I confini della cittadinanza
Il caso Suarez ha messo in luce la logica opaca con cui si ottiene la cittadinanza nel nostro paese, dove criteri di reddito, "merito" ed eredità contano molto di più della presenza materiale nel territorio italiano
«Il reddito dà cittadinanza», recita un tweet piuttosto diffuso su internet all’indomani dell’esplosione del «caso Suarez». Un gioco di parole acuto e amaro, che sintetizza in modo efficace alcuni dei nodi sollevati dalla vicenda del calciatore uruguaiano, tanto grottesca da risultare utile a decostruire la logica che regola la concessione dello status di cittadina e cittadino, mettendone in luce le ambiguità e le contraddizioni.
In Italia, l’acquisizione di questa posizione giuridica passa attraverso percorsi accidentati, opachi e profondamente asimmetrici. E, soprattutto, si basa su presupposti politici che possono apparire scontati e ragionevoli ma che, in realtà, si rivelano discutibili e contraddittori.
Il primo aspetto critico della normativa sulla cittadinanza è quello delle disuguaglianze economiche. La disponibilità di un certo reddito, unita magari a una buona dose di prestigio e considerazione sociale, può accelerare i tempi della burocrazia o, addirittura, costituire la precondizione per il raggiungimento dell’obiettivo desiderato. Il secondo aspetto critico è quello del merito. La cittadinanza, a meno che non la si «erediti», ricevendola cioè dal genitore secondo il diritto del sangue, non si ottiene per riconoscimento ma per concessione. Non in modo automatico, dunque, ma soltanto se determinati requisiti sono soddisfatti. La lingua, innanzitutto, e, nel caso dell’acquisto per «naturalizzazione» – ossia dopo un soggiorno decennale, e regolare, nel territorio italiano –, anche il reddito.
I due aspetti sono strettamente collegati. O meglio, il primo è una conseguenza del secondo. La cifra prevista dalla legge per «meritare» la cittadinanza per residenza è di entità relativamente ridotta – 8.263,31 euro, se la persona richiedente non ha la o il coniuge né i figli a carico –, ed è pari a quella prevista per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria. Questa soglia di reddito, tuttavia, oltre a rappresentare un impedimento materiale per molte e molti, costituisce un monito dal forte valore simbolico. La sua stessa esistenza veicola un messaggio molto esplicito: soltanto coloro che non gravano sul servizio sanitario nazionale possono entrare a far parte in maniera piena della comunità nazionale, mentre coloro che utilizzano le strutture sanitarie pubbliche senza contribuire, attraverso il pagamento delle tasse, al loro mantenimento rimangono fuori dal perimetro della cittadinanza. Il messaggio implicito nella soglia reddituale, in sostanza, è il seguente: «nel nostro paese non vogliamo parassiti, ma soltanto individui attivi e autonomi».
Da una prospettiva del genere, la ricchezza è un carattere intrinsecamente meritorio, indice di realizzazione ed emancipazione personale. Il fatto che sia considerata un elemento centrale non è così sorprendente né bizzarro se si guarda alla storia delle politiche migratorie e di cittadinanza. La condizione di possibilità perché siano pensabili e vengano istituiti «canali privilegiati», riservati a soggetti ricchi e famosi, è data proprio dall’esistenza di un requisito legale fondato sul reddito. Se questo requisito non fosse previsto – vale a dire, se criteri meritocratici di tipo economico fossero estranei alla logica che regola l’acquisizione della cittadinanza – un «caso Suarez» non si sarebbe mai verificato, nel senso che non sarebbe potuto formalmente e materialmente accadere.
La vicenda del calciatore uruguaiano, peraltro, non costituisce un fatto isolato. L’esistenza di un florido mercato dell’accreditamento delle competenze testimonia della centralità che la dimensione economica riveste agli occhi delle istituzioni. Le norme sull’immigrazione in vigore in Italia, del resto, prevedono un permesso di soggiorno speciale – denominato «carta blu» – riservato a persone straniere «altamente qualificate», che possono entrare in Italia al di fuori del regime delle «quote d’ingresso». Le stesse norme, al contempo, rendono l’accesso legale al territorio statale, per le lavoratrici e i lavoratori «normali», formalmente complicato e, ormai da diversi anni, di fatto impossibile proprio a causa del ridotto numero di quote messe a disposizione. L’ordinamento italiano, in sostanza, per il modo in cui è disegnato produce il seguente effetto: le persone che riescono comunque a entrare e a lavorare in Italia – inevitabilmente in maniera informale – difficilmente totalizzano i dieci anni di residenza legale necessari per ottenere lo status di pienamente appartenenti.
Siamo ancora lontani dai modelli di cittadinanza «contrattuale» presenti in altri paesi, esemplificati in particolare da Cipro e Malta. Qui, gli investimenti economici in programmi di sviluppo pubblici e in titoli di stato, così come l’acquisto o l’affitto prolungato di immobili, costituiscono un canale di accesso alla «naturalizzazione» e, perciò, alla cittadinanza europea e alla libertà di circolazione nello spazio Ue. Eppure, in Italia il reddito conta: in quanto tale e quale indicatore di prestigio, riconoscimento e accettabilità sociale. Un livellatore di altre differenze, insomma. Per molte persone, anche di quelle legate al colore della pelle.
Il reddito conta, ma con alcune eccezioni: una persona straniera che ne sposa una italiana non deve soddisfare alcun requisito economico. Come a dire che questa persona, attraverso il matrimonio, viene «assorbita» nel tessuto comunitario a prescindere dal suo livello di ricchezza. All’interno della coppia, infatti, è l’elemento «autoctono» a fornire garanzie di tipo economico.
L’economicismo alla base dei requisiti reddituali, dunque, in certi casi è smussato dal familismo: la piena inclusione nella comunità nazionale è riservata a individui economicamente indipendenti e attivi o che, in alternativa, decidano di legarsi a una persona italiana. Per chi arriva da fuori, in altre parole, sussiste nei confronti della società un obbligo di contribuzione, che però viene meno se l’invito a entrare proviene da chi già si trova all’interno del perimetro della cittadinanza. Un familismo legale di questo tipo mette il sangue al centro dell’idea di appartenenza: si è cittadine e cittadini se si è figli di cittadini oppure se li si sposa. E provoca, oltre a quelli già analizzati, altri effetti paradossali: se si nasce all’estero senza mai vivere in Italia si può ottenere la cittadinanza per il solo fatto che si discende da persone italiane, mentre se si viene al mondo nel territorio italiano da genitori stranieri, o ci si arriva in seguito alla nascita e ci si rimane – legalmente – anche per anni, non si guadagna un pieno riconoscimento.
Per quanto il familismo possa smussare l’economicismo, le barriere, in alcuni casi, permangono, e assumono la forma dei requisiti linguistici. Per effetto del decreto voluto e firmato da Matteo Salvini il 4 ottobre del 2018, e poi convertito in legge il 1° dicembre dello stesso anno, la concessione della cittadinanza italiana, sia per residenza sia per matrimonio, è subordinata al possesso «di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue (Qcer)». Le competenze linguistiche, dunque, costituiscono un requisito che scavalca, in ordine di priorità, i legami relazionali, almeno quando questi sono acquisiti attraverso il matrimonio e non per discendenza. Le persone che ottengono la cittadinanza iure sanguinis – perché nascono da genitori italiani o perché sono discendenti di avi italiani emigrati in paesi dove vige lo ius soli – sono infatti esonerate dalla dimostrazione relativa alla conoscenza della lingua italiana.
L’innovazione introdotta dall’ex ministro dell’interno non costituisce un’iniziativa isolata. Nove anni prima, un’altra norma di stampo securitario – la seconda parte del cosiddetto «pacchetto sicurezza», voluto e firmato, anche in quel caso, da un esponente leghista a capo del Viminale, Roberto Maroni – aveva previsto che il rilascio del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo fosse subordinato al superamento di un test di conoscenza della lingua italiana. Il decreto ministeriale del 2010 che ha definito i contenuti delle prove linguistiche ha specificato che «lo straniero deve possedere un livello di conoscenza della lingua italiana che consente di comprendere frasi ed espressioni di uso frequente in ambiti correnti, in corrispondenza al livello A2 del Quadro comune di riferimento europeo per la conoscenza delle lingue approvato dal Consiglio d’Europa».
In entrambi i casi, l’obbligo di dimostrare un certo grado di competenze linguistiche – che, peraltro, si fa progressivamente più elevato nel passaggio dal permesso di soggiorno di lungo periodo alla cittadinanza – viene introdotto mediante dispositivi normativi che considerano la sicurezza un bene primario da promuovere e difendere. I criteri che regolano le modalità con cui si diventa italiane e italiani sono percepiti, e di conseguenza trattati, come questioni che hanno a che fare con la tutela dell’incolumità della componente «autoctona» della popolazione. Le potenziali cittadine e i potenziali cittadini, in altre parole, costituirebbero, in quanto tali, una minaccia per la collettività.
Il corto circuito tra sicurezza e integrazione sembra caratterizzare, in maniera ormai strutturale, gli orizzonti politici e cognitivi dei governi in carica. Nel 2007, l’allora ministro dell’interno Giuliano Amato, nell’ambito di una proposta di riforma della legge sulla cittadinanza rimasta incompiuta, presenta un documento chiamato Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, finalizzato a riassumere e rendere espliciti i principi fondamentali che regolano la vita collettiva in Italia. Il documento non acquista forza giuridica fino al 2009, quando un altro titolare del Viminale di diverso colore politico – il già citato Maroni – introduce l’Accordo di integrazione, il cosiddetto «permesso di soggiorno a punti». Presentato come un patto pur essendo privo del carattere bilaterale che dovrebbe contraddistinguere gli accordi di natura giuridica, questo strumento segna il consolidamento definitivo, in Italia, della cosiddetta civic integration, una visione dell’integrazione, affermatasi in molti stati europei sul finire degli anni Novanta, che si basa sull’idea secondo cui l’ingresso e/o il soggiorno in uno stato debbano essere subordinati alla dimostrazione di un certo livello di conoscenza dei valori civici, della cultura e della lingua della comunità di arrivo.
Le competenze linguistiche, unite alla conoscenza delle regole del gioco istituzionali, costituiscono dunque uno dei confini dell’inclusione che le persone non italiane sono costrette quotidianamente ad affrontare. Barriere di questo tipo mostrano la natura profondamente asimmetrica e selettiva dell’idea di appartenenza territoriale, per come questa è declinata in Italia e in altri paesi. Una persona che possiede la cittadinanza per nascita o per discendenza non ha bisogno di dimostrare la sua autonomia economica né è chiamata realmente a contribuire al benessere collettivo per mantenere la sua condizione legale: non perde il suo status di pienamente appartenente, e meno che mai viene espulsa dal territorio statale, perché non lavora o è povera. Non corre questi rischi nemmeno se evade il fisco o sottrae fondi pubblici. Lo stesso discorso vale per quanto riguarda la lingua e la cultura civica: una persona che già dispone della cittadinanza continua a possederla anche se è scarsa in italiano, è analfabeta digitale ed è a digiuno dei più basilari elementi relativi al funzionamento delle istituzioni.
Un approccio «legalitario» al caso Suarez, dunque, non soltanto limita la comprensione dei meccanismi che regolano l’appartenenza allo stato ma, soprattutto, distorce i termini della questione. Il problema che questa vicenda solleva non sta nel fatto che le regole fissate per la concessione della cittadinanza sono state aggirate o infrante, ma nella loro stessa esistenza e nei presupposti politici ed etici su cui si basano.
Nel sistema mondiale moderno e contemporaneo, caratterizzato da un’economia di tipo capitalistico e dall’esistenza di stati sovrani che esercitano la propria giurisdizione sulle persone e sui territori, la cittadinanza ha acquisito un’importanza crescente, ed è tuttora ammantata da un’aura di sacralità. La ragione è semplice: riveste una funzione strategica, costituendo la tecnologia per eccellenza di regolazione dei processi di inclusione in, ed esclusione da, una collettività e di controllo sulla sua composizione. Più in dettaglio, la cittadinanza, di concerto con le politiche migratorie, consente di costruire e performare nella maniera desiderata la società, bilanciando in un certo modo il rapporto tra la popolazione, data dall’insieme complessivo delle persone residenti entro i confini di uno stato, e il popolo, costituito invece, esclusivamente, da coloro che dispongono dello status di cittadine e cittadini. Come tale, è una tecnologia che, per trovare legittimazione, deve fondare la sua azione su princìpi politici e visioni societarie, capaci poi di tradursi in criteri di riconoscimento legale.
Questi criteri, da cui derivano i meccanismi concreti di acquisizione e trasmissione dello status di cittadino, assumono diverse denominazioni – ius sanguinis, ius soli, ius domicilii, ius connubii, ius culturae – e, nella realtà concreta dei diversi contesti statali, si intrecciano e combinano tra loro in maniera variegata. L’Italia, come si è visto, privilegia lo ius sanguinis, impiega lo ius soli in maniera solamente residuale, usa lo ius domicilii e lo ius connubii in maniera condizionata e, al momento – nonostante siano state avanzate al riguardo diverse, e piuttosto discutibili, proposte di legge –, non applica lo ius culturae, basato sull’idea che il processo di «cittadinizzazione» passi non tanto attraverso il mero apprendimento linguistico quanto piuttosto per la fruizione di un percorso scolastico e formativo.
Nonostante le forti differenze, i princìpi su cui la cittadinanza si fonda condividono alcune caratteristiche. Lo ius sanguinis e lo ius soli riposano entrambi sul presupposto che le circostanze relative alla nascita – le persone da cui si nasce o il luogo natale – debbano avere un ruolo decisivo nel determinare l’appartenenza. Queste circostanze, tuttavia, sono contingenti: nessuno sceglie dove nascere o da chi essere generato. Anche gli altri princìpi, seppure per ragioni diverse, rimandano a una visione in qualche modo organicistica del corpo sociale. Lo ius connubii, come si è visto, segue una logica familistica: non è la filiazione ma il matrimonio a determinare l’assorbimento nell’organismo societario. Lo ius culturae, invece, risponde a criteri formativi: l’esposizione a un sistema educativo e ai valori da questo trasmessi facilita l’assimilazione alla cultura maggioritaria. Anche lo ius domicilii, impiegando la parola «naturalizzazione», richiama l’accesso a una condizione presociale, non costruita ma «naturale» e «fisiologica».
Nel condividere una matrice organicistica, tutti questi princìpi rimuovono la soggettività delle persone. In sostanza, non è la piena volontà dei soggetti a determinarne il destino legale e materiale. Chi possiede la cittadinanza gode di questa condizione indipendentemente dal suo comportamento pubblico e da ciò che prova nei confronti della società in cui vive. Parallelamente, chi non la possiede – in assenza dei requisiti discussi in precedenza – continua a esserne priva anche se si identifica con la collettività in cui trascorre la sua esistenza quotidiana.
Siamo parecchio lontani, dunque, da quell’idea di cittadinanza attiva, partecipativa e consapevole spesso evocata dagli attori istituzionali e dai media. Siamo invece molto vicini a una metafora organicistica del corpo sociale, al quale si appartiene di diritto o nel quale si viene inglobati per concessione. La parola appartenenza, del resto, contiene già, nella sua radice terminologica, un’idea proprietaria. Il verbo da cui deriva rimanda all’idea di inclusione e a quella di possesso: chi appartiene è parte di un gruppo e, parallelamente, è oggetto di proprietà.
Dato questo stato di cose e considerate le sue ragioni storiche, sembra difficile immaginare che la cittadinanza possa perdere i suoi connotati romantici e «solidi» per trasformarsi in uno status più «leggero», improntato all’idea di territorialità etica e fondato, di conseguenza, sulla presenza materiale in un territorio. È arduo pensare, in altre parole, che la cittadinanza possa diventare una posizione giuridica che si acquista in modo rapido, abitando in un dato spazio, o che si perde in maniera altrettanto elastica, allontanandosene. Uno status simile a quello che dovrebbe essere, almeno in teoria, la residenza anagrafica.
Una fantasia del genere, oltre a essere improbabile da realizzare, è quasi certamente condivisa da poche persone, almeno in questa fase storica. D’altronde, è veramente poco realistica in un paese in cui la stessa presa d’atto amministrativa della presenza materiale in un territorio – ossia, la residenza anagrafica – è spesso negata o condizionata a requisiti «meritocratici». Nel paese delle appartenenze precarie, pensare che il riconoscimento legale possa riflettere il modo in cui le vite delle persone effettivamente si svolgono sembra essere, a oggi, un’utopia.
*Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Bologna, si occupa di trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di polizia.
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