Alla ricerca di Big Pharma
La farmaceutica è un settore strategico, ma gli investimenti in Ricerca e Sviluppo delle multinazionali si basano sempre più sul ruolo dello Stato, per poi utilizzarli a scopi privati. Intervista a Fabio Montobbio dell’Università Cattolica di Milano
L’Europa appare sempre senza una bussola. Senza un progetto politico ed economico. A rischio persino di tenuta. Partendo dall’angolo di visuale italiano, ma estendendolo fino al livello globale, si ha l’impressione che la sfera politica stia ribaltando quel processo di disintermediazione in corso da tempo. Oggi, accantonati i corpi intermedi, la politica sembra navigare a vista, finendo per aver dismesso persino una certa collaborazione con il mondo accademico, sui temi economici e non solo. Anche l’accademia appare «troppo distante» dalla necessaria gestione della cosa economica. Ed ecco allora che la disintermediazione cambia di segno, il confronto e il contributo tecnico alla sfera politica spesso proviene direttamente dal mondo dell’impresa e, in definitiva, dai suoi interessi. Messa da parte anche l’accademia, le suggestioni provengono esplicitamente da manager, dirigenti e proprietari d’azienda.
In questo dialogo con Fabio Montobbio proviamo a rispolverare il contributo tecnico di chi studia l’economia per comprendere i processi in corso. Montobbio è ordinario di Economia Applicata all’Università Cattolica di Milano e recentemente si è occupato del segmento farmaceutico, presentando una relazione al Festival dell’Economia di Torino. Un segmento di frontiera, salito alla ribalta con la vicenda del Covid-19, dove interessante è comprendere il ruolo del mercato, gli andamenti della produttività e, perché no, gli interventi che sarebbero necessari per migliorare le cure dei pazienti in una logica di contrasto alla crescente diseguaglianza. Insomma riflettere sulla farmaceutica per poi provare a ragionare più in generale di economia.
Cominciamo, dunque, dai processi in corso nella farmaceutica, dal suo dinamismo e dalle sue traiettorie.
Il settore farmaceutico è un settore centrale nelle nostre economie. È in continua crescita e, nella maggior parte delle economie del mondo, il contributo dell’industria farmaceutica al Pil, negli ultimi due decenni, è cresciuto in modo significativo. La pandemia ha fatto vedere molto chiaramente che è un settore chiave, non solo dal punto di vista economico, perché dal suo funzionamento dipendono le risposte che siamo in grado di dare a importanti problemi sociali legati anche alla crescita demografica globale, all’invecchiamento della popolazione, in particolare nei paesi avanzati e, in generale, all’accesso alla salute (in media 1/6 della spesa sanitaria va ai farmaci).
La capacità di creare e sviluppare nuovi farmaci è fondamentale e richiede altissime spese in Ricerca e Sviluppo. Si stima fra i 200 e i 300 miliardi di dollari su scala globale di cui il 70% proviene dalle imprese. Il settore farmaceutico è inoltre estremamente eterogeneo in quanto caratterizzato non solo da grandi imprese ma anche da un ecosistema molto vario di imprese biotecnologiche di medie e piccole dimensioni. È centrale inoltre l’interazione con la ricerca scientifica e con i centri di ricerca pubblici e le università. Lo Stato gioca un doppio ruolo perché non solo finanzia lo sviluppo e la diffusione della conoscenza attraverso la formazione e la ricerca di base ma è anche uno dei grandi acquirenti (in media nei paesi Ocse lo Stato si fa carico di metà della spesa farmaceutica globale).
In anni recenti il settore farmaceutico ha prodotto tanti nuovi farmaci innovativi però la produttività della Ricerca e Sviluppo (nuovi farmaci approvati per dollaro speso) è diminuita. Questo probabilmente è avvenuto per una molteplicità di fattori che includono crescenti requisiti per ottenere l’approvazione, un aumento dei costi della sperimentazione clinica, e lo sforzo in Ricerca e Sviluppo che si è direzionato verso farmaci più complessi per patologie più complesse. È interessante notare che però alcuni studi evidenziano anche un declino dell’investimento delle grandi imprese nella ricerca di base e uno sforzo crescente nel settore della vendita e del marketing.
Sollevi due temi molto interessanti. Il primo è che la ricerca nel settore sembra provenire per quasi un terzo da investimenti pubblici. Sarebbe da capire, però, quanto tale sforzo sia concentrato nella ricerca di base, cioè quanto sia un investimento che costituisce il «prerequisito” per l’invenzione di nuovi farmaci. Quindi quanto la ricerca privata avvenga a valle della ricerca ottenuta da investimenti pubblici. Cioè come afferma Mariana Mazzucato come la spesa pubblica sia il motore primo dell’innovazione.
Nelle economie di mercato il sistema di innovazione e sviluppo di farmaci è molto articolato ed è formato dalle grandi imprese cosiddette Big pharma e da un insieme molto dinamico ed eterogeneo di imprese biotecnologiche. In parte c’è una divisione del lavoro. Il settore biotecnologico nasce e si sviluppa sulle scoperte della genetica e della biologia molecolare negli anni Settanta e Ottanta e applica una logica scientifica alla scoperta dei farmaci cercando di collegare precisamente obiettivi specifici alle malattie. Le Big pharma percepite sovente come meno innovative rispetto alle nuove start-up, acquistano le licenze dalle piccole/medie imprese biotech (o acquistano direttamente le imprese) e investono risorse nella ricerca clinica e preclinica applicata.
In questo contesto il ruolo dello Stato e dei finanziamenti pubblici è pervasivo. Lo Stato finanzia in parte anche la ricerca applicata, ma, come più volte sottolineato per esempio da Mariana Mazzucato e da Massimo Florio, è importante insistere che il ruolo dello Stato è finanziare larga parte della ricerca di base sulla quale il sistema si sviluppa. I canali attraverso cui il finanziamento pubblico contribuisce al settore farmaceutico sono molteplici e le cifre normalmente pubblicate dalle organizzazioni internazionali ne sottostimano il ruolo.
Il secondo tema attiene strettamente agli andamenti della produttività. In un recente numero cartaceo di Jacobin abbiamo ragionato con Christian Marazzi proprio su questo. Lui avanzava una riflessione su come sia più complicato misurare gli andamenti della produttività nell’attuale economia, ma allo stesso tempo riconosce che, specie nelle attività più tradizionali, ma non solo, vi sia una tendenza verso una riduzione dei tassi di crescita della produttività. Qui stai parlando di uno dei settori più innovativi dell’economia contemporanea. Per certi versi potremmo definirlo di frontiera. Biotecnologie, Intelligenza artificiale potrebbero condurre a un nuovo ciclo di sviluppo. Ma per il momento, anche in questo comparto, sembra venga registrato un rallentamento della produttività. È così? E come si spiega?
Qui bisogna stare attenti a cosa si intende per produttività. La crescita della produttività potrebbe basarsi anche su miglioramenti nell’organizzazione del lavoro ed economie di scala nella produzione di farmaci tradizionali. Quello che secondo me è più importante è ragionare sulla produttività della Ricerca e Sviluppo in termini di nuovi farmaci e sulla direzione specifica intrapresa. La crescita delle spese in Ricerca e Sviluppo genera un aumento proporzionale nella creazione di nuovi farmaci? La Ricerca e Sviluppo va nella direzione di migliorare la salute pubblica? Queste domande sono particolarmente importanti alla luce del ruolo centrale dello Stato e dei contribuenti discusso in precedenza. A fronte di innovazioni straordinarie su diversi fronti (come in alcuni tipi di terapie geniche e oncologiche) i dati aggregati ci richiedono di fare attenzione su due aspetti. Il primo riguarda quello che dicevo all’inizio, cioè che per alcuni anni nonostante la rivoluzione biotecnologica e gli ingenti investimenti in Ricerca e Sviluppo il numero di nuove cure per dollaro speso in Ricerca e Sviluppo non è aumentato in modo sistematico. L’altro aspetto riguarda la direzione della Ricerca e Sviluppo e bisogna sempre chiedersi se questo sistema, che a valle è guidato da incentivi di mercato, sia in grado di innovare nei settori più importanti dal punto di vista della salute pubblica. Alcune aree terapeutiche ad alto impatto sono relativamente meno considerate in termini di Ricerca e Sviluppo, soprattutto se si guarda al problema con la prospettiva dei paesi a medio e basso reddito e delle classi più povere e delle minoranze nella popolazione dei paesi avanzati. Basti pensare all’impatto estremamente asimmetrico per classi sociali delle malattie infettive e della pandemia e al costo crescente dei farmaci e in particolare dei nuovi farmaci. Sicuramente l’Intelligenza artificiale avrà un impatto enorme sul settore e sull’innovazione e potrebbe aumentare la produttività in termini di nuove cure. Su questo sono ottimista. La sfida per le istituzioni è quella di costruire un sistema in cui i benefici siano largamente diffusi nella società e non limitati alle élite in grado di sostenere i prezzi elevati.
Se non capisco male, dunque, c’è il rischio che dopo un avvio pubblico la ricerca venga finalizzata a scopi più privati. Cioè che i principali attori privati nel mercato si impegnino nella ricerca di farmaci che finiscono per avere un prezzo elevato e dunque siano venduti ai soggetti più abbienti. Non si fa ricerca privata di «ultimo miglio” (chiamiamola così) per farmaci generici che potrebbero essere largamente impiegati, ma su quei segmenti farmacologici per malattie gravi i cui pazienti sono disposti, e hanno le facoltà, di spendere molto, consentendo profitti elevati. Snaturando quindi la missione di perseguire la salute pubblica. Inoltre mi domando quanto i costi incidano sui prezzi finali. Cioè quanto sia dispendiosa la ricerca necessaria e quanto, invece, i prezzi elevati siano la risultante di una sorta di potere di mercato delle case farmaceutiche su chi ha bisogno.
Ci sono due tipi di problematiche fra di loro correlate. Il primo problema è se i prezzi elevati hanno veramente la funzione economica di coprire i costi di Ricerca e Sviluppo e quindi di stimolare l’innovazione. In merito a questo punto bisogna ribadire che i costi di Ricerca e Sviluppo stanno crescendo considerevolmente. Per esempio recenti studi basati su questionari a imprese suggeriscono che in media il costo di Ricerca e Sviluppo di un nuovo farmaco possa stare in un range compreso fra 1.8 e 2.6 miliardi di dollari. È anche importante segnalare che più di metà di questi costi sono propriamente costi di sviluppo (cioè non relativi a una fase di ricerca pre-clinica). In molti casi però i prezzi non riflettono i costi. In Europa per esempio sono negoziati e tengono conto anche del risparmio che un farmaco genera a livello di sistema sanitario nazionale. Se un farmaco nuovo consente un risparmio al sistema sanitario nazionale, per esempio in termini di riduzione dei tempi di cura, ospedalizzazione, terapie ed esami, l’impresa cercherà di appropriarsi il più possibile della maggiore disponibilità a pagare del servizio pubblico, indipendentemente dai costi di Ricerca e Sviluppo del farmaco stesso. In secondo luogo le case farmaceutiche adottano strategie per prolungare i diritti esclusivi che non riflettono farmaci radicalmente nuovi e quindi il potere di mercato non corrisponde a innovazioni significative. Un esempio sono i cosiddetti brevetti secondari. I brevetti secondari possono coprire piccole innovazioni di dosaggio o di formulazione, creano incertezza legale, ostacolando l’ingresso dei generici, prolungano il potere di mercato. Dal punto di vista dei generici il problema regolatorio è invece garantire l’affidabilità e la capacità produttiva. Se un’impresa produttrice di generici vince un bando per un farmaco perché abbassa molto i prezzi, deve essere in grado di mantenere gli impegni in termini di qualità e quantità.
Il secondo problema è quello che menzionavo prima. Anche ammettendo che il sistema riesca a esprimere i prezzi minimi per coprire i costi di Ricerca e Sviluppo (e sappiamo che comunque non succede), bisogna chiedersi se gli incentivi di mercato guidino l’innovazione nella direzione corretta. Cioè gli incentivi che si basano su diritti esclusivi spingono la ricerca nella direzione migliore dal punto di vista dell’impatto sociale? Il tema riguarda l’industria nel suo complesso. Facciamo due esempi: i farmaci per essere approvati devono superare dei test clinici, i test clinici devono misurare l’impatto relativo sul paziente, per esempio i tassi di sopravvivenza. È evidente che è molto più difficile e costoso fare dei test clinici in cui l’impatto si misura nel lungo periodo, per esempio dopo 10 o 15 anni. Quindi ci saranno meno incentivi privati a fare ricerca sui farmaci o cure preventive che intervengono su malattie allo stadio iniziale o che hanno comunque un impatto nel lungo periodo. In oncologia per esempio questo è un tema importante. Un altro esempio sono i nuovi antibiotici. Se gli antibiotici perdono efficacia nel tempo e se, per questo motivo, ci sono delle giustificate limitazioni amministrative all’uso di determinati antibiotici, di nuovo gli incentivi privati a fare ricerca in questo campo potrebbero essere ridotti.
Esistono delle soluzioni immediate per il genere di problemi che sollevi?
Probabilmente risparmi maggiori potrebbero essere ottenuti con una negoziazione centralizzata, almeno sui farmaci innovativi considerati irrinunciabili, a livello europeo. L’anti-trust ha anche un ruolo centrale perché va tutelata la concorrenza dei generici alla scadenza del brevetto e vanno bloccati i comportamenti delle imprese tesi a prolungare in modo improprio la durata dei diritti esclusivi (per esempio con l’uso di brevetti secondari o attraverso un uso non corretto dei certificati di protezione supplementare).
Alessandro Volpi, in un suo recente lavoro (I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia, Laterza) afferma che la strada della sanità diventa così tracciata”. Intendendo che i Fondi che operano in Italia nel settore sanitario sono oltre 300 che finora attirano solo una parte della spesa sanitaria dei cittadini, ma che tale spesa, a causa di un crescente disimpegno di quella statale, è in progressivo e rapido aumento. Per altro in questo settore, anche in Italia, si va affermando una vasta concentrazione capitanata dai principali Fondi finanziari globali,. Il già citato Massimo Florio (La privatizzazione della conoscenza, Laterza) sottolinea come non sia perseguibile la salute pubblica, e in ultimo la giustizia sociale, attraverso la semplice regolazione dei mercati, ma sia necessario inventarsi anche un attore pubblico a livello internazionale. Questo, dice, consentirebbe di sprigionare energie per il bene sociale. Ti pare un percorso possibile?
Sì, certamente ci sono spazi importanti di intervento. Le politiche pull potrebbero spingere la R&S in specifiche direzioni, poi ovviamente c’è sempre la possibilità che lo Stato intervenga direttamente nel finanziare la ricerca (con politiche push). Però è necessario che lo Stato abbia la capacità e la volontà politica di spendere i soldi nell’interesse collettivo e non nell’interesse specifico della propria base elettorale. Bisogna sempre andare alla ricerca dei metodi migliori per finanziare la ricerca in modo efficace. Non sono sempre favorevole alla creazione di nuovi attori pubblici, spesso si possono migliorare quelli esistenti. La creazione di nuove istituzioni risulta efficace, però, quando si afferma un progetto con regole e obiettivi chiari e condivisi che va nella direzione di colmare esigenze che le strutture esistenti non riescono a coprire.
Un caso interessante è la creazione negli Stati Uniti di Arpa-H (The Advanced Research Projects Agency for Health). Il governo Biden ha messo sul piatto nel 2022 un miliardo di dollari (2 miliardi e mezzo nel 2024) per creare una nuova agenzia modellata sulla famosa Darpa (l’agenzia della difesa che ha contribuito alla creazione non solo di internet, ma anche tecnologie Gps o radar). Perché l’ha fatto quando esiste già il N.I.H.? Perché il N.I.H., nonostante tutto il suo rigore, e il ruolo importante a cui abbiamo accennato prima, è stato considerato troppo cauto. L’idea è che Arpa-H si faccia carico di ricerche particolarmente trasformative ad alto impatto e anche ad alto rischio. Segnalo due aspetti chiave, la quantità di fondi che sono necessari per far partire progetti ambiziosi di questo tipo in modo credibile e le complessità istituzionali nel fare in modo che le linee di ricerca di Arpa-H rispecchino veramente gli obiettivi dichiarati.
Citavi nella tua domanda Massimo Florio. La sua proposta di creare una infrastruttura biomedica su larga scala a livello europeo (Biomed Europa) è molto interessante anche perché tiene conto della necessità di coprire l’intera filiera verticale dalla Ricerca, allo Sviluppo, ai test clinici e distribuzione. Un progetto chiaro, socialmente e politicamente condiviso e la qualità del personale nell’amministrazione pubblica ritengo siano fattori fondamentali per rendere questo tipo di progetti efficaci. La governance dovrebbe prevedere il coinvolgimento di tutte le componenti del sistema che abbiamo visto essere molto complesso: in primo luogo le autorità sanitarie pubbliche e le associazioni dei pazienti, ma anche, per esempio, l’agenzia del farmaco, le organizzazioni professionali e le imprese che operano nei diversi segmenti della filiera.
Sarebbe importante un intervento dello Stato anche dal punto di vista produttivo. A fronte anche della carenza di materie prime e beni intermedi in campo farmaceutico, in Europa potrebbe essere molto utile costruire una filiera pubblica in grado di sviluppare prodotti farmaceutici accessibili, su linee terapeutiche ad alto valore sociale, in particolare alla luce di un nuovo contesto geopolitico in cui le filiere internazionali possono diventare particolarmente fragili.
*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.