La stagione delle scelte
L’8 settembre del 1943, data che sancisce l’inizio della Resistenza armata, è un momento cruciale della storia italiana del Novecento. Che ha ancora molto da dire
Quando la storia ha una svolta, costringe a scegliere da che parte stare. L’8 settembre del 1943, giorno cardine per la storia d’Italia, è ammantato di questo indubbio significato: data vilipesa o esaltata, resta innegabilmente un momento decisivo, finora l’unico con questa forza centrifuga, della storia dell’Italia unita. Fu quello il giorno che mise una generazione in età di leva, in particolare i maschi italiani cresciuti integralmente nel Ventennio ma anche molte donne, di fronte alla possibilità di «imparare a disobbedire», come ci ha insegnato lo storico Claudio Pavone nel suo Una guerra civile.
La impari lotta
In estrema sintesi, alle 19.42 dell’8 settembre del 1943, dopo un mese e mezzo di governo Badoglio – Mussolini era stato destituito il 25 luglio –, il maresciallo d’Italia che aveva proseguito la sua fulgida carriera nel Ventennio annunciò via radio di aver firmato un armistizio con gli Alleati, sbarcati a luglio in Sicilia. Come già era accaduto nel precedente conflitto mondiale, il regno cambiava così drasticamente posizione sullo scacchiere bellico, contribuendo a modificare le sorti della guerra.
Le parole di Badoglio che risuonarono dai microfoni dell’Eiar sono arcinote, ma vale la pena riportarne la trascrizione:
Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale [Dwight D.] Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.
Badoglio, una parte del governo, i vertici delle forze armate e la famiglia reale fuggirono immediatamente dalla capitale e ripararono a Brindisi, mettendosi sotto la protezione degli Alleati, senza dare ordini chiari. Difficilmente si sarebbe potuti essere più ambigui e più irresponsabili, lo si è letto: «Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». E infatti è quasi altrettanto citata, seppur all’interno di un’opera di finzione, la reazione del sottotenente Innocenzi – interpretato da Alberto Sordi – nel film Tutti a casa di Luigi Comencini, che nel 1960 reppresenta il totale spaesamento generato dall’annuncio. Dal momento che i tedeschi sparavano contro gli italiani, Innocenzi nel film dice, sconvolto, al telefono: «Signor colonnello… tenente Innocenzi. Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!».
Girata a poco più di tre lustri dai fatti, questa scena restituisce ciò che visse la maggior parte dei militari, nelle ore concitate e nei giorni che seguirono l’8 settembre, dal momento che assai pochi avevano idea di come comportarsi mentre la guerra dilagava sul suolo della penisola. I «45 giorni» del governo Badoglio si conclusero così con una rovinosa e vergognosa incapacità di istruire le forze armate sul comportamento da tenersi dopo che l’Italia aveva abbandonato il suo compagno di strada tedesco. Nelle settimane precedenti l’armistizio i nazisti, che sospettavano un prossimo «tradimento» italiano e che dopo la destituzione di Mussolini non avevano più dubbi sul fatto che si stesse concretizzando, avevano già disposto numerose truppe sul territorio, pronti a occuparlo, come pianificato da mesi. L’invasione nazista, mentre gli Alleati sbarcavano anche nel golfo di Salerno, fu così questione di poche ore, e i tedeschi misero rapidamente le mani sull’Italia centrosettentrionale, sul cui territorio sarebbe sorta di lì a poco la Repubblica sociale italiana (Rsi).
La guerra in casa
Fu un cataclisma, il punto più basso della storia militare dell’Italia unita. L’8 settembre del 1943 la patria morì, è vero, ma per essere precisi morì l’idea di patria che il fascismo aveva traghettato per oltre vent’anni. Finì la guerra esportata per vent’anni con le truppe di occupazione in Africa del Nord e in Africa orientale, in Spagna, in Albania, in Francia, in Jugoslavia, in Grecia, in Unione Sovietica, e ovunque il piano di dominio fascista fosse arrivato a massacrare le resistenze locali e le popolazioni civili, accusate aprioristicamente – come se fosse una colpa, oltretutto – di affiancare il partigianato locale, nel sogno di creazione di un «nuovo ordine mediterraneo». Alcuni tra coloro che a quella guerra avevano preso parte (inizialmente poche decine, poi a centinaia) avrebbero contribuito alla nascita della Resistenza armata, altri militari – a migliaia – rimasero a combattere insieme ai partigiani del paese in cui si trovavano. Ma l’8 settembre l’esercito italiano contava circa 3 milioni e 700mila uomini, che per lo più si limitarono a stare a guardare; innanzitutto cercarono di salvare la pelle.
Masse di giovani senza meta si spostarono per la penisola cercando di liberarsi di armi e divise per sfuggire alla vendetta tedesca e alla cattura, come avrebbe fotografato in maniera esemplare il romanzo I piccoli maestri (1964) di Luigi Meneghello, il quale visse questa esperienza in prima persona cercando di tornare nel nord-est della penisola dal suo servizio militare a Tarquinia, nei pressi di Viterbo:
Erano da vedere, le strade dell’Italia centrale in quei giorni; c’erano due file praticamente continue di gente, di qua andavano in su, di là in giù, tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio. Abbondavano i vestiti da prete, e non erano pochi i veicoli: calessi con un asinello, o tirati a mano, carriole, carrettini del latte, moltissime biciclette per lo più imperfette, senza copertoni, senza catena, alcune senza manubrio. […] Le due colonne si salutavano allegramente, da una parte in veneto, in piemontese, in bergamasco, dall’altra nei dialetti di segno contrario. Pareva che tutta la gioventù italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva. Guarda, pensavo; l’Europa si sbraccia a fare la guerra, e il nostro popolo organizza una festa così. Indubbiamente è un popolo pieno di risorse.
È una reazione che, anche in questo scorcio letterario a meno di vent’anni dalla «guerra in casa», rievoca una sensazione diffusa e ricordata costantemente ex post: quella dello smarrimento con tratti picareschi che colpì quella generazione. Le conseguenze, lo sappiamo, furono drammatiche.
Immobilità, focolai
Di quei circa 3 milioni e 700mila uomini di cui si è detto, circa un milione fu catturato (la metà in Italia, gli altri nei paesi in precedenza occupati insieme ai nazisti, come la Grecia e la Jugoslavia) e 810mila furono avviati all’internamento nella Grande Germania come Internati militari italiani (Imi). Sebbene una parte di essi si sarebbe organizzata per resistere e un’altra parte avrebbe aderito alla Rsi, la stragrande maggioranza dei circa 2 milioni e 700mila soldati riusciti a scampare ai nazisti tornò a casa nelle zone liberate dagli Alleati o si nascose: gli italiani non ne potevano più di combattere. Leggiamo questo fenomeno attraverso gli occhi di Giaime Pintor, uno di quei giovani, inizialmente assai pochi, che non ebbero esitazioni. Le sue parole spesso ricordate, perché coeve e perché limpide – anche filologicamente parlando: sgorgano da quei giorni di inquietudine e speranza –, mostrano una nitida consapevolezza di quello che aveva sotto gli occhi:
I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti.
Pintor, che partecipò immediatamente alla fallimentare difesa di Roma attaccata dai nazisti già la sera dell’8 settembre, sarebbe morto l’1 dicembre saltando su una mina tedesca, nel tentativo di passare la linea del fronte per raggiungere le prime formazioni partigiane laziali. Il fascismo era stato «una grave malattia», scriveva ancora prima di morire, e «le giornate di settembre» esclusero la possibilità che potesse scomparire in modo pacifico: bisognava riconoscere e isolare «i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità», e trovare il modo di coinvolgere chi voleva ricostruire l’Italia da capo, anche tra i militari. Perché il fascismo aveva inquinato ogni cosa, ma questo momentaneo vuoto di potere, che si concluse a fine settembre con la nascita della Rsi e lo stabilizzarsi del fronte, aveva consegnato finalmente alla nuova generazione la possibilità di agire. Diversi «vecchi» antifascisti, uomini e donne, si stavano organizzando da tempo, ad esempio a Ferrara fin dalla primavera; bisognava trovare uomini e armi, e combattere.
Il «lungo» 8 settembre
Nella confusione istituzionale che seguì l’armistizio ci fu un margine operativo anche per chi non aveva modo o intenzione di imbracciare personalmente le armi. Mentre le carceri si svuotavano dei «vecchi» antifascisti e dei prigionieri alleati, la popolazione civile – e in particolare quella contadina – si distinse per un’enorme operazione di maternage di massa, secondo un’espressione resa celebre dalla storica Anna Bravo. Grazie all’opera di assistenza totalmente disinteressata messa in pratica in gran parte da donne che nutrirono, ospitarono e vestirono i militari italiani sbandati, e lo stesso fecero con gli stranieri in precedenza prigionieri, decine di migliaia di giovani uomini scomparvero in men che non si dica agli occhi dei nazisti e dei fascisti della nascente Rsi.
È in questo vuoto istituzionale ben descritto dalle parole di Sordi, Meneghello e Pintor, in cui le truppe non sapevano se e come opporre resistenza, che alcuni reparti tentarono eroicamente di porre freno all’occupazione all’estero e in Italia, come accadde a Roma e nelle isole greche di Cefalonia e Corfù, dove nei giorni seguenti l’armistizio i soldati italiani combatterono i tedeschi ma vennero massacrati. Anche alla luce di questi episodi – focolai eccezionali, se vogliamo, ma niente affatto trascurabili – ci sarebbe da discutere su quanto quella svolta fu in effetti improvvisa, nella percezione dei contemporanei, e quanto fosse l’esito di un tracollo annunciato e premessa di una resurrezione, per mutuare il linguaggio risorgimentale che avrebbe marchiato a fuoco la mitologia resistenziale.
Mi ha sempre colpito un dato: nella memoria dei suoi protagonisti, l’8 settembre è stato l’equivalente di uno shock inaspettato. L’armistizio del governo Badoglio con gli angloamericani fu però firmato cinque giorni prima dell’8, e cioè il 3 settembre, a Cassibile: è verosimile che pressoché nulla sia trapelato nei giorni successivi? Rimane un fatto che un qualunque ventenne non in divisa, ma in procinto di essere chiamato alle armi – e penso naturalmente alle classi 1923, 1924 e 1925, e poi alle altre a seguire – dovette piuttosto in fretta farsi almeno un’idea di come agire, senza avere troppi elementi per valutare la situazione.
Pavone è stato uno tra gli storici che meglio hanno raccontato la forza creatrice di quel giorno, un giorno che ha rigenerato sé stesso per oltre un anno e mezzo, nell’Italia che via via si liberava dal tallone nazifascista, rivelandosi una sorta di «8 settembre prolungato e strisciante» che costrinse gli italiani a scegliere, prima o poi. «Mentre prima dell’8 settembre la parola d’ordine più generale era quella della pace, dopo diventa quella della lotta armata», ha scritto lo storico. «A chi continua a chiedere ‘pane, pace e libertà’ si obietta: ‘Bene per pane e libertà. Ma perché la pace? Bisogna dire: vogliamo la guerra di liberazione’», ha aggiunto citando una direttiva apparsa in Lombardia alla fine di quest’anno spartiacque. Per sapere le ragioni profonde per cui si combatteva, nelle nascenti bande partigiane avrebbero giocato un ruolo decisivo da un lato i commissari politici e dall’altro la stampa clandestina, che divenne «uno strumento di aggregazione, di uomini e di idee, non solo nell’ambito dei partiti, favorendo l’allargamento e l’arricchimento del significato della politica nell’intero processo resistenziale».
Si inseriscono in questo contesto incandescente i celebri 600mila «no» degli Imi che, in gran parte esasperati dalla realtà concreta dell’interminabile guerra che sbugiardava la propaganda fascista, si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Senza mai dimenticare i circa 200mila che invece restarono «fedeli all’alleanza» (oltre 40mila dei quali nelle SS o nell’esercito repubblichino), possiamo definire questo rifiuto massiccio un impulso pre-politico; si trattò di «scelte e riflessioni non molto diverse da quelle di coloro che, in Italia, si ponevano in una posizione che sarebbe stata poi detta ‘antifascismo di guerra’», come ha osservato nel suo recente Prigionieri, internati, resistenti lo storico Nicola Labanca, il quale non esita a definire questa posizione un’«altra Resistenza».
La scelta di non adesione alle forze nazifasciste e la non collaborazione non può essere tuttavia annoverata come antifascismo «militante»; come ha sottolineato Santo Peli:
I protagonisti, reduci delle campagne d’Africa, dei Balcani, di Russia, ufficiali di carriera e semplici soldati, alcuni volontari convinti e molti rassegnati alla dura necessità, spesso lontani da anni da casa e dalla vita civile, avevano avuto ben poche occasioni di entrare in contatto con i fermenti del tutto embrionali della cultura politica antifascista circolante in patria, anche se in molti le esperienze e i traumi di guerra avevano forse maturato perplessità e perdita di fiducia nel regime e nell’esercito.
Si trattò di un profondo scossone, che investì la società italiana a vari livelli, e che (come si diceva) riguardò innanzitutto la generazione cresciuta interamente sotto il fascismo:
il rimprovero mosso agli anziani – è ancora Pavone che parla –, e in particolare ai genitori, di essere stati fascisti è talmente doloroso e profondo che la stessa connotazione fascista risulta talvolta stemperata. Penetrante è l’accusa di non aver detto la verità, di aver nascosto il passato prefascista anche quando era parte della loro biografia, di aver esortato al quieto vivere, di avere insomma tradito la loro missione di educatori.
La Resistenza dalla spontaneità all’organizzazione
La lotta partigiana, lo sappiamo, avrebbe coinvolto una vasta minoranza armata (frantumando barriere politiche, generazionali, di genere, di ceto, di nazionalità), sostenuta in maniera più o meno altalenante da una parte considerevole della popolazione civile, senza il cui appoggio – come ha raccontato limpidamente Chiara Colombini – non sarebbe stato possibile combattere per i venti mesi tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945. A dimostrarlo è la progressiva estraneità e alterità del fascismo repubblicano in luoghi come Torino, capoluogo di quella che Mussolini definì la «Vandea partigiana». «Noi sappiamo che voi siete migliori di loro», dice l’oste di Mango (nelle Langhe) nelle pagine di Beppe Fenoglio per giustificare l’apparente freddezza – dovuta alla paura – con cui accoglie il partigiano Johnny.
A guidare questa cospicua minoranza composta dai giovani migliori e da migliaia di donne loro coetanee, le uniche che fossero massicciamente volontarie a tutti gli effetti (come hanno notato Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone), ci fu fin da subito il Comitato di liberazione nazionale (Cln), sorto già tra il 9 e il 10 settembre, nel quale i partiti antifascisti si assunsero il compito di coordinare la lotta. All’embrione organizzativo che il Cln rappresentò si affiancarono immediatamente i primi atti di resistenza armata da parte della popolazione: lo mostrano efficacemente, nella loro spontaneità tipica di queste prime settimane, le cosiddette «quattro giornate» di Napoli dove, tra il 27 e il 30 settembre, i cittadini – animati dai giovanissimi «scugnizzi», dalle donne e dagli anarchici, protagonisti spesso dimenticati della Resistenza – riuscirono a cacciare i tedeschi prima ancora dell’arrivo degli anglo-americani.
A condurre la dura battaglia all’orizzonte c’erano i «vecchi» antifascisti cresciuti o invecchiati tra la clandestinità, l’esilio, la prigionia e il confino e non di rado ex combattenti della Guerra civile spagnola. E c’erano quei militari ravveduti che si rivelarono l’ossatura necessaria dell’organizzazione (alcuni in Spagna avevano combattuto dall’altra parte), del passaggio dalla spontaneità delle prime settimane a quella «Resistenza perfetta» che si sarebbe configurata nei mesi successivi, culminata ai «piani alti» nella formazione del Corpo volontari della libertà, braccio armato della Resistenza, divenuta formalmente un vero e proprio esercito che avrebbe portato alla liberazione di 125 città nell’ultimo mese di guerra. Una realtà politicamente fragile e divisa sarebbe arrivata all’appuntamento con la storia forte e unita; in quanti ci avrebbero scommesso?
Quei giovani datisi d’istinto alla macchia – la stragrande maggioranza dei resistenti furono renitenti, ricordiamolo – furono istruiti, militarmente e politicamente, ma anche su un piano più generale: ideale, morale, civile. È questo il valore insostituibile dell’8 settembre, a mio modo di vedere cartina di tornasole della storia italiana del Novecento, possibilità di redenzione di una generazione che nel migliore dei casi era stata alla larga dalla politica per tutta la propria esistenza. Una tensione inizialmente confusa (quella dei giovani), un patriottismo che si dovette faticosamente ripensare, facendo i conti con il retaggio nazionalista del fascismo (penso a molti militari), e un settarismo che aveva non di rado – dunque troppo spesso – inquinato i rapporti tra i partiti clandestini negli anni precedenti seppero convergere in un’unica lotta, e in questo fu d’aiuto la «violenza incolpevole» teorizzata all’interno di quella parte di mondo cattolico che in maniera trasversale, ma soprattutto tra gli «autonomi», si mise al servizio della lotta per la libertà.
Furono molte guerre in una, lo sappiamo sempre grazie a Pavone: di liberazione, civile, sociale; e si rilevò fin da subito una «quarta guerra»: una Resistenza internazionale nella quale avrebbe avuto una notevole rilevanza il ruolo dei disertori delle forze armate tedesche. Ma iniziò tutto un giorno ben preciso, che fu come il suono di una campana, per parafrasare i celebri versi di John Donne. E quelli che vollero sentirla seppero che quella campana stava chiamando loro.
*Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti di Editori Laterza, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020). Tra le sue più recenti pubblicazioni, 25 aprile 1945 (Laterza 2018), La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet 2020) e Il buon tedesco (Laterza 2021, Premio FiuggiStoria 2021). È inoltre autore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore di secondo grado (Trame del tempo, di C. Ciccopiedi, V. Colombi, C. Greppi, M. Meotto [Laterza 2022]), del quale firma il terzo volume: Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.
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