
Groenlandia, un pezzo (coloniale) dell’Europa
Con le sue preteste annessionistiche, Trump rinnova la violenza del colonialismo. Dalla quale però l'Europa non è estranea, come dimostra proprio la storia delle terre oggi «semi-autonome» dalla Danimarca
«Ci prenderemo la Groenlandia, in un modo o nell’altro». Dopo la sorprendente aggressione annessionista lanciata nei giorni del suo insediamento alla Casa bianca, che includeva anche un’imminente appropriazione sovrana del Canale di Panama e del Canada, così come una fantasia razziale genocidiaria sulla futura «rivierizzazione» di Gaza, Trump ha rilanciato le sue mire coloniali nel bel mezzo di una visita di J.D. Vance nell’isola più grande del mondo: «Ci serve, è una questione di sicurezza nazionale».
Occorre subito ricordare che questa pulsione annessionista degli Stati uniti nei confronti della Groenlandia non è affatto inedita: già nel 1867 come nel 1946 vi furono offerte americane per il suo acquisto. Il ritorno degli Stati uniti a ciò che Frantz Fanon considerava l’essenza del dominio coloniale – «Il colonialismo non è una macchina pensante, non è un corpo dotato di ragione. È violenza allo stato di natura» – sta ridestando la tradizionale «innocenza bianca» della buona coscienza progressista europea.
La storia rimossa del colonialismo europeo
Questa variante di quella forma più generale di «nevrosi chiamata Europa» – per stare invece al Jean-Paul Sartre della prefazione a Fanon – si è manifestata senza veli nelle lezioni di suprematismo occidentale orgogliosamente impartite sul palco di Piazza del Popolo lo scorso 15 marzo. E tuttavia questa legittimazione esplicita della violenza coloniale da parte di Trump non dovrebbe sorprendere più di tanto in Europa. Va ricordato infatti che diversi paesi europei hanno ancora possedimenti coloniali formali, e che in alcuni casi fanno ancora parte dell’Ue.
Nel 2023, in un forum internazionale sul tema della decolonizzazione svoltosi a Bali, l’Onu denunciava l’esistenza di diciassette «colonie» sparse per il globo, di cui una parte importante ancora sotto il controllo diretto di un paese europeo. Si pensi alle isole Cayman, Bermuda, Anguilla e Montserrat, alle U.S Virgin Island e alle British Virgin Island nei Caraibi; al Sahara Occidentale e all’isola di Saint Helena in Africa; alle Malvinas in Argentina, a Guam, Nuova Caledonia e Tokelau in Oceania, per non parlare poi dei territori occupati palestinesi. A queste diciassette colonie, occorre aggiungere poi le decine di «semi-colonie» e «territori d’oltremare», che pur godendo di una qualche forma di autonomia restano per lo più sotto il controllo di una ex-metropoli europea, come Aruba, Antille olandesi, Guadeloupe, Martinique, Mayotte, Reunion, Madeira e le Canarie.
È questo anche il caso della Groenlandia, considerata dall’Ue territorio danese d’Oltremare. La Groenlandia è stata da sempre una colonia speciale per la Danimarca, qualcosa di molto simile a ciò che l’Algeria ha rappresentato per la Francia. La sua importanza per i danesi non era legata soltanto a interessi economici, ma era al centro di un particolare regime di (auto)rappresentazione simbolico e culturale nazionale. Attorno alla colonizzazione dell’isola la Danimarca ha in buona parte costruito la sua identità di nazione bianca e civilizzatrice: narrarsi come veicolo di protezione, salvezza, civilizzazione ed evangelizzazione di un territorio considerato sterminato, inospitale e semideserto e di una popolazione tanto «esotica» quanto «primitiva» equivaleva a rivendicare un proprio ruolo nel movimento europeo e progressivo della storia. Questa prima chiave coloniale di lettura viene già dal nome. Groenlandia, (da Grønland) «terra verde» in danese, sarebbe il nome scelto, secondo le saghe islandesi, dal vichingo Erik il Rosso che apparentemente si esiliò sull’isola durante il X secolo (fatto mai storicamente provato, nonostante gli insediamenti vichinghi), ossia diverse migliaia di anni dopo l’arrivo degli Inuit. Gli Inuit, il cui nome in lingua Inuktitut significa «uomini», già abitanti dell’isola hanno da sempre chiamato il proprio territorio con un altro nome: «Kalaalit Nunnat», letteralmente «terra dei Kalaalit o Inuit», ovvero «terra di uomini». Peccato però che nessuno ricordasse il fardello dell’uomo danese a Piazza del Popolo.
Questa persistente colonialità costitutiva dell’Ue fa parte di una storia volutamente «rimossa» dal senso comune europeo; si tratta di un «atto fondativo» assente da tutte le narrazioni egemoniche e celebrative della nascita dell’Unione. Può essere importante notare che queste «colonie» e «semi-colonie» di oggi sono state rifunzionalizzate a paradisi fiscali e finanziari, a basi laboratori militari, a riserve di materie prime strategiche e terre rare, ma anche a mura-barriere-campi di contenzione-detenzione di migranti, si pensi alle enclave africane di Ceuta e Melilla. Come mostra il documentario The Spider’s Web: Britain’s Second Empire (2017) , l’eredità coloniale, o meglio l’intreccio storico tra capitalismo e colonialismo, si presenta in modo piuttosto visibile anche tra gli snodi principali dell’attuale capitale finanziario. Ma la sua sanguinosa centralità storica si dipana in modo spettrale anche lungo l’infrastruttura globale materiale del «capitalismo delle piattaforme» e della cosiddetta «transizione ecologica o energetica». Spossessamento coloniale-razziale, estrattivismo, sfruttamento del lavoro e predazione finanziaria si sono saldati in un’unica logica storica e criminale di dominio e accumulazione. Ecco «il capolavoro della storia moderna europea», per riprendere il Marx dell’accumulazione originaria nel Capitale.
Il colonialismo danese
Tornare sulla vicenda coloniale della Groenlandia appare importante in un continente che fatica ancora a riconoscere nel suo sangue il Dna coloniale delle sue origini. Situata a 20 chilometri dal Canada, 50 volte più grande della Danimarca, e con un territorio costiero libero di ghiaccio o comunque abitabile grande quanto la Germania, la Groenlandia, di soli 57mila abitanti, è dal 2009 un territorio semi-autonomo danese. Pur avendo ottenuto questo statuto di autonomia, la Danimarca resta sovrana sull’isola riguardo politica estera, finanza, sicurezza e accordi internazionali. Popolata in maggioranza (85%) da discendenti di diversi gruppi Inuit, giunti nell’isola dallo Stretto di Bering e dall’America del Nord con diverse ondate migratorie iniziate 4.500 anni fa, i danesi rappresentano soltanto il 15% dei suoi abitanti, anche se resta difficile parlare in termini di percentuali «etniche» assolute, data l’ovvia mescolanza storica, mentre 15mila groenlandesi vivono oggi in Danimarca.
Dopo diverse spedizioni precedenti fallite, la colonizzazione danese comincia nel 1721, e non ottocento anni fa, come affermato al parlamento europeo dal sovranista dei «Patrioti per l’Europa» Anders Vistisen, che forse includeva in modo del tutto soggettivo i primi insediamenti dei vichinghi iniziati nel X secolo, provenienti quindi dall’Islanda e non dalla Danimarca, e poi estintisi intorno al 1450. Il governo coloniale della Danimarca comincia dunque con una spedizione del tutto classica, organizzata da una compagnia mercantile norvegese e da un sacerdote luterano, Hans Edge, che vi stabilisce un avamposto missionario e commerciale. Lo scopo di Edge era riprendere i contatti con i vichinghi, di cui si erano perse le tracce nel continente e si sosteneva fossero ridiventati pagani, così da rievangelizzarli. Non trovando i pretesi vichinghi si dedicò a cristianizzare gli Inuit, dando origine a una missione che è durata diversi secoli.
È così che inizia un vero e proprio dominio coloniale, incentrato sullo sfruttamento della pesca, foche e balene, sulla caccia ai trichechi per ottenere l’avorio delle loro zanne, sull’estrazione mineraria e sull’insediamento delle prime colonie di danesi. La storia del colonialismo danese è assai significativa, benché poco nota all’estero. E anche nella stessa storia nazionale la sua centralità è stata riconosciuta solo di recente, non senza resistenze, e in buona parte grazie alle lotte antirazziste dei migranti razzializzati di seconda generazione e alla penetrazione degli studi postcoloniali nel paese. Un importante spartiacque nella decolonizzazione del senso comune coloniale-nazionale, e non solo in Danimarca, è stata la mostra internazionale Rethinking Nordic Colonialism: A Postcolonial Exhibition Project in Five Acts del 2006 . A rafforzare questa amnesia nazionale sul passato coloniale è stata, come del resto in altri paesi europei, la narrazione di un eccezionalismo scandinavo riguardo il proprio coinvolgimento nella storia coloniale.
Anche qui abbiamo un altro «colonialismo dal volto umano» e dalla storia assai modesta paragonata ad altre. E tuttavia benché ridotta nelle sue dimensioni temporali e spaziali, l’espansione coloniale danese-norvegese, (tra il 1536 e il 1814 furono un unico stato), ebbe un ruolo di primo piano nella formazione culturale e soprattutto economica del paese, rendendo Copenhagen una città ricca e governata da una prospera borghesia mercantile. La prima spedizione coloniale danese avviene nel 1612 nell’India meridionale, con lo stabilimento di un avamposto commerciale nell’attuale Sri Lanka, noto ancora oggi come Trankebar. Questo primo insediamento nell’India fu chiave soprattutto per il commercio del thè con la Cina. Per la gestione-estrazione economica di questi primi territori coloniali, il regno danese creò l’Asiatic Danish Company. Il regno di Danimarca-Norvegia ebbe inoltre un ruolo importante nella tratta transatlantica di schiavi attraverso i suoi insediamenti coloniali nelle coste del Ghana e soprattutto nelle isole caraibiche di St. Thomas e St. John, note anche come Virgin Islands. Tra il 1660 e il 1803 il regno scandinavo ha trafficato dall’Africa nei Caraibi 110mila schiavi.
Nel 2018, in memoria di questo passato coloniale e in occasione del centenario della vendita di queste isole agli Stati uniti, le artiste La Vaughn Belle, delle Virgin Islands, e Jeannette Ehlers, danese, hanno creato il primo monumento pubblico nazionale dedicato a una donna nera. La loro scultura, «I Am Queen Mary», piazzata davanti a un ex magazzino coloniale di Copenhagen, rappresenta Mary Thomas, leader della rivolta sindacale «Fireburn» del 1878 a St. Croix, ex colonia danese ().
Forse bisogna riannodare i fili di questo passato coloniale e schiavistico «rimosso» per comprendere meglio l’ostentata durezza delle politiche anti-asilo e anti-immigrazione approvate in modo bipartisan dal parlamento danese negli ultimi quattro anni, tra le più restrittive d’Europa, che comprendono, tra l’altro, un primo memorandum per l’espatrio dei richiedenti asilo in Ruanda, firmato nel 2021, e il più recente accordo con il Kosovo per inviare fino a 300 detenuti di cittadinanza straniera, inclusi migranti soggetti a un ordine di rimpatrio, da delocalizzare nella prigione kosovara di Gjilan, seguendo dunque il modello promosso non solo dall’ultradestra neofascista italiana, ma anche dalla commissione Von der Layen.
Tra il XVIII e il XIX secolo sono state annesse al Regno di Danimarca come dipendenze coloniali anche le isole Far Oer e l’Islanda. Ma il XIX segna anche il declino dell’espansione coloniale danese, non più in grado di concorrere con il Regno unito e la Francia. È questo il periodo in cui le isole vergini caraibiche danesi vengono vendute agli Stati uniti e al Regno unito.
Può essere importante notare che le politiche coloniali danesi in Groenlandia non sono state sempre le stesse: vi sono stati due momenti ben diversi del governo coloniale dell’isola. Dal XVIII fino alla metà del XX secolo, vi è stato una sorta di governo attraverso la «differenza», nel senso che il regime di rappresentazione coloniale danese, in ogni sfera discorsiva, tendeva a enfatizzare il «primitivismo» degli Inuit. Questo periodo è stato caratterizzato da una connivenza strutturale tra sapere, pratiche scientifiche ed etnografiche e politiche coloniali. Come è stato notato da diversi studiosi, il risultato fu una sorta di re-indigenizzazione o ri-tradizionalizzazione degli Inuit, ossia un esercizio del discorso e del potere coloniale finalizzato a mantenere una distanza gerarchica tra società civile e moderna danese e società primitiva locale. È questa la fase di maggiore proliferazione di ciò che la studiosa Ann Fienup-Riordan ha denominato, a partire da Edward Said, «Eschimo-Orientalism» (Orientalismo eschimese): un regime di rappresentazione etnografico, culturale e politico caratterizzato dall’essenzializzazione e dall’esotizzazione degli Inuit.
Questa strategia di governo coloniale comincia a entrare in crisi con lo sbarco dell’esercito statunitense negli anni della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 gli Stati uniti costruiscono Pituffik Base Space, centro di una rete comprendente altre sedici basi e che arriverà a ospitare quindicimila soldati. La base ebbe un ruolo logistico fondamentale anche durante gli anni della Guerra fredda, e anche oggi, benché vi siano rimasti solo duecento soldati, resta un importante snodo geostrategico di controllo e sorveglianza spaziale, ma soprattutto come scudo missilistico. Come altrove, l’insediamento dei militari statunitensi portò nell’isola le Jeep, il Jazz, la Coca Cola e altri elementi e simboli della cultura moderna urbana che furono allora apprezzati da buona parte dei groenlandesi. Da qui il consenso interno di cui godono in parte ancora gli Stati uniti.
Il 1953 sancisce la fine dello stato coloniale classico, e così la Danimarca procedette all’annessione della Groenlandia mediante un referendum, a cui però non parteciparono i groenlandesi. Questa nuova fase si propone di «danizzare» la Groenlandia attraverso un piano sistematico di modernizzazione dell’isola sul modello sociale ed economico di quello della madrepatria. Il progetto può essere considerato come una variante delle politiche coloniali di «assimilazione forzata» o del «colonialismo d’insediamento» che ha caratterizzato altri paesi, come gli Usa, ma soprattutto il Canada e l’Australia, poiché mirato alla cancellazione della cultura locale, ovvero alla sostituzione (razziale) di una forma di vita sociale e culturale con un’altra.
Veicolo di «modernizzazione» sono stati non solo gli investimenti privati e statali esteri, l’istruzione scolastica sistematica, la creazione di un sistema sanitario territoriale, la costruzione di nuovi e inediti agglomerati urbani, che hanno imposto agli Inuit di lasciare le loro abitazioni tradizionali, ma soprattutto l’immigrazione di lavoratori danesi. Come altrove, anche qui la politica coloniale di governo si è dispiegata attraverso il ricorso all’immigrazione come dispositivo di bianchizzazione, assimilazione e sostituzione razziale. Il governo ha incentivato l’arrivo di lavoratori danesi offrendo loro stipendi più alti di quelli dei nativi, ma anche cariche e mansioni di maggior rilievo.
La politica coloniale si trasforma così in discriminazione e segregazione razziale esplicita e legale, in razzismo strutturale e istituzionale, provocando negli anni Sessanta movimenti di protesta anticoloniali e antimperialisti a Copenhagen. Oltre alla segregazione lavorativa e abitativa, all’assimilazione forzata e al trasferimento di una parte importante della popolazione Inuit nei nuovi alloggi urbani, la politica di «danizzazione» della Groenlandia è stata accompagnata da altre pratiche tipiche della violenza sovrana delle politiche del colonialismo d’insediamento, come la sterilizzazione istituzionale e involontaria di donne native e l’internamento forzato di bambini Inuit in istituti educativi. Nel 1951 vennero prelevati 22 bambini eschimesi e trasferiti prima in Danimarca e poi in diversi istituti a Nuuk e altre città. Al progetto hanno partecipato anche la Croce Rossa e Save The Children, si veda in proposito il film Esksperimentet (L. Fridberg, 2010).
Dopo l’opposizione politica e la resistenza culturale delle popolazioni locali, anche attraverso la crescente proliferazione di studi e ricerche prodotte da studiosi groenlandesi, il processo si concluse nel 1979 con l’abbandono del piano di «modernizzazione» e la concessione di uno stato di semi-autonomia maggiore all’isola: il cosiddetto «Home Rule Act». Grazie all’Home Rule Act, che assegna una maggiore autonomia politica, i groenlandesi, contrariamente alla Danimarca, decidono di lasciare l’Ue nel 1985, in disaccordo con le regole europee sulla pesca, maggiore risorsa dell’Isola. Questo nuovo statuto durerà fino alla concessione del «Self-Government Act» del 2009, che però non equivale a un’indipendenza formale totale. Tra il 2014 e il 2017, il governo groenlandese ha costituito una Commissione per la riconciliazione, ma al momento non sono stati fatti passi avanti significativi, soprattutto perché i governi danesi si sono rifiutati sia di parteciparvi che di enunciare alcuna dichiarazione ufficiale di perdono . Inoltre, il governo groenlandese che ha istituito la commissione è stato accusato da una parte degli abitanti dell’isola di favorire soprattutto le minoranze linguistiche filo-danesi, nonché di promuovere una visione neoliberale ed estrattivista per il futuro del loro territorio. Come abbiamo sentito dire a diversi giornalisti progressisti o liberal nei media italiani, indignati dall’arroganza imperiale di Trump, non si può negare che la Groenlandia sia un «pezzo d’Europa». Impossibile non mettere Fanon qui in filigrana, proprio nel centenario della sua nascita : “Due secoli fa, un’ex colonia europea si è messa in testa di colmare il ritardo con l’Europa. Vi è così ben riuscita che gli Stati Uniti d’America sono diventati un mostro le cui le tare, le malattie e l’inumanità dell’Europa hanno raggiunto dimensioni spaventose”.
Le mire coloniali di Trump
Il resto è storia dei nostri giorni. Come prima cosa, la voracità estrattivista di Trump, indotta non solo dalla stessa genealogia storica degli Stati uniti, una democrazia nata dalla violenza razziale del colonialismo d’insediamento, ma anche dai bisogni di alcune materie prime e risorse energetiche essenziali per lo sviluppo dell’hi-tech, dell’intelligenza artificiale e più in generale per l’infrastruttura materiale del capitalismo delle piattaforme, di cui la Groenlandia è ricchissima, specie con lo scioglimento dei ghiacci, che rende molto più accessibile gli enormi giacimenti di petrolio, gas, uranio, ferro, oro, zinco e altre terre rare.
Poi il divenire dell’Artico, anche questo a causa del surriscaldamento globale, un altro degli epicentri dello scontro per la supremazia globale con la Russia e soprattutto con la Cina, che da tempo investono tanto in senso militare quanto economico, logistico e commerciale in questa parte dell’emisfero polare Nord. Un dato su tutti: la Cina è il secondo partner economico della Groenlandia dopo la «madrepatria coloniale», ovvero la Danimarca. Infine, resta sullo sfondo un’altra motivazione piuttosto evidente dietro la violenza esplicitamente neocoloniale e neoimperialista di Trump: il declino progressivo della centralità egemonica degli Stati uniti nel comando capitalistico globale, e quindi la necessità di colmare il ritardo statunitense in questi settori chiave. Nella logica politica e culturale dell’ultradestra globale rappresentata da Trump, l’unica soluzione possibile a questa crisi di transizione egemonica nel modo di accumulazione capitalistico globale è spingere l’acceleratore dell’attuale regime di guerra su ogni dimensione. È ciò che nasconde, come sempre, il ricorso a una volontà di dominio esplicitamente autoritaria e fascista. Solo una coalizione decisa e radicale tra diversi istanze e movimenti contro la guerra potrà mettere un freno a questa nuova sinistra accelerazione dello Juggernaut capitalistico.
*Miguel Mellino insegna studi postcoloniali all’Università di Napoli L’Orientale. Tra i suoi libri, Post-Orientalismo. Said e gli studi postcoloniali (Meltemi, 2009), Governare la crisi dei rifugiati (Derive Approdi, 2019) e Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale (Alegre, 2020). Ha curato l’edizione italiana di Black Marxism di Cedric Robinson (Alegre, 2023).
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