Capitalismo fuori controllo
Dopo aver indagato l'uso ordoliberale dello Stato, Quinn Slobodian si occupa dell'uso neoliberale della sua dissoluzione: i due processi solo all’apparenza sono in contraddizione
Stiamo vivendo un momento di profonde trasformazioni: da quelle tecnologiche a quelle geopolitiche. Dentro un mondo che cambia a folle velocità la sfera economica sembra arrancare particolarmente, fatica a tenere il passo. Se una certa dose di ignoto caratterizza il cambiamento dei tempi, sul piano economico oggi l’incertezza diventa incomprensione della prospettiva che si ha di fronte. Finendo, almeno apparentemente, per esser sedotti dal già visto, riproponendo strade già intraprese. Anche recentemente e anche se già dimostratesi fallimentari.
Se da un lato il ritorno della geopolitica e del ruolo degli stati implica un recupero di interventismo sul piano economico, sebbene con un’impostazione lontana dal keynesismo, dall’altro fa nuovamente capolino una certa fascinazione per un liberismo che lascia fare, senza interferenze. Nel piccolo, questa duplice dinamica la vediamo anche in Italia. L’attuale governo da un lato è nuovamente coinvolto per salvare le ex-acciaierie Ilva, per sottrarre un settore strategico come la siderurgia dai capricci di multinazionali troppo lontane dagli interessi nazionali, dall’altro avvia la vendita al fondo Kkr della rete fissa di Tim, cioè di un’altra infrastruttura strategica per il paese. Queste duplici e contestuali tendenze sembrano suggerire un progetto flessibile, che rasenta l’assenza di una strategia capace di scegliere coerentemente, di imboccare coscientemente una strada di fronte a un bivio.
Tali dilemmi non sono presenti unicamente nelle periferie dell’Impero, come potremmo pensare con un approccio un po’ lagnone e provinciale, ma attraversano paesi a tutte le latitudini. Quinn Slobodian, studioso del pensiero e delle pratiche neoliberali, nel suo ultimo libro, Il capitalismo della frammentazione, dà un utile contributo alla polarizzazione in corso. Precedentemente l’autore aveva messo l’accento in particolare sul pensiero ordoliberale della prima metà del ventesimo secolo, cioè quella variante che Slobodian correttamente aveva individuato come di maggiore attualità nel fronteggiare le aporie del capitalismo contemporaneo, capace di torcere lo Stato a difesa del mercato. Nel nuovo testo, invece, indaga un’altra opzione delle istanze neoliberali, quella di una forma anarchica e antistatale estrema. Dall’uso neoliberale dello Stato alla sua dissoluzione insomma. La contraddizione, però, è solo apparente e nelle conclusioni Slobodian la chiarisce.
L’autore elenca per ogni capitolo una serie di casi che evidenziano le tendenze verso un capitalismo della frammentazione. Si va da Hong Kong alla Londra della finanza, da Singapore al separatismo bianco post-apartheid in Sud Africa, dal Liechtenstein alle ambizioni neocoloniali e neoliberiste in Somalia, da Dubai alla Silicon Valley fino ad arrivare al Metaverso. Realtà concrete, esperimenti e progetti (alcuni quasi onirici). Elemento comune è aver metabolizzato che ormai la democrazia non sia più compatibile con la libertà, intesa nella sua unica dimensione di mercato e mercantilista. Da qui molteplici percorsi per destrutturare lo Stato, ipotizzando anche una sua molteplice diffusione sino a giungere alla costruzione di un pulviscolo di mini Stati liberi (non uguali) e in competizione tra loro. Già oggi l’autore sottolinea come le nazioni siano formate da «insoliti spazi legali, territori anomali e giurisdizioni peculiari. Ci sono città-Stato, “paradisi”, enclavi, porti franchi, parchi high tech, distretti extradoganali e hub per l’innovazione». Zone economiche speciali, zone industriali per l’esportazione, zone di libero scambio. Le dimensioni variano da quelle di una fabbrica o di un magazzino a un sito per lo stoccaggio fino a megaprogetti urbani o poco più. Tutti fondati su «micro-ordinamenti» finalizzati a impadronirsi dello Stato per scomporlo.
La tesi di fondo di questo pensiero neoliberale è piuttosto ardita. A partire dal secondo dopoguerra, in fondo, il capitalismo ha perso, gli stati socialdemocratici sono ripartiti da dove si sono fermati quelli comunisti, con il progressivo aumento di spesa pubblica e il confinamento dell’agibilità di mercato e capitale. Si tratta di ribaltare questa tendenza, sostituendo i circa duecento Stati esistenti con una molteplicità di organismi conformi alla supercompetizione. Senza intralci democratici e sovrastrutturali, alla «ricerca del contenitore ideale per il capitalismo». Un esperimento globale di secessione con al centro l’arte degli affari, con il suo portato di opacità, bilateralità occulta, impossibile da controllare se non da una tecnocrazia fondata sui principi estremi del libero mercato. Un capitalismo fuori controllo, in tutti i sensi.
Il libro prende le mosse proprio da Hong Kong, considerata da Milton Friedman il suo paradiso capitalista. Un’isola galleggiante, libera dai dettati democratici sia quando era sotto il controllo britannico sia ora sotto il Partito comunista cinese. Non a caso la comunità degli affari locali e il Pcc condividono con Friedman «un’evidente preferenza per la libertà economica a scapito di quella politica». Così nel passaggio di consegne sono stati confermati il segreto bancario, deboli leggi sul lavoro, garanzie nell’applicazione dei contratti e valuta stabile. Hong Kong è stata accolta e assorbita senza particolari problemi in una Cina popolare già suddivisa in zone ed enclavi che da tempo avevano costituito le sue fortune. Quello che l’autore definisce un «esperimento di idraulica capitalista» fatto di un numero crescente di regimi d’eccezione adiacenti alla norma socialista, a partire dalla costruzione di Shenzhen e del suo enorme mercato fondiario che consentì «uno dei più grandi trasferimenti di ricchezza pubblica in mano privata».
Questa compartimentazione del mondo in zone speciali che si contendono l’accoglienza di capitali e investimenti è pratica diffusa a qualsiasi latitudine. Slobodian evidenzia come non solo la Cina ha sfruttato al suo interno tale zonizzazione: ambizioni paragonabili le troviamo non solo nei paradisi fiscali o a Singapore, ma nell’agglomerato finanziario della nuova Londra post-Brexit, in Liechtenstein o nella Silicon Valley. Cioè al centro del capitalismo maturo.
Negli stessi Usa vi sono tensioni sempre meno sopite per costruire dei regimi fiscali concorrenti tra i singoli Stati. Insomma una tendenza in via di diffusione che non fa più distinzione tra manifatturiero, servizi, marketing e alta finanza. Tra mente e braccio operativo. Un rimescolamento che è persino geopolitico. Dove il confine tra tradizioni e culture, tra occidente e oriente, diventa più labile, se si considera tutto nell’ottica della valorizzazione del capitale. Questo processo conduce a una sperimentazione di «governo privato» dove «il capitalismo non democratico è il marchio vincente». Il presidente del Mises Institute (think tank neoliberale) dopo la pandemia ha affermato che «A Singapore le cose funzionano. A Dubai le cose funzionano […] Se è vero che in Occidente stiamo diventando sempre più autoritari si può essere autoritari senza che niente funzioni oppure autoritari facendo funzionare le cose». Ecco allora individuare nell’autoritarismo e in un regime post-democratico non il declino di una civiltà, ma il porsi al servizio del capitale in una prospettiva non desueta, all’altezza dei nostri tempi.
Il libro di Slobodian sembra in qualche misura contraddire quello precedente mettendo l’accento su questa variante neoliberale che potremmo definire utopica. Senza lo Stato, qualunque Stato. Ma nelle conclusioni l’autore spiega come, contrariamente alla retorica libertariana, queste zone in via di affermazione nel mondo non finiscano per essere delle isole di liberazione dallo Stato. Piuttosto «gli Stati le usano come strumenti per perseguire i loro scopi». Cioè queste zone «non stanno trasformando il mondo in un patchwork con un migliaio di entità politiche private in competizione dinamica tra loro. Stanno rafforzando la posizione di una manciata di superpotenze capitaliste di Stato». Cioè quel che prevale, in una visione d’insieme, non sono quei casi studiati singolarmente, per quanto istruttivi, ma una loro diffusione sotto l’ombrello statuale, in particolare di quelle entità statuali più forti. Ed ecco allora ricomporre quanto descritto dentro il quadro geopolitico in via di affermazione. Il problema semmai sarà come coniugare interessi geostrategici locali o macroregionali e mondializzazione finora conosciuta. La Cina, nonostante la sua zonizzazione, non si sgretola e, probabilmente, nonostante la tendenza alla zonizzazione prevalga anche negli Stati uniti, la disgregazione non ci sarà neppure lì.
Come sottolinea Slobodian «i bravi capitalisti sanno che il gioco vero è impadronirsi dello Stato esistente, non sobbarcarsi la scocciatura di crearne uno nuovo». Impadronirsene per trasformarlo in base alle esigenze del capitale. Cambiargli i connotati per diffondere un regime superconcorrenziale, dove i cittadini non possano contare politicamente, ma solo come consumatori. Come afferma Giorgia Serughetti in una recente pubblicazione «dopo la fine della ‘società’ è venuto il tempo delle ‘piccole società’» le quali, aggiungo, nel capitalismo della frammentazione trovano un inquietante dimensione. In questo senso gli esperimenti utilmente descritti da Slobodian nel loro generalizzarsi potrebbero assumere la valenza di apripista per nuovi rapporti politici e istituzionali dove il primato torna inequivocabilmente all’economia. Al peggio non c’è mai fine.
*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
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