Annie Ernaux e la vita materiale
Come si può riorientare il rapporto fra letteratura e politica? Una risposta la troviamo nella capacità della scrittrice francese di creare un nuovo linguaggio, che scarnifica la realtà e diventa uno strumento di lotta
C’è un’immagine che è difficile da dimenticare: il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, che durante una passeggiata interloquisce con un giovane disoccupato, nei giardini dell’Eliseo. Il disoccupato si rivolge al presidente per manifestare le difficoltà che sta attraversando e il presidente gli replica con il consueto tono duro e supponente, indicandogli che nei ristoranti e nei bar che si affacciano lungo Boulevard Montparnasse si cercano molti camerieri. E aggiunge, quasi come una provocazione, che gli sarebbe sufficiente attraversare la strada per trovare agevolmente un posto.
Forse in quel fotogramma, nelle scabre e aspre parole rivolte dal capo dello stato a una persona come tante, disposta a manifestare pubblicamente le proprie difficoltà sul piano lavorativo, si condensa lo spirito di un tempo complicato, nel quale il classismo sembra divenuto l’ideologia dominante, o almeno l’unica vera ideologia percorsa dal potere politico: come se la divisione della società in classi, anche nella sua manifestazione più violenta e dolorosa, rappresentasse l’unica garanzia di equilibrio e stabilità, l’unica possibile forma di vita. Perché, come ribadito dallo stesso presidente della Repubblica in un’altra massima divenuta celebre, «ci sono quelli che ce la fanno e quelli che non sono niente». E il potere, premiando «quelli che ce la fanno», fustiga deliberatamente «quelli che non sono niente» e che, con tutta probabilità, «niente» resteranno per tutta la vita.
Annie Ernaux ha ripreso, nel corso del primo lockdown, l’atroce massima di Macron, ritorcendola contro lo stesso presidente, cui ha indirizzato una breve e incisiva lettera. Sottolineando l’apporto essenziale di «quelli che non sono niente» nel garantire la continuità dei servizi essenziali e della «vita materiale». Ernaux ha così prefigurato la possibilità di un cambiamento che parta proprio da quelli che il poeta Léon-Gontran Damas definirebbe i niente, divenuti tutto a causa della particolare contingenza attraversata:
E quelli di cui, a suo tempo, lei ha detto che non sono niente ora invece sono tutto, e sono coloro che continuano a svuotare i cassonetti dei rifiuti, a battere gli scontrini alla cassa, a consegnare le pizze, a garantire questa vita tanto indispensabile quanto quella intellettuale: la vita materiale.
Questo stralcio di lettera testimonia il frequente desiderio dell’autrice di intervenire, con precisione e sincero impegno civile, nel dibattito pubblico, prendendo posizione nettamente contro il potere e i suoi rappresentanti, a partire da un presidente che nel corso del suo mandato ha favorito le classi dominanti, il «presidente degli straricchi» come l’hanno definito i sociologi Michel Pinçon e Monique Pinçon-Charlot in un loro saggio uscito in Francia nel 2019.
Ma la domanda che può emergere, leggendo o rileggendo i libri di Ernaux, ricostituendo la lunga cronologia di un lavoro di scrittura iniziato a metà degli anni Settanta con la pubblicazione di Les armoires vides (testo essenziale, purtroppo non ancora tradotto in italiano), è come considerare una letteratura che ha fra i suoi obiettivi dichiarati anche quello di dare voce e corpo a «quelli che non sono niente». E in che modo queste narrazioni che si estendono su vari decenni, in molti casi costruite attraverso la forma dell’autofiction, possono diventare uno strumento politico, quasi un’arma da utilizzare per operare una frattura, per agire politicamente su uno dei tanti campi di battaglia che si dispiegano su quello che Adrienne Rich immaginava come «l’atlante di un mondo difficile».
Sarebbe ingenuo limitarsi a considerare quella di Ernaux come una scrittura densamente intrisa di una prospettiva o di un’indefinibile luce politica. È un fatto vero, e questo costante emergere del politico si esprime in molti modi: tramite l’autocoscienza, il racconto delle proprie origini di classe, lo sguardo privo di filtri sul corpo, l’utilizzo di categorie sociologiche (innegabile è, in particolare, la presenza di Pierre Bourdieu), la memoria da intendersi come «memoria materiale», dei corpi e delle stesse lotte cui l’autrice ha partecipato nel corso degli anni. Del resto, per la stessa autrice, «scrivere è […] un’attività politica, che può contribuire al disvelamento e al cambiamento del mondo o, al contrario, a confortare l’ordine sociale, morale, esistente». E poi, per ribadire la compenetrazione fortissima fra politica e scrittura: «Ciò che mi ha sempre colpita è la persistenza, sia fra gli scrittori e i critici ma pure fra il pubblico, di una certezza: la letteratura non ha nulla a che vedere con la politica, è un’attività puramente estetica, che mette in gioco l’immaginario dello scrittore, il quale […] rifuggirebbe ogni determinazione sociale mentre il suo vicino di pianerottolo sarebbe classificato nella classe media o nell’alta borghesia».
Ma questa lettura non è sufficiente o, almeno, resta parziale: sono difficili da definire i contorni del rapporto fra letteratura e politica; sbiadita e fiacca l’idea di una «letteratura civile», che spesso si costruisce su categorie prepolitiche o su un piano meramente etico-morale; ancora numerosi, malgrado tutto, i rischi di uno zdanovismo di ritorno (molto diverso, per forza di cose, da quello del dopoguerra). Inutile, forse, identificare come «politica» una letteratura che descriva la realtà, quasi a proporre un nuovo realismo che cerchi di raccontare le nostre notti occidentali, di pace o di guerriglia. Molti hanno tentato di percorrere questa strada, nel romanzo come nel cinema, attraverso narrazioni che cercano di raffigurare storie di periferia o di marginalità, in cui viene data voce alle classi subalterne. Ma lo sguardo resta sempre quello di chi osserva da lontano le classi popolari, quasi che esse siano necessarie per conferire un senso politico a un discorso altrimenti vuoto o manierista. E la lettura è sovente quella del borghese che, come colui che piange e dice, osserva in lontananza i poveri e cerca di rappresentarli. Ad affiorare è però, in molti casi, il «vile piagnisteo» di cui parlavano Marx ed Engels.
Con queste premesse, come si può riorientare il rapporto fra la letteratura e il politico? E in che modo un libro o una produzione letteraria nel suo insieme possono configurarsi come un terreno di lotta, un «campo di battaglia» da interpretarsi in una dimensione collettiva, luogo che partendo dal sé riesca ad aprirsi agli altri, trasformando l’intimo in politico, il proprio tracciato personale in una storia impersonale (ma vivente) nella quale ci si possa riconoscere? Per Ernaux, il politico sembra dispiegarsi attraverso il libro stesso, che si fa strumento di lotta. Lo si può leggere nella parte finale del suo libro più celebre in Italia, Gli anni, dove una dichiarazione poetica si trasfigura in un afflato sinceramente militante e radicale. In quell’estratto, nel ricomporre le tante immagini sopravvissute nella propria memoria (immagini destinate a una futura scomparsa), Ernaux attribuisce un valore profondissimo al libro cui si sta dedicando, con un racconto che si sposta sulla terza persona dello sguardo esterno e indagatore: «Non c’era nessun mondo ineffabile che sarebbe comparso per magia grazie a parole ispirate, e la lingua in cui avrebbe scritto sarebbe stata quella di tutti, il solo strumento con il quale contava di agire su ciò che la faceva ribellare. Il libro da scriversi allora rappresentava uno strumento di lotta».
Quel libro futuro, un livre à venir per riprendere un titolo di Blanchot, è già nel momento della scrittura, durante la «preparazione del romanzo» inteso dall’autrice come uno strumento di lotta. Eppure, come può diventare strumento di lotta un libro che parla solo ad alcuni, che rischia di indirizzarsi a una comunità, quella dei lettori di Ernaux, che è facile identificare su coordinate di classe ben definiti: la media borghesia, quel ceto medio riflessivo che difficilmente riuscirà a organizzare un profondo processo rivoluzionario e che, pur apprezzando il libro di Ernaux, difficilmente si interrogherà sulla lotta e sulle sue prospettive?
È una domanda che, investendo categorie ben più ampie e profonde, rischia di restare inevasa. E che ci interroga su come utilizzare il libro nel momento in cui, per dichiarazione stessa dell’autrice, esso si configura come strumento di lotta, o come «corpo contundente», visto che la scrittura viene assimilata a un coltello: «e la scrittura “clinica” […] che utilizzo è parte integrante della mia ricerca. La sento come il coltello, l’arma quasi, di cui ho bisogno».
Forse non è a partire dal libro in quanto tale che può svilupparsi un profondo processo rivoluzionario o una possibilità di rivolta, ma esso è prima di tutto uno strumento per riconfigurarsi, per ripensare la propria identità, il proprio posizionamento in una società profondamente dominata dalla divisione in classi. La riflessione su sé stessi, sulle fratture che anche nella propria soggettività può determinare la struttura di classe del mondo, diventa un terreno di negoziazione e di ripensamento a partire dal quale innescare una rivolta possibile. Come scriveva Furio Jesi, riferendosi all’esperienza rivoluzionaria di Rosa Luxemburg:
l’emancipazione dal condizionamento borghese, che prelude alla duratura conquista del potere, sarà raggiunta solo se le eredità borghesi […] verranno colmate dal proletariato di una rinnovata qualità morale, tale da consentire di rivolgere contro la borghesia le sue stesse armi, di superare l’antinomia fra pensiero per sé e pensiero per gli altri, vita a sé e vita con gli altri […].
Forse questi libri, scritti da un’autrice tutto sommato borghese, letti in prevalenza da borghesi, possono diventare uno strumento politico solo cogliendo la radicale diversità di questa narrazione; nel momento in cui la parola viene sottratta al conformismo in cui è impaludato il discorso politico, al suo linguaggio coloniale, alla prospettiva annichilente di una società classista e tecnocratica dove viene proposta una narrazione armonica, che pare eradicare il concetto di classe dal discorso pubblico.
Un vero e proprio processo di desertificazione intellettuale ha infatti abolito ogni tentativo di ragionare in termini di classe, destrutturando l’idea di una società che è ancora, terribilmente, articolata su categorie, dinamiche e pratiche di classe. In un mondo dove sovente si dispiega un classismo esasperante, dalle dichiarazioni del presidente della repubblica sino a quelle del più piccolo capetto o piccolo dirigente di provincia, si viene cullati in narrazioni armoniche e accondiscendenti, che hanno tentato, attraverso astuti elementi di linguaggio, di costruire un’altra società, tutta orientata su altre categorie: perché secondo i rappresentanti delle classi dominanti «le classi sociali non esistono» o non rappresentano più uno strumento per leggere la realtà.
I libri di Ernaux possono allora farsi strumenti per impostare e poi agire una contronarrazione, uno spazio nel quale costruire una pratica di resistenza al lessico dominante. Questa prospettiva è già, di per sé, un capovolgimento necessario nello spazio letterario come pure del discorso pubblico, perché tutto viene ricalibrato per definire una nuova poetica, in cui i riferimenti di classe e la propria appartenenza a una classe subalterna sono un dato di fatto, il punto di partenza di ogni riflessione che potrà venire dopo e, soprattutto, del nuovo libro che si sta scrivendo.
A essere creato non è semplicemente un nuovo libro, ma è un nuovo linguaggio su cui riorientare le proprie pratiche di scrittura e di militanza. Sta qui la forza del lavoro di scrittura condotto da Ernaux. L’affermazione della propria origine di classe non è solamente un dato di fatto, ma è uno strumento di rivendicazione oltre che il punto di partenza per una riflessione più ampia, a partire da quella, su cui molto si è scritto, sulla distanza di classe, sulla frattura insieme politica e culturale che può crearsi fra una generazione e l’altra; come pure la questione della consapevolezza – o della presa di coscienza – di essere diventata una borghese, snaturandosi rispetto alla propria origine, come la stessa Ernaux riporta in un passaggio memorabile de Il posto, ma pure in molti altri dei suoi testi:
Sul treno del ritorno, la domenica, cercavo di intrattenere mio figlio per farlo stare tranquillo, chi viaggia in prima classe non ama i rumori o i bambini che si agitano. D’un tratto, con stupore, «ora, sono davvero una borghese» e «è troppo tardi».
In molti hanno identificato la scrittura di Ernaux come il racconto, o la radiografia, di una transfuga di classe. L’idea del transfuga è stata messa in evidenza da alcuni contributi critici che si focalizzano sulla particolare condizione della sua soggettività: cresciuta in una famiglia di una classe popolare o della piccolissima borghesia di commercianti, in provincia, Ernaux ha effettuato degli studi che l’hanno portata a diventare un’insegnante e a situarsi su un nuovo terreno di rappresentazioni e di identificazioni.
Il meccanismo della fuga da una classe all’altra è per Ernaux uno degli aspetti centrali della rappresentazione di sé stessa, quasi un luogo letterario che emerge a più riprese in tanti dei suoi racconti e che alcuni hanno messo in parallelo con l’indagine insieme autobiografica e sociologica di un autore come Didier Eribon. Anche per Eribon, forse in maniera più evidente, la questione della frattura di classe e della fuga appare centrale. Anche per Eribon, sebbene in maniera diversa, più labile e meno chiara, il libro può essere uno strumento di lotta, o almeno uno strumento di autocoscienza. Così è in Ritorno a Reims, così è pure in alcuni libri non tradotti in italiano:
E io fui, senza dubbio, un «transfugo» la cui preoccupazione, costante e più o meno cosciente, era di tenere a distanza la sua classe d’origine, scappare dall’ambiente sociale della sua infanzia e della sua adolescenza.
Ma se per Eribon la lotta si manifesta sul terreno della sociologia (e di un racconto che è insieme autobiografico e sociografico), il lavoro di Ernaux si articola esclusivamente sul terreno della letteratura. E la letteratura stessa può essere uno spazio in cui definire la lotta: attraverso il racconto di un aborto clandestino che si fa prima di tutto memoria organica, traccia materiale, di fronte alla vita e alla sua nudità (L’evento). Attraverso la scelta politicamente orientata di scrivere una «autobiografia impersonale», impersonale perché di tutti e di nessuno, capace di contenere una storia collettiva e di agire, in termini simbolici e politici, in una dimensione pienamente politica (come nel caso de Gli anni, che la stessa Ernaux definisce come «autobiografia impersonale»). Nella rappresentazione della scuola in quanto luogo dove si manifesta più che mai la disuguaglianza: «Una delle mie paure immaginarie, avere un padre maestro di scuola che mi obbligasse a parlare sempre come si deve, scandendo bene le parole sulla punta delle labbra. Noi parlavamo con tutta la bocca» (Il posto). Nel rappresentare la geografia di una città assoggettata alle pratiche del neocapitalismo che si innesta nella vita di ogni giorno (Regarde les lumières mon amour, come pure Journal du dehors, entrambi non ancora tradotti in italiano).
E così è anche per l’ultimo libro di Ernaux apparso in Italia, pubblicato a febbraio presso la casa editrice L’Orma, La donna gelata, ma uscito in Francia circa quarant’anni fa, nel 1981, sul limitare di un’epoca nella quale la forza del movimento femminista degli anni Settanta, cui Ernaux partecipa, si affievolisce.
Il movimento femminista sembra sia alle spalle, o almeno sembra si sia rarefatta la portata della sua densità teorica e politica, ma non si dissolvono le interrogazioni e la ricerca intorno alla condizione femminile, alle strutture patriarcali sulle quali si fonda la società, alla questione della «normatività» nella quale la soggettività narrante pare venire imbrigliata nel momento in cui accetta la prospettiva di una vita di coppia con un uomo.
La frattura di classe (e di genere) si produce sin da subito, nel momento in cui Ernaux ricostruisce il lignaggio delle donne della propria famiglia, che si frappongono alla tradizionale rappresentazione della femminilità, diverse dalle «donne fragili e vaporose» dei modelli normativi e borghesi:
Le donne della mia vita parlavano tutte a voce alta, avevano corpi trascurati, troppo grassi o troppo scialbi, dita ruvide, volti senza un filo di belletto o altrimenti truccati in modo esagerato, vistoso, con grandi chiazze rosse sulle guance e sulle labbra. Le loro competenze culinarie non si spingevano oltre il coniglio in umido e un colloso budino di riso, non sospettavano nemmeno che la polvere andasse tolta tutti i giorni, avevano lavorato o lavoravano nei campi, in fabbrica, nei negozietti aperti da mattina a sera.
Il lavoro di scavo effettuato sulla propria infanzia è già di per sé un atto politico: politico perché ha come obiettivo quello di decostruire una narrazione già prestabilita della propria femminilità e della propria infanzia femminile. In quest’ottica, la famiglia, nel suo essere anticonformista e diversa dalle altre, proprio perché non impostata su una modello patriarcale (ma in cui il padre svolge i ruoli tipicamente femminili), rappresenta uno spazio problematico, che crea un cortocircuito nel momento in cui si produce un confronto sociale con gli altri, oltre che con gli apparati ideologici dello stato: «Il mio, di padre, la mattina non esce, e se è per questo nemmeno il pomeriggio. Resta a casa. Sta al bancone del caffè-drogheria, lava i piatti, cucina, sbuccia le verdure».
Il femminismo di Ernaux è rintracciabile in molte delle sue narrazioni ma questo testo è forse quello più attraversato da una prospettiva almeno obliquamente femminista, un femminismo che non si innesta in una particolare prospettiva teorica (anche se in quegli anni si registra una messe di elaborazioni da Monique Wittig a Hélène Cixous, da Carla Lonzi a Christine Delphy, oltre all’essenziale recupero militante di Simone de Beauvoir), ma che si definisce su un piano pratico, nella realtà dei legami familiari, nella vita di ogni giorno, nell’amarezza che genera la presa di coscienza della propria condizione di donna imbrigliata in una storia d’amore normativa e borghese, innestata su riti e pratiche difficili da scalfire:
A un passo dal confine, soltanto a un passo. Presto avrò uno di quei volti segnati, patetici, che osservo con orrore dal parrucchiere, quando giacciono riversi, gli occhi chiusi, durante lo shampoo. Quanti anni mancano, al confine delle rughe che non si possono più nascondere, dei cedimenti?
Sono già io, quel volto.
Possiamo considerare la scrittura di Ernaux come un oggetto contundente per la sua capacità manifesta di creare un nuovo linguaggio, scarnificare e polverizzare la realtà, mostrandola nella propria nudità: una scrittura che non sostituisce l’impegno diretto, ma che si fa contronarrazione e diventa strumento di lotta.
E il campo letterario è lo spazio su cui tracciare i contorni questa lotta. Inutile ripiegare la letteratura su un piano «politico» o civile; essa, per riprendere la dichiarazione di un’autrice italiana, può essere piuttosto pensata come reato: di lesa maestà o di sedizione, «reato di aggiunta e mutamento» come scrive Anna Maria Ortese. In ogni caso, reato di nitida e feroce opposizione al potere e ai suoi rappresentanti, alla società nella sua attuale configurazione, alla dominazione del maschile e del capitale, al classismo costitutivo del pacifico mondo occidentale.
*Jessy Simonini è dottorando in Letteratura francese e insegnante all’Università di Nantes.
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