, e induce a consolidare, pezzetto per pezzetto, quella tendenza all’americanizzazione della politica italiana di cui parliamo da diverso tempo. Sfarinamento dei partiti, ruolo dei leader, personalizzazione, soprattutto mediatizzazione anche per il ruolo dei nuovi media (ma non necessariamente, Zaia non è certamente un tipo da social) sono gli ingredienti principali di questa tendenza. Con cui ormai occorre fare i conti, prendere le misure, anche a sinistra. Iniziando a capire se è possibile, ad esempio, poter declinare una modalità à la Sanders nel contesto italiano per poter costruire un punto di vista e una posizione di forza. Sia chiaro, non si tratta di discutere, a sinistra, di far parte, ad esempio, del Partito democratico, quanto di capire se esista una modalità di intervento istituzionale che possa produrre una qualche efficacia. In Toscana le due liste di sinistra, insieme, avrebbero raggiunto più del 5% senza contare il 2% ottenuto dalle due liste comuniste (ambito in cui ormai prevale una logica settaria senza senso).
La personalizzazione intorno ai presidenti di Regione non si tradurrà in nessun progetto politico nazionale, non esce dai confini regionali. Piuttosto è il frutto di una politica totalmente disarticolata con leader locali che ricordano i vecchi «cacicchi» detentori di un consenso clientelar-populista che gestiscono per manovre di potere locale o per farlo pesare dentro ai partiti di riferimento. Del resto, quale romano voterebbe mai De Luca o quale milanese Zaia?
Anche grazie all’effetto dei «governatori» (termine improprio, ma in questo caso utile a cogliere la concezione che se ne ha) la destra ha un balzo di consensi rispetto al 2015, ma non rispetto al 2019. La comparazione tra regionali e europee è però arbitraria, può aiutare a vedere dei movimenti tendenziali, ma non è affidabile, come spiegato. La sintesi che se ne può trarre è che una spinta alla radicalizzazione di destra si è fermata, ma la dinamica di fondo che riguarda il Paese è ancora in piedi anche perché quella spinta spesso si indirizza verso candidati apparentemente di sinistra, ma di fatto di destra come Vincenzo De Luca. E lo stesso Michele Emiliano presenta ambiguità consistenti.
Salvini subisce una sconfitta, tanto che il suo ruolo di premier del centrodestra è messo in discussione. Ma quel fronte non è indebolito anche se Forza Italia potrebbe cercare nuovi spazi di autonomia per salvaguardare la propria esistenza in vita.
A sinistra, invece, prevale l’effetto del voto utile. Zingaretti ne beneficia altamente come abbiamo visto e questo comporta anche la ritirata consistente del M5S che sprofonda rispetto alle europee del 2019 e arretra moltissimo anche rispetto alle regionali del 2015 (tranne che in Puglia). Per il Movimento fondato da Grillo si pone ormai il tema della seconda fase della propria vita in gran parte già avviata con la nascita del governo Conte 2. Un partito con riferimenti sociali orientati a sinistra (reddito di cittadinanza, licenziamenti, welfare), ma con un impianto di gestione «repubblicana» del capitalismo, naturale alleato di un Pd con cui ormai potrebbe contendersi anche l’elettorato.
Il referendum dimostra invece quello che in larga parte del dibattito non si è voluto vedere. Il Sì al taglio dei parlamentari, senza dubbio frutto della spinta «antipolitica» che sta alla base della nascita dei Cinque Stelle, è carico anche della diffidenza verso le istituzioni e, allo stesso tempo, della voglia di vedere qualche spinta di rinnovamento. Aver cercato in tutti i modi, come ha fatto la campagna elettorale pilotata da settori moderati e da giornali come Repubblica e l’Espresso, di schiacciare quell’orientamento sul «populismo» (tra l’altro dando a questo termine accezioni di volta in volta diverse e mai veramente consolidate) non ha permesso di relazionarsi a quello che si muove in profondità nella società italiana, in particolare nei suoi settori popolari. Riuscire a vedere questa realtà, tra l’altro, è un limite consistente anche di quel che resta della sinistra più radicale che in questa campagna ha preferito parlare solo al proprio interno. Non è stato avanzato alcun discorso su forme di democrazia alternativa che invece potrebbero trovare ascolto in ampi strati ormai stanchi e lontani dalle strutture logore della democrazia rappresentativa, che non trovano rappresentanza e che potrebbero invece partecipare a innovazioni positive.
Il combinato disposto del voto regionale e del voto referendario potrà rafforzare al strada della «normalizzazione» del M5S in asse con il Pd anche se questo movimento produrrà effetti contradditori e contraccolpi interni (si vedano le polemiche di Alessandro Di Battista). L’alleanza di governo si giocherà la propria stabilizzazione sull’impiego dei fondi europei e sul percorso di fuoriuscita dalla crisi del Covid. Una stabilizzazione che potrebbe trovare anche un supporto di Matteo Renzi il cui risultato è poco più che penoso (in Veneto la candidata Sbrollini, con lo 0,6% arriva dietro ai Novax, in Puglia il candidato presidente Ivan Scalfarotto raccoglie uno striminzito 1,6%, e il 4 e rotti percento della Toscana è stato ottenuto grazie all’alleanza con PiùEuropa e Azione di Carlo Calenda: davvero misero). Renzi potrebbe decidere di accasarsi in questo nuovo corso di moderazione e stabilizzazione del governo giallorosa a meno che non opti per la costruzione di un improbabile fronte centrista-liberale anche con una Forza Italia in cerca di collocazione.
A sinistra, come abbiamo visto, si riproduce l’ennesima sconfitta ben rappresentata dal brutto risultato toscano per un candidato di valore. Come abbiamo sottolineato più volte, una fase storica è ampiamente finita, la necessità di ricostruire una soggettività di classe è spinta in territori inediti e inesplorati (come l’assenza di riferimenti istituzionali) e quindi va ripensata da cima a fondo. È così da diverso tempo. Invece le varie scelte compiute dai soggetti partitici esistenti non fanno che riprodurre ritualità antiche, vecchi schemi, riassemblamenti di gruppi dirigenti che hanno ampiamente già dato, senza un ragionamento serio sull’insediamento sociale o sull’elaborazione di pensiero critico.
Una strada à la Sanders, dicevamo nell’introduzione, sapendo però che in Italia, a differenza che negli Usa, non esistono forme e strutture favorevoli. Lì un’organizzazione indipendente può partecipare con propri candidati e candidate anche alle primarie democratiche mantenendo la propria fisionomia e conflittualità con l’establishment del partito. Qui – come mostrato da vari tentativi fatti in passato – questo percorso non sembra agevole e spesso ha diluito la carica radicale di alcuni candidati. E l’ipotesi di una legge elettorale proporzionale cambierebbe di nuovo tutto il quadro. Servirà un cambio di passo se si vuol far vivere nel momento elettorale un punto di vista di classe e alternativo, senza ridursi all’autoreferenzialità. Non esistono scorciatoie, e non spetta nemmeno a noi indicare presuntuosamente strade per l’avvenire. La constatazione, però, che tutto quello che è stato fatto finora non ha funzionato, anzi ha prodotto ulteriori delusioni e sconfitte, è il punto minimale da cui partire per una discussione seria.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Da Rousseau alla piattaforma Rousseau (PaperFirst).
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