Biden paga l’appoggio incondizionato a Israele
Non bisogna dimenticare il precedente di Lyndon B. Johnson: le catastrofi in politica estera possono minare l’agenda interna e mettere a repentaglio le prospettive di rielezione di un presidente
A metà del 1965, il presidente Lyndon B. Johnson diede il via al più vasto programma di riforme interne dai tempi del New Deal di Franklin D. Roosevelt. Mentre lo portava a termine, però, commise un grave errore. Johnson firmava una nuova legislazione che promuoveva i diritti civili, riduceva la povertà e istituiva Medicare, ma aumentava drammaticamente il coinvolgimento militare degli Stati uniti in Vietnam nell’errata convinzione che le cose fatte lo avrebbero garantito politicamente e gli avrebbero permesso di mantenere il sostegno necessario per ottenere la rielezione e continuare a perseguire il suo programma.
La colpa più grande di Johnson, ovviamente, non fu solo un errore di calcolo politico. Se l’escalation del massacro in Vietnam avesse in qualche modo aiutato la sua rielezione o rafforzato la Great society, sarebbe stato comunque moralmente indifendibile. Ma, come si è scoperto, la decisione di Johnson non aiutò né la sua agenda interna né le sue prospettive elettorali. I democratici subirono una sconfitta nelle elezioni di metà mandato del 1966, perdendo quarantasette seggi alla Camera e tre al Senato: uno sviluppo che diede potere ai repubblicani e ai dixiecrat del sud [secessionisti democratici a favore del suprematismo, Ndr] anche se i democratici mantennero la maggioranza formale. Nel 1969, con le sfide crescenti e la guerra sempre più impopolare, il presidente stesso fu infine costretto a non ricandidarsi.
La guerra, nel frattempo, indebolì sia l’energia politica necessaria che le risorse materiali della Great society. Quando Martin Luther King Jr nell’aprile del 1967 tenne un appassionato discorso denunciando il conflitto come una «spirale demoniaca e distruttiva» che aveva sottratto «uomini, competenze e denaro» ai bisogni umani negli Usa, non stava solo rilasciando una potente dichiarazione di censura morale ma riconosceva una realtà materiale fondamentale.
Non dovremmo sopravvalutare le similitudini tra la presidenza di Johnson negli anni Sessanta e quella di Joe Biden oggi – non esistono due guerre esattamente uguali e, sebbene seriamente compromessi dal Vietnam, i risultati politici interni di Johnson superano di gran lunga quelli raggiunti da Biden – ma ci sono alcuni inconfondibili paralleli. Anche prima dell’attacco di Hamas al sud di Israele il mese scorso e dell’incessante bombardamento di Gaza da parte di quest’ultimo, Biden si trovava di fronte a sondaggi mediocri e dubbi sempre più espliciti all’interno del Partito democratico riguardo alle sue prospettive nel 2024.
Nelle settimane successive, tuttavia, le cose sono peggiorate visibilmente. L’ultimo sondaggio mostra che Donald Trump supera Biden in cinque stati chiave del duello (Georgia, Nevada, Arizona, Michigan e Pennsylvania) e il presidente si trova in vantaggio a malapena in uno (Wisconsin). Altrettanto significativa è la frattura all’interno della coalizione elettorale di Biden per il 2020 suggerita dai sondaggi. Tre anni fa, gli afroamericani sostenevano Biden con un enorme margine del 78%: oggi quel margine è solo del 49%. Sta inoltre perdendo notevole sostegno da parte degli arabo-americani e dei minori di trent’anni, il suo indice di gradimento è sceso di ben undici punti tra i democratici solo nell’ultimo mese.
Il costante sostegno di Biden al brutale bombardamento di Gaza da parte di Israele non è l’unica ragione per cui i suoi sondaggi sono negativi, ma il recente crollo del suo indice di gradimento – e altri sondaggi che mostrano un forte sostegno pubblico a un cessate il fuoco – suggeriscono che sia un fattore determinante. E mentre la sua posizione zelante è chiaramente nata da una convinzione così come da un calcolo politico, quest’ultimo ha ovviamente giocato un ruolo fondamentale (come indicato da un commento emblematico di un membro del team di Biden, che ha detto alla Nbc che la posizione del presidente stava chiaramente suscitando una reazione politica, «ma immaginate la reazione da molti altri se non ci fossimo schierati con forza con Israele»).
In ogni elezione presidenziale a memoria d’uomo, i democratici hanno insistito sul fatto che sconfiggere il candidato repubblicano è un compito imperativo al punto che tutte le altre considerazioni devono essere messe da parte. Questa convinzione è sincera, ma è difficile conciliarsi con l’idea che Biden debba candidarsi alla rielezione sulla scia dei recenti eventi. Nell’ultimo mese, la gestione da parte di Biden della guerra di Israele a Gaza ha rappresentato una vergogna morale. È stata controproducente anche per evitare un secondo mandato di Trump. E comunque si valutino i risultati interni della presidenza Biden, è evidente che anche questi sono stati messi in pericolo.
Qualunque calcolo politico possa aver preso in considerazione Biden nella decisione di offrire sostegno incondizionato all’attacco israeliano a Gaza, è evidentemente sbagliato. E in misura catastrofica.
*Luke Savage è redattore di JacobinMag, da cui è tratto questo articolo. La traduzione è a cura della redazione.
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