
Il premierato hard
La destra entra a gamba tesa nell’architettura costituzionale come mai nessuno aveva fatto. Nel contrastarla, non bisogna rifuggire la sfida di costruire un rapporto funzionante tra rappresentanti e rappresentati
La destra ci riprova, a riscrivere la Costituzione, e stavolta punta in alto. In nessuna democrazia costituzionale al mondo una sola persona, il capo del governo, concentra su di sé un controllo del potere esecutivo e di quello legislativo, senza rendere conto sostanzialmente a nessuno se non agli elettori del proprio operato, quale quello delineato nella proposta di riforma costituzionale varata dal consiglio dei ministri, a firma della presidente del consiglio Giorgia Meloni e della ministra della riforme costituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Solo in un’Italia assuefatta da trent’anni di retorica antiparlamentare e antipartitica una proposta del genere può essere definita, come ha fatto nei giorni scorsi un’agenzia di stampa, «premierato soft». Il governo Meloni entra a gamba tesa nell’architettura costituzionale come mai nessuno aveva fatto (neanche le riforme bocciate dai referendum, quella di Berlusconi del 2005 e quella di Renzi del 2015, arrivavano a tanto), proponendo la creazione di un superpremier eletto direttamente dai cittadini in forma plebiscitaria, con un parlamento automaticamente allineato grazie a un premio di maggioranza inserito direttamente in Costituzione, e la capacità, di fatto, di mandare a casa quel parlamento nel caso, remoto, in cui dissentisse su qualcosa. Altro che «premierato soft»: si trasformerebbe l’Italia in uno strano ibrido tra parlamentarismo e presidenzialismo, senza le garanzie e gli equilibri di nessuno dei due sistemi.
Difficile capire se si tratti di una strategia del governo che «spara alto» per poi negoziare in parlamento un compromesso che somigli a qualcosa di già visto nel mondo civile, oppure se Giorgia Meloni e i suoi alleati intendano veramente andare fino in fondo, fino al terzo referendum costituzionale in meno di vent’anni. Di certo, serve un’opposizione netta, in parlamento, nel dibattito pubblico e nelle piazze, a un disegno che porterebbe a compimento la transizione italiana nel modo più autoritario possibile.
Una mobilitazione che però non può limitarsi a denunciare una proposta che si potrebbe facilmente definire eversiva dell’ordine costituzionale, se quest’ordine non fosse già stato gradualmente indebolito e distorto da decenni. Questa proposta di riforma è figlia delle retoriche e delle scorciatoie che tutti i governi della Seconda Repubblica hanno utilizzato per nascondere sotto il tappeto la crisi strutturale di rappresentanza che caratterizza l’Italia da trent’anni e che è stata ulteriormente aggravata dal quindicennio post-2008. Da una parte, Giorgia Meloni cavalca l’onda di un trentennio in cui l’elezione diretta del presidente del consiglio è spesso esistita di fatto se non nella norma, e in cui slogan come «ci vuole il sindaco d’Italia» e «la sera delle elezioni si deve sapere chi governa» sono stati sulla bocca di ogni leader di centrosinistra: con che credibilità, ora, si dà battaglia contro la realizzazione di quelle promesse? Dall’altra, instabilità governativa, trasformismi, cambi di maggioranza e ricorso frequente a «governi tecnici» privi di una legittimazione popolare hanno effettivamente creato uno scontento che questa riforma può provare a catalizzare, ovviamente in forma verticistica e autoritaria. Insomma: si è giocato col fuoco per decenni, e ora qualcuno ha deciso di incendiare tutto. Denunciare «l’attacco alla Costituzione» non basta: serve prendere sul serio la crisi della rappresentanza.
Pieni poteri
La proposta di riforma inserirebbe nel testo costituzionale quattro principali novità:
- l’elezione diretta del presidente del consiglio;
- la contestualità tra l’elezione del presidente del consiglio e quella del parlamento, che avverrebbero addirittura su una sola scheda, con l’obbligo che la legge elettorale assicuri alle liste collegate al presidente del consiglio una maggioranza del 55% in ognuna delle due camere tramite un apposito premio;
- l’impossibilità, in caso di dimissioni del presidente del consiglio o di sfiducia nei suoi confronti da parte del parlamento, di nominarne un altro, se non nell’ambito della stessa maggioranza e per la realizzazione dello stesso programma.
L’elezione diretta del presidente del consiglio è già di per sé un’anomalia. La figura del primo ministro, infatti, è tipica dei sistemi parlamentari, in cui è appunto il parlamento, sede del potere legislativo, il depositario della volontà popolare, mentre gli altri poteri, compreso quello esecutivo, dipendono dalla legittimazione parlamentare. Normalmente, quindi, nei sistemi parlamentari, il capo del governo è nominato dal capo dello stato (il Presidente della Repubblica nel caso italiano o tedesco, il re o la regina nel caso spagnolo o britannico), per poi essere votato dal parlamento, oppure direttamente eletto dal parlamento stesso (come nel caso giapponese). L’elezione diretta del capo del governo, invece, è tipica dei sistemi presidenziali, in cui sia il potere legislativo (il parlamento) sia l’esecutivo (il presidente, che a quel punto è sia capo dello stato sia capo del governo) sono eletti direttamente dal popolo, come ad esempio negli Stati uniti o in Francia. Meloni propone di far eleggere dai cittadini il presidente del consiglio, ma di mantenerlo separato dal capo dello stato e di farlo passare comunque per la fiducia parlamentare (ridotta a un passaggio formale senza significato). Una bizzarria che non esiste sostanzialmente da nessun’altra parte. Ci provò Israele negli anni Novanta, con risultati tutt’altro che soddisfacenti, tanto che la norma fu revocata meno di dieci anni dopo il suo varo.
Non si capisce, se si ritiene che il capo del governo debba essere scelto direttamente dai cittadini, senza la mediazione parlamentare, perché non passare direttamente al presidenzialismo. L’impressione è che i motivi per questa scelta bizzarra da parte del governo Meloni siano due: da una parte, evitare l’immagine plebiscitaria, personalistica e tendenzialmente autoritaria che il presidenzialismo si porta dietro in Europa, proponendo la stessa ricetta sotto le vesti più «soft» del «premierato»; dall’altra, evitare le garanzie e i contrappesi che, normalmente, il presidenzialismo si porta dietro, e che contraddirebbero gli obiettivi pienamente autoritari di questa riforma.
Il fulcro autoritario della proposta Meloni è, infatti, il secondo punto: l’elezione contestuale di capo del governo e parlamento, lo stesso giorno, sulla stessa scheda elettorale e con un sistema che assicuri al presidente del consiglio, a prescindere dal risultato elettorale, una maggioranza assoluta in entrambe le camere. Questo è un meccanismo che non esiste in alcuna democrazia al mondo. Nessuno elegge parlamento e capo del governo con lo stesso voto: o si vota solo il parlamento (sistemi parlamentari) o si votano entrambi ma in modo diverso (sistemi presidenziali). Nei sistemi presidenziali, infatti, la possibilità di avere un parlamento di colore politico diverso da quello del presidente è una garanzia democratica. In molti casi, avvengono in giornate diverse (come in Francia e in parte negli Stati uniti) e, anche quando avvengono lo stesso giorno (come in Cile e nella Turchia di Erdogan, in questo più liberale dell’Italia che Meloni propone), si vota con due schede diverse, con meccanismi elettorali diversi e con risultati reciprocamente indipendenti. Già la legge elettorale è unica al mondo: nessun altro sistema, infatti, assicura che sempre, con qualsiasi risultato, ci sia una maggioranza assoluta uscita dalle urne. Perfino nel sistema più maggioritario d’Europa, quello britannico, è successo (l’ultima volta nel 2010) che nessun partito avesse la maggioranza e si dovesse formare una coalizione in parlamento. Solo in Italia ciò è considerato talmente scandaloso da doverlo proibire per Costituzione. Ipotizzando il caso di quattro candidati alla presidenza del consiglio più o meno di simile peso elettorale, se uno dei loro prendesse il 27% dei voti e gli altri, magari, rispettivamente il 26%, il 25% e il 24%, il primo sarebbe eletto presidente del consiglio e ai partiti che lo sostengono andrebbe il 55% delle due camere. Una distorsione enorme della volontà popolare, tanto che la Corte Costituzionale già due volte (prima contro il «Porcellum» di Roberto Calderoli e poi contro «l’Italicum» di Matteo Renzi) ha bocciato la possibilità di un premio di maggioranza che non preveda almeno una soglia minima di accesso. Per questo Casellati e Meloni vogliono inserire questo meccanismo direttamente in Costituzione: per evitare che risulti incostituzionale. In questo modo, il capo del governo eletto direttamente dai cittadini si troverebbe di fronte un parlamento perfettamente allineato dal punto di vista politico, anche se votato da una più o meno ristretta minoranza di elettori. Un meccanismo che fonderebbe presidenzialismo e parlamentarismo evitando le garanzie di ciascun sistema, e rendendo impossibile la coabitazione tra un capo del governo di una parte politica e un parlamento non allineato, cosa invece normalissima nei sistemi presidenziali: Joe Biden ha di fronte un Congresso a maggioranza repubblicana, così come Emmanuel Macron deve confrontarsi con un’Assemblea Nazionale in cui il suo partito ha la maggioranza relativa ma non quella assoluta. Per non parlare di Gabriel Boric, presidente del Cile: non solo la sua coalizione di sinistra radicale, alle elezioni per il parlamento, ha preso solo il 21% dei voti, ma anche l’alleanza costruita poi con il centrosinistra non arriva alla maggioranza assoluta. O di Lula, che nel Congresso brasiliano può contare su poco più di un terzo dei deputati. Insomma, normalmente in democrazia si deve scegliere: o c’è omogeneità politica tra governo e parlamento, ma si vota solo per il secondo (parlamentarismo), o si vota direttamente sia il parlamento sia il capo del governo, ma in maniera indipendente e accettando il rischio di coabitazione (presidenzialismo). Meloni, invece, vuole la legittimazione popolare diretta e anche un parlamento che approvi qualsiasi cosa gli venga proposto: in Veneto si direbbe «voer a musa e anca i trenta schei» (volere l’asina e anche i trenta soldi).
L’asservimento totale del parlamento al capo del governo raggiunge livelli insperati al terzo punto della riforma. Se con l’elezione diretta del capo del governo ha perso di senso il voto di fiducia (cioè il potere più rilevante di un parlamento), e con la maggioranza assoluta automatica il presidente del consiglio è liberato dal fastidio di dover in caso negoziare con un parlamento avverso, la cosiddetta «norma anti-ribaltoni» toglie al parlamento l’ultima forma possibile di controllo sul governo: la sfiducia nei confronti del presidente del consiglio. O meglio: come il voto di fiducia è rimasto formalmente, ma è stato svuotato di fatto dall’elezione diretta del presidente del consiglio, il voto di sfiducia resta un’eventualità considerata dalla Costituzione, ma è reso difficilissimo da esercitare in termini concreti. Nel caso, infatti, che un presidente del consiglio venisse sfiduciato dal parlamento oppure decidesse spontaneamente di dimettersi, il Presidente della Repubblica lo potrebbe sostituire solo con un parlamentare eletto nelle stesse liste, e solo per realizzare il programma del capo del governo eletto dai cittadini. Altrimenti, si torna a votare. Insomma: o la sostituzione del presidente del consiglio è una mera staffetta interna alla coalizione di maggioranza senza alcuna variazione programmatica (cosa avvenuta molto raramente nella storia della Repubblica), oppure le camere vanno sciolte. Nella pratica, il presidente del consiglio, che già ha a disposizione un parlamento fatto al 55% di suoi sostenitori, può, nel caso remoto in cui qualcuno tra essi decida di dire la propria, minacciare molto chiaramente: «se non fate come vi dico, mi dimetto, e, a meno che non siate in grado di sostituirmi con qualcuno che vada bene a tutta la maggioranza uscente, mio partito compreso, si va a casa tutti». Un’arma di ricatto potentissima: di fatto, sarebbe il presidente del consiglio a poter sfiduciare il parlamento, più che viceversa. E anche il potere di sciogliere le camere e convocare nuove elezioni, sulla carta ancora del Presidente della Repubblica, passerebbe di fatto al presidente del consiglio.
Il Presidente della Repubblica sarebbe così ridotto a una figura sostanzialmente ornamentale e il capo del partito di maggioranza relativa avrebbe pieni poteri, con il controllo di esecutivo e legislativo (per fortuna non siamo ancora all’attacco al potere giudiziario e alla libertà d’espressione, come nell’Ungheria dell’amico Orbán), per cinque anni.
«La madre di tutte le riforme»
Nella conferenza stampa di presentazione della proposta, Meloni l’ha definita «la madre di tutte le riforme», attribuendole lo status di «priorità» dell’azione del governo e giustificandola con due obiettivi: «mettere fine alla stagione dei ribaltoni, dei giochi di palazzo, del trasformismo, delle maggioranze arcobaleno, dei governi tecnici» e «garantire la stabilità del governo per cinque anni, una condizione sostanziale per costruire una strategia e per avere una credibilità a livello nazionale e internazionale».
Il secondo punto è stranoto: abbiamo avuto sessantotto governi in settantasette anni di Repubblica, il più lungo dei quali, il Berlusconi II, non arrivò neanche a quattro anni. La ricerca ossessiva della governabilità, della possibilità che un presidente del consiglio possa lavorare in pace per cinque anni senza dover fastidiosamente rendere conto a un sistema di partiti e a un parlamento, è stato uno degli assi portanti della Seconda Repubblica. Dove le mille riforme elettorali hanno fallito, provando a forzare la volontà popolare in camicie costruite ad hoc per costruire maggioranze durature, Meloni interviene puntando direttamente la Costituzione. Non è la prima volta. Già la bicamerale presieduta prima dal democristiano Ciriaco De Mita e poi dalla post-comunista Nilde Iotti, tra il ’93 e il ’94, propose una forma di premierato (costruita sul modello tedesco, e molto più sensata di quella in discussione ora), poi riproposta dal centrosinistra nella bicamerale di Massimo D’Alema del ’97-’98 (successivamente accantonata in nome del semi-presidenzialismo alla francese per venire incontro alla destra) e riemersa (in forma più radicale, ma ancora estremamente soft rispetto alla proposta attuale) nella riforma Berlusconi-Calderoli bocciata dagli elettori nel 2005.
Di riequilibrare la forma di governo a favore dell’esecutivo, insomma, si parla da trent’anni. Dietro a questa tendenza da una parte c’è il tentativo di ricostruire nell’identificazione diretta tra popolo e capo del governo i legami di rappresentanza che la crisi dei partiti ha fatto saltare tra popolo e parlamento; dall’altra l’idea che le democrazie parlamentari, nella loro lentezza e macchinosità, costituiscano un ostacolo all’implementazione rapida delle riforme di aggiustamento strutturale che il neoliberismo prevede. Come illustrava il celebre documento The Euro area adjustment: about halfway there (L’aggiustamento dell’area euro: quasi a metà strada) pubblicato nel maggio 2013 dal centro di ricerca sulla politica economica della banca d’affari JP Morgan, gli esecutivi deboli dell’area mediterranea sono un’eredità scomoda delle transizioni dal fascismo alla democrazia, da cancellare per rendere più agile e priva di qualsiasi attrito, anche quello morbido di parlamenti tutt’altro che all’altezza del proprio ruolo, l’implementazione delle decisioni prese dalle élite finanziarie transnazionali.
Ma a essere fondamentale nella costruzione di un potenziale consenso intorno alla proposta Meloni-Casellati è il primo dei punti esposti dalla presidente del consiglio: basta con «ribaltoni» e governi tecnici. Qui si toccano nodi scoperti della politica italiana degli ultimi decenni. Se l’idea del cambio di maggioranza parlamentare come «ribaltone» è un’invenzione berlusconiana, parte della retorica antiparlamentare di cui sopra, è innegabile che i livelli di trasformismo della Seconda Repubblica abbiano spesso raggiunto il parossismo. I governi pre-1993 duravano tendenzialmente pochi mesi, ma le maggioranze erano fin troppo stabili, con la Dc e i suoi alleati, magari non sempre nella stessa formazione, saldamente al governo del paese per quarant’anni. L’Italia del bipolarismo, invece, ha visto un fiorire di passaggi, collettivi e individuali, da una coalizione all’altra, contribuendo all’idea diffusa della politica come un gioco di potere interno alla «casta». L’apice di tutto ciò fu raggiunto proprio dal governo in cui Giorgia Meloni era ministra, il Berlusconi IV, rimasto in sella a dicembre 2010 grazie al soccorso interessato di parlamentari eletti col centrosinistra. Una vergogna che ha lasciato il segno nell’opinione pubblica. Così come è innegabile l’anomalia democratica rappresentata dal governo Monti (2011-2013) e dal governo Draghi (2021-2022), esecutivi «tecnici» nati dall’iniziativa autonoma dei Presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella forzando la mano a parlamenti deboli. È così strano che si diffonda la sfiducia nel parlamentarismo, quando questo si concretizza non nella centralità della volontà popolare attraverso la rappresentanza, bensì della negazione della volontà popolare attraverso la formazione di governi «tecnici” che non rispondono a nessuno del proprio operato?
Meloni cavalca il giusto disgusto per queste degenerazioni della politica contemporanea. Lo fa cogliendo l’occasione per indirizzarlo in senso autoritario, quando soluzioni più semplici sarebbero state a portata di mano: basti pensare alla cosiddetta «sfiducia costruttiva», in vigore in Germania e Spagna, che permette di sfiduciare un presidente del consiglio solo presentando e votando un suo sostituto. Un meccanismo che eviterebbe «crisi al buio» e governi nati fuori dal parlamento e dai partiti. Ma che, evidentemente, non rassicura abbastanza la destra al governo.
E quindi il “premierato” di cui si parla non prevede ciò che la stessa etichetta aveva indicato in passato (potere di nomina e revoca dei ministri da parte del presidente del consiglio, sfiducia costruttiva) e ciò che molti capi di governo hanno in altri paesi, bensì un mostro costituzionale basato sulla logica muscolare dei “pieni poteri” e della delega totale al leader.
Difendere la Costituzione non basta
Questa riforma può passare? Per la maggioranza dei due terzi richiesta dalla Costituzione mancano 27 voti alla Camera e 17 al Senato: un gap che il «soccorso bianco» del centro di Matteo Renzi, già annunciato, non basterà a colmare. Quindi o il negoziato parlamentare porterà a un accordo di compromesso (cosa che il carattere «estremo» di questa prima proposta suggerirebbe, ma che appare difficilmente compatibile con il clima fortemente polarizzato del campo politico attuale) o si andrà a un nuovo referendum. Conviene a Giorgia Meloni farlo, sapendo che non c’è quorum e che la mobilitazione dell’opposizione potrebbe risultare decisiva, come già accaduto alla riforma Berlusconi-Calderoli nel 2005 e a quelli Renzi-Boschi nel 2015? Difficile dirlo. Dietro all’iniziativa, ci potrebbe essere la volontà di rimarcare un punto identitario della destra, controbilanciando l’egemonia leghista sull’autonomia differenziata, e lasciando un segno indelebile del passaggio della fiamma tricolore al governo, nella Costituzione. Oppure potrebbe essere un ballon d’essai, lanciato per poter dire, intanto, di aver fatto una proposta, e poi vedere come evolvono le cose.
Di certo la mobilitazione non può aspettare, ma chi ha chiacchierato di «sindaco d’Italia» per trent’anni ha poca credibilità. Una battaglia in difesa di prerogative parlamentari già erose e di un ordine costituito in cui nessuno crede, ha poco senso. Bisogna discutere sul serio di come ricostruire un sistema di rappresentanza degno di questo nome. Da una parte parlando, anche a sinistra, di riforme costituzionali (mono/bicameralismo, iniziativa popolare e referendum, legge elettorale non da rivedere a ogni legislatura, rapporti stato-regioni, legge sui partiti che ne garantisca la democrazia interna, ecc.). Dall’altra, proponendo un discorso radicalmente alternativo a un dibattito sul potenzialmento dell’esecutivo a danno di un parlamento ormai ridotto a passacarte, di partiti in agonia e di un elettorato a cui richiedere solo periodici plebisciti al capo (e meno gente vota meglio è).
Il punto è ragionare di come ricostruire un rapporto funzionante tra rappresentanti e rappresentati, invece di puntare solo a ridurre l’attrito per imporre più rapidamente ed efficacemente le decisioni della governance. Uscire dall’ossessione per le riforme istituzionali e porre la questione democratica nel suo insieme: servono organizzazioni collettive generali che rispondano alla crisi dei partiti di massa e all’insufficienza delle attivazioni locali e settoriali, organizzazioni unitarie, radicate in termini di classe e capaci di riflettere e ricomporre le mille appartenenze e le mille identità del mondo di oggi; va ricostruita un’efficacia materiale della democrazia, sgretolata dai vincoli europei, dalla globalizzazione, dalle privatizzazioni; e servono anche riforme istituzionali che restituiscano un orizzonte democratico progressivo, da nuovi strumenti di democrazia diretta alla democrazia interna ai partiti e alle comunità. Un dibattito su chi comanda e chi deve comandare nella nostra società, e non solo su chi governa, per quanto tempo, e con quali poteri.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).
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