L’accordo Italia-Albania riguarda (anche) la democrazia
Quando si parla di migranti e respingimenti, il parlamento, la magistratura e persino l’opinione pubblica vengono spesso percepiti come fastidiosi ostacoli da aggirare
Numerosi motivi spingono a guardare con forte preoccupazione e ferma contrarietà all’accordo tra Italia e Albania per la costruzione di due centri di detenzione per persone migranti nel paese balcanico. Prima fra tutti, ovviamente, la violazione palese del diritto internazionale, del diritto d’asilo e dei diritti umani delle persone migranti, temi su cui in tante e tanti sono intervenuti nel corso delle ultime settimane.
Tra gli altri motivi, uno appare particolarmente degno di nota, nella misura in cui rivela una tendenza crescente dei governi italiani ed europei (ma anche extraeuropei): l’antipatia, quando non la palese ostilità, verso ogni forma di controllo democratico sulle proprie decisioni e sul modo in cui vengono attuate. In quest’ottica, il parlamento, la magistratura e persino l’opinione pubblica vengono spesso percepiti come fastidiosi ostacoli da aggirare.
Per più di una settimana dalla firma, il governo ha tenuto nascosto il testo dell’accordo, non condividendolo nemmeno con le camere. In prima battuta, si è venuti a conoscenza del testo ufficiale solo grazie alla sua pubblicazione da parte delle autorità albanesi. Fin da subito il governo italiano, e la presidente del consiglio in particolare, hanno trattato la questione come una loro competenza esclusiva, nella quale ogni interferenza, inclusa quella del parlamento, era indesiderata. Da qui l’iniziale decisione di non portare l’accordo in aula per l’autorizzazione alla ratifica, negando che si trattasse di un trattato internazionale, riconducibile alle fattispecie per cui l’articolo 80 della Costituzione prevede l’autorizzazione parlamentare alla ratifica, e ridimensionandolo come un mero memorandum accessorio a un trattato preesistente. Posizione rispetto alla quale sembra ci sia stata una marcia indietro, dopo le forti proteste delle opposizioni e alla luce dell’informativa del ministro Antonio Tajani alla Camera.
Un’ulteriore mortificazione del ruolo del parlamento riguarda il potere di ispezione dei e delle parlamentari. Il testo dell’accordo sembra infatti non tenerne minimamente conto. Non si capisce come potranno esercitare tale potere in territorio albanese, né quali garanzie formali e sostanziali ci saranno al riguardo. In ultima analisi, la domanda che resta inevasa è se i e le parlamentari conserveranno questa prerogativa. Questione non da poco, dato che molti degli orrori venuti fuori rispetto ai centri di detenzione in Italia li abbiamo scoperti proprio grazie alle ispezioni che sono state effettuate. Il timore che il venir meno di una garanzia democratica produca ulteriori violazioni sostanziali dei diritti delle persone migranti è più che fondato.
Le cose non vanno meglio quando si guarda al ruolo della magistratura. L’effettivo esercizio della giurisdizione e la possibilità di accesso alla giustizia costituiscono un ulteriore elemento fondante dello stato di diritto. Eppure, nonostante l’accordo ovviamente preveda la possibilità di accesso di avvocati e avvocate all’interno dei centri situati in territorio albanese, diversi giuristi e giuriste hanno avanzato enormi perplessità rispetto al modo in cui il diritto di difesa potrà essere rispettato nella pratica.
Il venir meno di numerosi passaggi e garanzie formali porta inevitabilmente con sé pericoli di tipo sostanziale, rispetto alla tutela delle libertà e dei diritti, in primo luogo delle persone migranti. Una forte riduzione dei limiti posti all’azione del potere esecutivo e dei relativi meccanismi di controllo non ha, storicamente, mai portato a nulla di buono.
D’altronde, questo tipo di approccio appare perfettamente in linea con le pulsioni espresse dal governo guidato da Meloni in numerose occasioni. Sul fronte della magistratura, si pensi alla vicenda della giudice di Catania Iolanda Apostolico, attaccata dopo non aver convalidato alcuni trattenimenti di migranti nel Cpr di Pozzallo, o, spostandoci fuori dal campo delle politiche migratorie, allo scontro tra governo e toghe che ha fatto seguito all’imputazione coatta del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al caso Cospito. Sul fronte del parlamento, il ricorso record alla fiducia e alla decretazione d’urgenza (che pure venivano già abusate dai governi precedenti) appare altrettanto indicativo. Questo approccio è stato infine condensato e consacrato in una proposta di riforma costituzionale che consegna al governo, e, segnatamente, a chi lo presiede, un potere incondizionato mai visto in una democrazia compiuta.
Al tempo stesso, va sottolineato come l’insofferenza verso parlamento, magistratura e opinione pubblica non sia prerogativa di questo governo, né del nostro paese. Restando nel solco della politica di gestione delle migrazioni, la vicenda dell’accordo con l’Albania ricorda, per molti versi, quella del Memorandum con la Libia del 2017, quando il governo Gentiloni si rifiutò di passare dalle camere, adducendo le stesse giustificazioni del governo Meloni.
A livello europeo, le cose non sono molto diverse: nel 2015, ad esempio, il Consiglio dell’Unione europea approvò l’Operazione Sophia come missione navale di politica di sicurezza e difesa comune in modo da tagliare fuori Parlamento europeo e Corte di giustizia. L’anno dopo, l’Unione decise di esternalizzare le proprie frontiere in Turchia attraverso quella che venne definita una «dichiarazione», strumento non previsto dai trattati e dalla natura giuridica incerta, che consentì ai governi degli allora ventotto stati membri di agire senza vincolo o controllo alcuno. Non a caso, adita da tre richiedenti asilo in merito alla legittimità della «dichiarazione», la Corte di giustizia si dichiarò non competente a pronunciarsi proprio perché si trattava di uno strumento non previsto dai trattati (fuori dal diritto Ue ma che non viola il diritto Ue, per dirla con la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson).
Guardando a fatti più recenti, il tentativo di deportazione di massa verso il Ruanda organizzato dal Regno unito e lo scontro politico-giudiziario che ne è seguito sono un ulteriore esempio dell’antipatia crescente mostrata dagli esecutivi verso ogni forma di controllo sul loro operato. Un fenomeno che travalica le politiche migratorie ma che trova in esse un terreno chiave di realizzazione, data la loro natura altamente politicizzata e conflittuale nelle nostre società.
La storia insegna che è proprio utilizzando strumenti opachi, fuori dal controllo democratico di opinione pubblica e parlamento, fuori dal raggio di azione degli organi giurisdizionali, che si sono consumate le peggiori violazioni a danno non solo delle persone migranti, ma dei soggetti più vulnerabili e marginalizzati più in generale. Ecco perché la lotta per il rispetto e il ripristino, ove fossero venuti meno, dei meccanismi di controllo democratico, è in ultima analisi una lotta per la giustizia sociale. Occorre tenerlo a mente, anche in vista del referendum costituzionale che, probabilmente, ci attenderà.
*Federico Alagna si occupa di ricerca sulle politiche migratorie europee ed è attivo in vari contesti di impegno politico e sociale, in particolare sul fronte del diritto alla città e delle migrazioni, in Italia e all’estero. Fa parte del movimento Cambiamo Messina dal Basso e di Mediterranea – Saving Humans ed è stato assessore alla cultura di Messina tra il 2017 e il 2018.
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