Come costruire coalizioni intersezionali
Sappiamo quanto i conflitti interni indeboliscono i movimenti, fanno arretrare le lotte e rendono più vulnerabili alla repressione. Per formare alleanze intersezionali efficaci occorre saper lavorare sui minimi comuni denominatori
Il tema delle alleanze intersezionali e trans-community è stato già introdotto in due contributi – il primo riguarda l’esperienza di autoformazione e la risoluzione dei conflitti tra diverse «nazioni» e gruppi socialmente oppressi all’interno del carcere di Soledad; il secondo va alle radici di quella prospettiva, alle pratiche tradizionali di costruzione delle mediazioni necessarie interne alle comunità indigene. Le strutture indigene che consolidano le relazioni di alleanza come la Longhouse, le tecnologie tradizionali di mediazione come la «disputa costruttiva», le forme di risoluzione dei conflitti interni, la teoria/pratica della «transcommunality» interpellano il nostro attivismo e ci aiutano ad affrontare e risolvere i conflitti nei nostri ambiti.
Pensiamo alla necessità di passare, come insegna John Brown Childs, «da una politica della conversione a un’etica del rispetto» ovvero da una modalità suprematista, fondata sulla volontà di convincere l’altra del fatto che noi abbiamo ragione – che è una modalità maschile e molto bianca di prevalere sull’altra – a una valorizzazione delle differenze, necessaria nel coalition building. Non ci si può aspettare omogeneità in una coalizione di forze diverse e per costruire cooperazione vanno creati presupposti di curiosità e apertura a idee e pratiche inconsuete, difformi rispetto alle nostre. Questo atteggiamento è fondamentale per garantire la democrazia interna.
Qui è d’obbligo il confronto con le proposte di Abdullah Öcalan, leader curdo, detenuto illegalmente in Turchia da 22 anni. Öcalan oggi, come a suo tempo Antonio Gramsci, scrive dal carcere pagine importantissime (Oltre lo stato, il potere e la violenza, Edizioni Punto Rosso 2016) proponendo forme di democrazia diretta, il Confederalismo democratico, inter-etnico ed inter-religioso, il superamento della maschilità tossica, la leadership delle donne, l’ecologia sociale e produttiva. Così come le tecnologie indigene di coesistenza pacifica nei gruppi e fra gruppi nascono o si rafforzano in opposizione al colonialismo, durante il genocidio, la pratica del Confederalismo democratico nasce nelle difficoltà della diaspora curda, in un campo profughi particolarmente vessato – quello di Makhmur ai confini tra Iraq e Siria. Del resto anche le prassi di Transcommunalismo si affermano nelle celle di prigioni altamente segregate, tra relazioni brutali e interazioni di sopraffazione.
Spesso è vista come ostacolo la territorialità dei vari gruppi – le varie identità politiche o culturali – l’identificazione con un percorso, una lingua, un luogo, valori, idee e pratiche spesso difese strenuamente. Ma la ricerca di minimi comuni denominatori, o di una linea mediana, così come l’approccio trans-communalista e trans-etnico, non auspicano la distruzione di ogni barriera identitaria, anzi è legittimo e utile che esistano anche dei confini tra i gruppi che lavorano insieme. In altre parole, non si persegue l’omogeneità, come nel pensiero occidentale della «conversione» – che dalla sfera religiosa nei secoli ha investito quella politica, anche rivoluzionaria – ma si cerca la fruttuosa coesistenza, l’impollinazione reciproca e la lotta unitaria verso obiettivi comuni. Non possiamo desiderare di cancellare le differenze in nome di una obbligatoria unità (che può imporsi in contesti di ricatto o manipolazione), ma trovare forme dell’agire comune che abbiano la forza vera di tutte le componenti.
Il pensiero nomade e l’ermeneutica zingara ci insegnano come predisporci all’apertura verso l’alterità – verso tutto ciò che consideriamo diverso da noi. L’atteggiamento migliore, sostiene la femminista gitana Violeta Vajda, è quello di pensare sempre che l’altra o altro possa avere ragione. «Per prepararci al fatto che l’altro abbia ragione, l’ermeneutica recupera la nozione di pregiudizio dalla sua connotazione corrente peggiorativa […] Quindi il pregiudizio nelle scienze sociali non è più considerato un ostacolo, invece diventa semplicemente il punto di inizio di ogni dialogo, qualcosa che viene liberamente riconosciuto e facilmente sfidato attraverso l’arte di fare domande e restare aperte a nuovi stimoli» (in Laura Corradi, Il femminismo delle zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis 2018)
Un’altra modalità utile nelle alleanze intersezionali, trans-etniche, trans-community, e nella costruzione di coalizioni nei movimenti è operare sui minimi comuni denominatori concentrando l’attenzione e lavorando politicamente su ciò che ci unisce anziché insistere su ciò che ci divide – ovvero cercando mediazioni costruttive. In tal modo si possono costruire alleanze senza precedenti. Qui voglio ricordarne tre a cui ho preso parte durante gli anni Novanta.
La prima alleanza di successo coinvolse le lobby di donne statunitensi impegnate sulla questione del cancro al seno (politicamente moderate e disposte ad abbracciare le spiegazioni dei genetisti sulla «predisposizione individuale») e movimenti radical di donne contro le cause di cancro, ambientaliste, popolazioni indigene, comunità nere, e contadini e contadine immigrate che vivevano in baracche, nei campi innaffiati da pesticidi via elicottero. L’alleanza tra queste differenti forze sociali – con gradi diversi di organizzazione politica – riuscì a sfondare la cortina di silenzio attorno all’epidemia di cancro, alle sue cause ambientali e a ridurre lo stigma genetico/individualizzante che tale malattia ancora comportava (Laura Corradi, Nuove Amazzoni. Il movimento delle donne americane contro il cancro, Deriveapprodi 2004).
Un’altra vittoria fu conquistata dalla «Coalition to Save Mumia Abu-Jamal» che si proponeva di salvare un militante ex-black panther dalla pena di morte. Vi fu una lunga diatriba durante la scelta del nome: la parte più radical della coalizione, a cui appartenevo, avrebbe preferito che si trattasse di una Coalition to Free Mumia Abu-Jamal, ovvero per liberarlo, anziché trasferirlo dal braccio della morte a un altro reparto penitenziario. Ma la data dell’iniezione letale nei confronti del prigioniero nero si avvicinava e fu chiaro che il minimo comune denominatore tra le decine di associazioni era la volontà di salvargli la vita – avremmo pensato successivamente alla sua liberazione. Tale unità di intenti nella campagna garantì la vittoria e contro molte aspettative si riuscì in extremis, nel luglio 1995, a ottenere dal giudice uno stay of execution – ovvero la sospensione della pena capitale. Mumia non venne ucciso e ancora vive e, nonostante le precarie condizioni di salute, oggi è studente di dottorato alla University of California in Santa Cruz.
Un’altra conquista legale collettiva alla fine degli anni Novanta fu ottenuta dalla «Coalition for Bio-integrity», un organismo ombrello di movimenti contro gli Ogm che raccoglieva moltissime organizzazioni e associazioni di vari orientamenti politici, religiosi, sociali, etnici, che intentarono una causa contro la Food and Drug Administration (Fda) che aveva sdoganato nel decennio precedente sementi e cibi transgenici. La sentenza mise in luce che tale organismo di controllo, lontano dal preoccuparsi della salute di cittadini e cittadine, in quegli anni agiva sotto una direttiva della Casa Bianca per promuovere le produzioni geneticamente modificate – per cui 40mila pagine di studi prodotti dagli stessi scienziati e scienziate della Fda erano stati secretati dal governo. I giudici condannarono l’Amministrazione a pubblicare i risultati delle ricerche, che vennero resi disponibili in un ipertesto sul sito della Coalizione per la Bio-integrità, dando impulso a un movimento anti-Ogm globale.
Si tratta di esempi concreti di alleanze intersezionali, trans-community e coalizioni sociali che talvolta aggregano diversità difficili da conciliare. In tali contesti è opportuno poter contare su un impianto di facilitazione degli incontri, report condivisi e una tavola o ambito per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti che emergono. Un’usanza che nel nostro paese non si è ancora affermata: mancando i criteri di accountability personale mancano anche procedure di critica e autocritica da innescare di fronte a comportamenti irresponsabili, antidemocratici, aggressivi o violenti nei confronti di compagni e compagne appartenenti al proprio gruppo, altri gruppi e/o persone alleate.
Le alleanze intersezionali spingono i movimenti all’autoriflessione, alla constatazione della situatezza di conoscenze e consuetudini, li aprono a una democrazia più profonda. Negli scambi conoscitivi, le pratiche legate all’auto-posizionamento includono l’ammissione dei propri privilegi di genere, classe, etnia, colore, religione, orientamento sessuale, di età, abilità e geopolitici. Come la femminista rom Alexandra Oprea ci insegna «È solo riconoscendo il nostro privilegio, che si tratti di privilegio bianco, privilegio maschile, privilegio di classe, privilegio della pelle chiara, privilegio eterosessuale, che possiamo sfidare le relazioni gerarchiche. È essenziale che gli attivisti riconoscano il loro privilegio maschile come primo passo per contrastare il patriarcato». Nei nostri movimenti persistono elementi di sessismo, classismo, razzismo, anti-ziganismo, omofobia, binarismo, eurocentrismo, pensiero coloniale, giovanilismo, narcisismo, leaderismo e l’adesione irriflessa a valori di competizione, prevaricazione, supremazia/egemonia: la volontà di prevalere è molto diffusa e rilevabile anche in ambiti femministi. Spesso non esiste nemmeno la consapevolezza di come tali caratteristiche rappresentino un problema – che cozza contro quelli che sono i nostri ideali espliciti di democrazia diretta, uguaglianza nella differenza, libertà e giustizia. Il divario tra pratiche discorsive e comportamenti reali è un ostacolo alla nostra credibilità e alla tessitura di alleanze, piattaforme comuni e coalizioni.
Se la costruzione di nuove alleanze intersezionali, trans-community e transnazionali rappresenta una sfida, nel nostro attivismo e nell’azione politica, anche il mantenimento di un’armonia – nei movimenti femministi, ecologisti, antirazzisti come in quelli Lgbtq o nei sindacati di base – è una prova a cui non possiamo sottrarci in questi tempi. Pensiamo ad esempio alle fratture nell’area femminista su questioni quali la Gravidanza per altri (Gpa), la prostituzione, le identità di genere non binarie o libere soggettività. La costruzione di momenti di dibattito approfondito dove si confrontano pacificamente diverse esperienze e opinioni politiche, pratiche non divisive, alleanze sugli obiettivi, possono darsi solo nella comune volontà di «fare fronte» a un futuro che avanza e che non sta andando nella direzione da noi auspicata. La proposta di creare «mediane femministe» per esempio, richiede l’impegno di tutte le parti coinvolte nel lavoro di risoluzione anche «geometrico», di approssimazione, che può essere utile in prima istanza per uscire da un impasse che dura da troppo tempo e che sta cristallizzando i conflitti in maniera anacronistica e auto lesiva per il movimento femminista nel suo insieme (Laura Corradi, Conflitti sulle tecnologie riproduttive, mediane femministe e cause dell’infertilità di massa, Angeli 2019).
Che i conflitti interni – personali, politici, di ogni tipo – vadano a detrimento di tutti e tutte nei movimenti è cosa nota, tolgono energia, allontanano le persone, fanno arretrare le lotte, rendono particolarmente vulnerabili alla repressione, e sul lungo termine non premiano nemmeno coloro che dai conflitti pensano di trarre vantaggi immediati. I movimenti non sono obbligati a scegliere tra istituzionalizzazione e ghettizzazione. Come scrive John Brown Childs non si può scegliere tra un’integrazione – che molto richiama l’integralismo dei più forti (La straniera, Alegre 2009) – e la ghettizzazione. Nella Treccani tra i sinonimi di «ghettizzazione» si trova proprio «integrazione», che nel linguaggio comune è usato maldestramente come alternativa a «emarginazione» ma anche ad «assimilazione», oppure «inclusione», altra parola top-down molto in voga, mentre le espressioni orizzontali come «interazione», «coesistenza», «convivenza», «cooperazione» vengono neglette anche in taluni discorsi «rivoluzionari».
Non possiamo pensare che si possa fondare l’azione politica solo sulla resistenza a ciò che non vogliamo: come ribadisce John Brown Childs
La costruzione di alleanze è un esempio importante di ciò che chiamo «Trans-communalità». La cooperazione trans-community non richiede che le comunità e le organizzazioni rinuncino alla loro agenda e priorità. Come menzionato, lontano dall’essere un approccio che appiattisce le differenze o che uniforma il consenso, quello della trans-community deve il suo successo a gruppi che cooperano avendo solide radici nelle proprie comunità, con culture e prospettive distinte. Questo è anche il modo per superare la legge dividi et impera che segue linee razziali e storicamente separa coloro che hanno tanto in comune (John Brown Childs, “The New Youth Peace Movement: Creating Broad Strategies for Community Renaissance in the United States” in Social Justice, Winter 1997, Vol. 24, N. 4)
Intervistandolo sul tema della pace John Brown Childs mi ha risposto:
Certo io sono d’accordo con lo slogan «No justice, no peace». Ma la mia premessa trans-communalista è che se non c’è pace nelle comunità e tra le comunità, allora la lotta stessa per la giustizia è compromessa. Gli uomini nel carcere di Soledad sono simboli importanti della cooperazione trans-communale tra le diverse comunità e le loro parole hanno un grande peso positivo nelle strade. L’incredibile Black Lives Matter Movement fondato da donne leader forti e innovative è, io credo, un eccezionale esempio della pace all’interno e fra le comunità che ha attraversato le barriere delle etnie e delle nazioni (intervista personale).
Mentre termino di scrivere questo articolo ricevo tra le mail una «Dichiarazione Congiunta di una parte dell’‘Europa dal basso’ e dell’Ezln» indirizzato ai popoli del mondo, e anche a noi che lottiamo nel vecchio continente. Già dall’incipit di questo documento politico, le comunità indigene zapatiste, le cui delegazioni verranno quest’estate in Europa, affermano che al nostro interno ci sono le differenze e le cose che ci uniscono, pochissime ma preziosissime. Mentre stigmatizzano ogni volontà di appianare le diversità o di esercitare egemonia, emerge forte e chiara nel documento la necessità di lotte intersezionali, di alleanze. Vorrei concludere proprio citando un passaggio di questo documento, che completa quanto scritto finora sull’approccio trans-community: «Ogni pretesa di omogeneità ed egemonia minaccia l’essenza dell’essere umano: la libertà. L’uguaglianza dell’umanità è nel rispetto della differenza».
*Laura Corradi è una ricercatrice eco-femminista, antirazzista e queer, impegnata nei movimenti per la salute e per le culture indigene e nomadi. Ex- operaia e Traveller, Docente di Studi di Genere e Metodo Intersezionale è autrice di numerosi libri e articoli (vedi bodypolitics.noblog.org).
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