Lo Ius Culturae non è la mia lotta
La seconda generazione che prende voce rivendicando la cittadinanza deve stare attenta a non cadere nella trappola della destra secondo cui gli immigrati devono meritarsela. Altrimenti l'istruzione invece che un diritto diventa un ricatto
Ricordo le ultime frenetiche iniziative per «la battaglia per la civiltà» che a fine 2017 stavamo facendo per cercare (consapevolmente) invano di ottenere qualche risultato sullo Ius Soli, pur consci della strumentalizzazione del tema da parte dei partiti di centrosinistra, che nello stesso momento approvavano leggi securitarie e di fatto razziste come la Minniti-Orlando. Con quella legislatura è finita l’illusione e mi è sembrato subito difficile immaginare in quale modo saremmo potuti tornare a chiedere un vero Ius Soli, in un contesto in cui in parlamento sono mutati i rapporti di forza a favore di Lega e Cinque stelle che non vogliono nemmeno sentirne parlare, e durante il governo gialloverde hanno già peggiorato di gran lunga l’iter per ottenere la cittadinanza allugandolo di quattro anni e rendendo molto più precario il suo valore.
In verità la battaglia per lo Ius Soli non è mai sembrata una priorità per gli stessi movimenti politici dal basso, che non l’hanno mai considerata una lotta «urgente» o abbastanza «radicale». In effetti è ritenuta importante solo da chi vive o ha vissuto sulla propria pelle questa condizione. Nella prefazione del libro a più voci Future, Igiaba Scego lo chiama «tradimento extraparlamentare», e come darle torto… Ho vissuto assemblee di movimento in cui è sempre stato estremamente frustrante parlare di Ius Soli, perché la reazione che generava sembrava considerare le strumentalizzazioni sul tema a opera del Partito democratico un impedimento per provare a costruire un percorso sensato e ragionato, dal basso, per un diritto negato. Ed è stato altrettanto frustrante subire l’implicita accusa di esser «troppo dialoganti» con le istituzioni da parte di militanti che hanno goduto per nascita di diritti a me negati. Basterebbe questo per rispondere alla domanda che circola spesso nelle assemblee di movimento: «Come mai non riusciamo a coinvolgere i migranti?». Io, a mia volta, evidentemente non riesco a coinvolgere i movimenti antagonisti!
Negli ultimi mesi, grazie alle manifestazioni esplose in tutta Italia sulla scia del movimento statunitense Black Lives Matter, sembra che un movimento antirazzista, nato e animato soprattutto da soggetti razzializzati stia (ri)nascendo, seppur con obiettivi non ancora maturi, chiari, e soprattutto condivisi. Non abbiamo alle spalle un forte movimento antirazzista a cui ispirarci come negli Stati uniti. Non condividiamo tutti lo stesso approccio alla politica, veniamo da molte esperienze diverse con pratiche non sempre compatibili. Ma devo esplicitare il mio profondo dissenso con l’obiettivo dello Ius Culturae espresso dal testo di convocazione firmato da varie sigle per la manifestazione del 3 ottobre: lo Ius Culturae non è la mia lotta. Così come ritengo debole l’approccio di questa manifestazione: un movimento non può nascere con la premessa che «qualcosa bisogna pur ottenere», ossia che «vorremmo lo Ius Soli ma in questo momento è un obiettivo irraggiungibile». Non possiamo scendere in piazza per rivendicare già in partenza un compromesso. Un movimento deve fare movimento, provare a modificare lo stato attuale delle cose e creare conflitto. Del resto non condivido nulla di molte prese di posizione del portavoce dell’organizzazione Nibi, prima firmataria della manifestazione, come ad esempio l’idea di portare avanti la battaglia anche insieme alla destra.
Lo Ius Culturae è una proposta di riforma della cittadinanza che – consapevolmente e volontariamente – non include la fascia più oppressa della società, coloro che si trovano a migrare nelle macerie della nostra civiltà, in un’era in cui non c’è differenza di status tra chi ha diritto all’asilo politico e chi migra per motivi economici: sono tutti e tutte clandestine. Nella realtà in cui viviamo infatti l’istruzione non è garantita in circostanze di estrema povertà e precarietà esistenziale.
In questo momento la legge sulla cittadinanza prevede dieci anni di residenza consecutivi in Italia per poter fare richiesta, ma la richiesta può essere fatta solo se maggiorenni. Per fare un esempio: se vieni in Italia all’età di un anno e ne passi qui dieci consecutivi significa che hai undici anni, ma per legge ne devi aspettare altri sette per poter fare la richiesta e altri quattro (se tutto va bene) per concludere la pratica. Sono tempi irragionevoli che aggiungono undici anni in più di attesa che potrebbero essere risparmiati, tralasciando il fatto che gli anni di residenza dovrebbero essere almeno dimezzati, senza prevedere l’obbligo di continuità e senza tassare la richiesta, facendoci pagare il razzismo a nostre spese ogni volta che siamo costretti a fare la fila in questura e prefettura.
Lo Ius Culturae diminuisce di qualche anno l’iter che l’attuale legge ci impone, ossia non si deve più aspettare il diciottesimo anno di età (indipendentemente dal fatto che si sia nati qui o venuti in Italia durante l’infanzia), ma si ottiene la cittadinanza successivamente al completamento di un ciclo di istruzione. Questo ci permette di tamponare qualche anno di rinunce, razzismo istituzionale, alienazione e ci incoraggia a studiare più a fondo le tabelline, oppure l’italiano: «Quest’anno io vuole imparare italiano bene», come apparso nel linguaggio imbarazzante e umiliante di un libro di testo di seconda elementare. Ma la didattica italiana per i figli di immigrati, come si nota proprio da questo recente caso, è già pesante di per sé, già veicolo di discriminazioni, e l’istruzione così invece che un diritto viene trasformata in un ricatto per ottenere la cittadinanza.
Provo a spiegare la differenza tra Ius Soli e Ius Culturae raccontando brevemente l’esperienza, tra le tante, di un mio amico, nato a Roma, la cui madre nigeriana per motivi economici ha preferito all’età di tre anni rimandarlo in Nigeria, per poi farlo tornare in Italia a undici anni. A scuola qui in Italia non è riuscito a finire gli studi, e ora si ritrova con il diniego di cittadinanza italiana (che non avrebbe nemmeno con Ius Culturae) e senza cittadinanza nigeriana. Questa è una storia di un ragazzo nato in Italia e che rischia il Cpr, e non è un caso isolato. Lo Stato italiano pretende una ferrea condotta da parte nostra e se la vita ti porta su binari sbagliati, non lineari e tracciabili, vieni punito.
Ius Soli significa nascere qui ed essere italiane e italiani per diritto, chi non nasce nel territorio italiano ma ci cresce fin dalla tenera età se ne troverebbe comunque escluso. È questa la ragione sostenuta da chi propone la linea dello Ius Culturae: unificare i nati e i cresciuti in Italia in un un’unica riforma. La connessione con l’istruzione sarebbe però ininfluente se si riconoscesse al minore e alla minore il diritto di poter avere un proprio documento, che non sia necessariamente legato allo studio, alla famiglia o al lavoro. Si dovrebbe insomma porre al centro il fatto stesso di essere qui, in questa terra. La differenza non è così visibile a occhio nudo. Io per esempio sono immigrata in Italia all’età di tre anni ma pure se fossi nata qui non avrei ottenuto un trattamento diverso da quello che ho avuto per ottenere la cittadinanza. Ma il punto è che parlando di Ius Culturae invece che di Ius Soli si continua a non affrontare il grave problema di questo paese: la tossica retorica dell’italianità pura
Lo Ius Culturae cade infatti purtroppo nella trappola della retorica di destra e di matrice coloniale secondo cui un riconoscimento si può concedere solo ai figli e alle figlie di immigrati e immigrate stabili e «per bene» che lo meritano veramente. Ho sentito figlie e figli di immigrate e immigrati vantarsi di essere «persone integrate, residenti stabilmente in questo paese e che pagano regolarmente le tasse»: beati voi, ma è quello che Salvini si aspetta di sentire. Ho sentito altre e altri sostenere di sentirsi fiere e fierissimi di essere italiane e italiani, e di riconoscersi nei valori e nella cultura di questo paese: non c’è niente di male, ma si tratta di una scelta, vostra, che non è la mia. La retorica di destra secondo cui la «cittadinanza italiana va meritata» (per i non autoctoni), è un ricatto e va rifiutato. E non si capisce perché il couscous del venerdì dovrebbe portare a prendere un quattro in pagella! La mia permanenza per anni a Trieste mi ha fatto solidarizzare con i triestini che non si riconoscono in una presunta unitaria «cultura italiana». La cultura italiana infatti è fatta di differenze, invece per unire città come Milano e Napoli si prova a dare importanza ai confini geografici e politici della nazione, come se fossero i confini a definire una cultura. Con una battuta potremmo dire invece che l’unità d’Italia in realtà l’hanno fatta i migranti, altro che Garibaldi!
Dopo aver succhiato il sangue alla nostra terra e aver sfidato le leggi del mare per proteggere quei confini negando la libertà di movimento, la «cultura italiana» (e più in generale l’Occidente) mi deve molto più di uno Ius Culturae, o una grazia concessa su giuramento sotto una bandiera a mostrarmi il privilegio di non essere figlia di un rinchiuso in un Cpr, per semplice regalo del destino. La cultura mi è amica e non si rinchiude in un confine geografico perché possiedo due madri che mi hanno dato voce: le due lingue che parlo. Sono per natura, più che per scelta politica, per il superamento dell’identità dello stato-nazione. La politica dovrebbe occuparsi dei diritti senza usare la cultura come ricatto, senza mescolare il diritto all’appartenenza. Senza camuffare la stessa oppressione in un sotterfugio apparentemente più accettabile.
In Spagna, quando i Re Cattolici decisero di cacciare i mori con la caduta del Regno di Granada, accettarono i cristianos nuevos, i convertiti; successivamente i convertiti non erano più accettabili per ripristinare (sic) la limpieza de Sangre. Negli Stati uniti, successivamente all’abolizione della schiavitù entrarono in vigore le leggi Jim Crow, che mantenevano la segregazione: quando si diceva one drop rules si intendeva una sola goccia di sangue. Bastava una sola goccia di sangue non-bianco per essere considerato un negro, e capitava agli stessi italiani emigrati. La regola del sangue puro, della «purezza della razza», può far accettare cose folli, come il fatto che per quelli dal sangue sbagliato si debba superare un grado di istruzione per essere «come noi». Del resto anche io sono cresciuta con il regime dello Ius Sanguinis e la riflessione sul sangue è sempre stata per me un chiodo fisso: mi ha fatta sentire inferiore per tutta una vita. La dignità per me stessa non l’ho trovata negli italianissimi valori, tutt’altro: perdo fiducia verso il prossimo ogni qualvolta vedo disinteresse a riconoscere il proprio privilegio. Io stessa lo riconosco: il mio sangue non si versa nei lager libici finanziati dal governo italiano. È una questione di sangue, e se siamo qui a parlare di diritti a partire da noi stessi è perché ben poco ci accomuna fuorché il sangue bastardo.
Siamo la «seconda generazione» che prende finalmente voce, ma politicamente dobbiamo stare attenti a non cadere nella trappola dei razzisti. L’unico Ius Culturae che proporrei è un ciclo di istruzione obbligatorio sull’antirazzismo a tutti coloro che non accettano la realtà delle cose: l’Italia è un paese in cui convivono più culture, più etnie e infiniti sensi di (non) appartenenza. Io non voglio contrapporre lo Ius Culturae allo Ius Sanguinis perché sarebbe un’ulteriore beffa. Chiedo il diritto alla terra sopra cui cammino perché non ho mai considerato la mia libertà di esistenza superiore a quella di nessun altro e altra.
Anche perché cosa impedisce davvero di rivendicare lo Ius Soli? La volontà politica? La paura della destra della «sostituzione etnica»? O quella di questa società che ha bisogno di gerarchie sociali e non è pronta ad accettare tutte e tutti come pari?
*Wissal Houbabi è nata nel 1994 in Marocco e cresciuta in Italia. Femminista intersezionale, è appassionata di cultura hip hop e cultural studies. Si esprime con la scrittura, la poesia, la calligrafia araba, il disegno e la pittura.
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