
Conte, Renzi e la crisi del centrosinistra che non c’è
Seppur priva di contenuti, l'offensiva di Renzi ha un obiettivo: far saltare il nuovo centrosinistra nato sull'asse Pd-M5S. Ma l'alleanza di governo è debole perché le mancano le basi sociali e politiche anche per una banale politica riformista
Va in crisi il governo Conte II, dopo il ritiro della delegazione di Italia Viva. Il destino dell’esecutivo andrà verificato martedì in senato, dove si prepara il soccorso di un gruppo di parlamentari autodefinitisi «costruttori». Matteo Renzi cambia ogni giorno versione sulle ragioni della crisi, che in fondo ha un solo obiettivo: far saltare la costruzione di un nuovo centrosinistra sull’asse tra Pd e M5S, per aprire spazi al progetto liberal-centrista alla Macron che l’ex sindaco di Firenze e una parte dell’establishment economico e mediatico sognano. Una crisi di governo in piena pandemia, dalle motivazioni tutte di palazzo, e che potrebbe risolversi con il soccorso bianco di Clemente Mastella e Paola Binetti, è l’ennesima dimostrazione della distanza abissale che separa politica e società. Qualsiasi soluzione, del resto, sia che Conte salti e venga sostituito da qualcuno più gradito a Renzi e magari a Berlusconi o addirittura a Salvini, sia che ce la faccia con la formazione di un nuovo gruppo a suo sostegno, vedrà uno spostamento a destra dell’asse dell’esecutivo.
Intorno alla crisi economica del 2007-08 si è aperta una grande frattura democratica, per accidente della storia a interpretarla in Italia sono stati i Cinque stelle, ora da una parte loro non ce l’hanno fatta, dall’altra c’è un establishment politico e mediatico che tuttora si rifiuta di fare i conti con quella frattura e crede si possa governare con «i migliori» senza misurarsi mai con il consenso e con i brutti e cattivi che lo raccolgono. Ma la debolezza del governo Conte non dipende da Matteo Renzi o dall’ostilità dell’establishment, bensì dall’inconsistenza della sua stessa prospettiva di compromesso riformista. Il governo prova a mantenere nel palazzo un equilibrio che nel frattempo non si dà nella società, se non sotto la pressione dell’emergenza
L’offensiva centrista e il «governo dei migliori»
Per Matteo Renzi un mese fa il problema era il ruolo della task force di esperti nominata da Conte nella gestione del Recovery Plan, poi ridimensionato. Successivamente la discussione si è spostata sui contenuti del Recovery Plan stesso, prontamente emendati. La settimana scorsa si è arrivati a mettere al centro della discussione l’inserimento nello stesso Recovery Plan del ponte sullo Stretto di Messina, proposta che poi Renzi ha negato di aver mai fatto. Nella conferenza stampa di mercoledì scorso, l’unico tema rimasto sul tavolo era la richiesta di accedere ai fondi del Mes sanitario. Una proposta a cui non crede più nessuno: in un contesto in cui il debito pubblico italiano, nel 2020, è cresciuto di 194 miliardi di euro, peraltro a interessi tenuti bassissimi dalla Bce, e si attendono gli ulteriori 209 miliardi di Next Generation EU, pensare di sottoscrivere particolari condizionalità per 36 miliardi di prestito è una cosa che non passa per la mente a nessun governo europeo.
Eppure, pur mancando le motivazioni di merito, è superficiale sostenere che questa crisi sia inspiegabile e incomprensibile. L’obiettivo è chiaro, palese, e per capirlo basta leggere gli editoriali dei maggiori quotidiani che da settimane fanno da coro greco all’offensiva di Italia Viva: il problema è Giuseppe Conte. Non certo per la figura dell’avvocato pugliese in sé, un cattolico moderato abile e ben inserito, ben lontano dal Chávez foggiano che molti dipingono. Ma perché Giuseppe Conte rappresenta il tentativo di costruire in Italia un nuovo centrosinistra basato sull’alleanza organica tra il Partito Democratico e il Movimento Cinque Stelle. Un disegno tutt’altro che rivoluzionario e, come vedremo, tutt’altro che compiuto, ma apertamente osteggiato da parti importanti dell’establishment di questo paese.
Il Movimento Cinque Stelle non è mai stato e non sarà mai una forza di sinistra, e neanche un’autentica forza popolare progressista. È un partito figlio dell’antiberlusconismo e che di esso riflette tutti i difetti, compresa la confusione ideologica, i tic autoritari e l’allergia a qualsiasi prospettiva di classe. Ma le caratteristiche populiste del M5S, il suo tentativo, per quanto raffazzonato e contraddittorio, di portare nella politica italiana alcuni temi e sentimenti popolari alternativi alle logiche del neoliberismo e dell’austerità, sono comunque sufficienti a far venire l’orticaria a parecchi negli ambienti che contano. Atti come il reddito di cittadinanza o la parziale e temporanea nazionalizzazione di Autostrade, che su Jacobin Italia abbiamo segnalato come pienamente interni alle compatibilità del mercato, sono risultati indigesti a molti, così come il veto del M5S sul Mes l’estate scorsa, quando, a differenza di ora, molti ancora ci pensavano, o come il blocco della produzione (pur parziale) ottenuto dai lavoratori e dalle lavoratrici a marzo durante la prima ondata della pandemia di Covid-19.
C’è stata, nella storia recente del nostro paese, una fase in cui l’élite economica ha creduto di poter governare direttamente a proprio piacimento, senza doversi curare del consenso popolare e senza dover passare attraverso alcun mediatore politico che si occupasse appunto di negoziare politicamente tra quel consenso e le politiche dettate dal pilota automatico neoliberista, come aveva fatto Silvio Berlusconi fino al 2011. Il risultato è stata l’esplosione del M5S alle elezioni 2013, seguito dal trionfo di marzo 2018. Il populismo grillino si proponeva di rivitalizzare la democrazia, reimmettere nella rappresentanza l’elemento non rappresentato, ridemocratizzare la governance. Una scommessa il cui fallimento è reso evidente dalla crisi ormai strutturale del M5S, e che del resto era condannata in partenza dalle stesse ambiguità che ne hanno decretato il successo.
Esiste, però, una parte di questo paese, di cui Renzi è solo la punta dell’iceberg, che continua, esattamente come ai tempi di Mario Monti e dei suoi epigoni, a rifiutare di misurarsi con quei segmenti della società italiana, con i sentimenti e i temi che il M5S ha interpretato, con il bisogno di rappresentanza della maggioranza di italiani che non si ritrova nei dogmi del pilota automatico neoliberista. Reddito, welfare, intervento pubblico nell’economia, protezione sociale: temi che la pandemia ha fatto crescere di rilevanza e con cui tuttora l’élite economica e mediatica rifiuta di misurarsi.
Lo si vede perfettamente nella quantità di commenti, anche autorevoli, di questi giorni che, nella ricostruzione degli scenari della crisi, rimuovono completamente l’esistenza del M5S, partito tuttora di maggioranza relativa in quanto vincitore delle elezioni del 2018. Fioccano gli attacchi al segretario Pd Nicola Zingaretti reo di sostenere un presidente del consiglio come Giuseppe Conte, come se l’indicazione del presidente del consiglio spettasse automaticamente al Pd, che alle elezioni prese il 18% e che da allora ha anche subito una pesante scissione in parlamento. Renzi continua a proporre come base di ragionamento per un nuovo governo il Mes, in un parlamento in cui le forze teoricamente favorevoli al Mes (Pd, Iv e Forza italia) rappresentano poco più del 30%. Sui social girano appelli a mandare al governo i «competenti» guidati da Carlo Cottarelli, senza ricordare che quando, a marzo 2018, il presidente della Repubblica Mattarella gli diede l’incarico di formare il governo, nessun partito in parlamento diede la disponibilità a sostenerlo. Dopo aver rimosso per cinque anni l’exploit grillino delle elezioni 2013, fingendo che il 25% preso allora dal Pd fosse un mandato pieno per i governi Letta e Renzi (per poi cadere dalle nuvole di fronte alla sconfitta referendaria del 2016), ora stanno provando a fare lo stesso con il risultato delle elezioni del 2018. Carlo Calenda, che ha spesso il merito di dire chiaramente ciò che il resto dell’establishment liberista pensa, in questi giorni ha parlato esplicitamente della necessità di un «governo dei migliori»: in greco, si tradurrebbe letteralmente «aristocrazia».
Riemerge, nell’élite di questo paese, la tentazione di liberarsi di tutti i mediatori politici, anche quelli ben poco scomodi come Giuseppe Conte, e governare direttamente l’Italia, in particolare nei mesi in cui si deciderà la destinazione dei famosi 209 miliardi in arrivo dall’Ue per la ripresa economica. Ciò si riflette direttamente negli obiettivi politici di Matteo Renzi: ben consapevole che nel nuovo bipolarismo emerso negli ultimi due anni, quello tra il nuovo centrosinistra Pd-M5S e la nuova destra Salvini-Meloni-Berlusconi per lui non c’è spazio, l’ex sindaco di Firenze prova a far saltare la prima delle due coalizioni, prendendo di mira l’uomo che ne garantisce la tenuta, l’avvocato Conte. In questo modo, spera di riaprire lo spazio per un progetto politico liberal-centrista sul modello proposto da Emmanuel Macron in Francia, su cui magari attrarre nel tempo anche un Pd liberato dall’alleanza con i grillini e, perché no, Forza Italia, in una proposta di governo tecnocratica ed europeista alternativa al duo sovranista Salvini-Meloni.
L’ineffabile avvocato cattolico Giuseppe Conte, già presidente del consiglio del governo che sequestrava bambini e malati sulle navi al largo delle nostre coste, rappresenta oggi un ostacolo a questo progetto, attraverso il tentativo, condiviso con il segretario del Pd Nicola Zingaretti e con la piccola pattuglia parlamentare di Liberi e uguali (Leu), di ricostruire un’ipotesi di governo riformista di centrosinistra, qualsiasi cosa questa parola significhi oggi.
Conte, Zingaretti e il compromesso che non c’è
Se però un partitino a cui i sondaggi più generosi attribuiscono il 3% come Italia Viva è in grado di mettere in crisi questo tentativo di nuovo centrosinistra, vuol dire che è ben lungi dall’essere riuscito. Al di là delle dinamiche parlamentari, che oggi attribuiscono a Renzi un peso smisurato rispetto al suo effettivo consenso nel paese e magari martedì offriranno ad altri l’opportunità di fare da scialuppa di salvataggio al governo, il problema è l’assenza di basi sociali e prospettive politiche per l’alleanza tra Pd e M5S.
La pandemia ha restituito rilevanza ai temi del welfare, dell’intervento pubblico in economia e in generale della protezione sociale: com’è che allora ciò non si traduce in un consenso sociale talmente solido nei confronti del centrosinistra da rendere suicida per Renzi o per chiunque altro provare a farlo cadere? Se Renzi sta sabotando un’opzione politica che restituirebbe prospettive di miglioramento delle proprie condizioni materiali ai ceti popolari, dove sono le manifestazioni di massa in difesa del governo Conte?
In realtà, il governo Conte è percepito come «di sinistra», o comunque come un efficace baluardo contro una nuova offensiva neoliberista, molto più dai suoi oppositori che dai settori sociali che di questo baluardo dovrebbero beneficiare. La legge sul salario minimo, che tanti malumori genera nel mondo dell’impresa, è ancora impantanata in parlamento, con la stessa ministra del lavoro Nunzia Catalfo a rischio di perdere il posto in un eventuale rimpasto. Le potenzialità redistributive offerte dall’allentamento della disciplina di bilancio in tempi di pandemia sono state disperse in una pletora di piccoli bonus, in alcuni casi anche utili ma che mancano dell’impatto sia materiale sia simbolico necessario. E la stessa gestione della seconda ondata ha visto una subalternità evidente del governo a Confindustria, con norme di distanziamento sociale che si sono concentrate in maniera pesante sulla sfera del tempo libero e sulla socialità, risparmiando quasi completamente i luoghi di lavoro e buona parte dei consumi. Per non parlare delle tante scelte fatte a metà e delle occasioni perse, dalla scuola alla sanità agli ammortizzatori sociali. O della bocciatura della pur moderatissima proposta di Leu sulla patrimoniale.
Non è un caso se in un’intervista alla Stampa il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, non certo pregiudizialmente critico nei confronti di questo governo, ha definito «pessima e inadeguata» la prima bozza del Recovery Plan, chiedendo «più investimenti e meno incentivi» e di mettere al centro dei programmi per la ripresa qualità del lavoro, sostenibilità ambientale, riforma del fisco.
Il centrosinistra è l’opzione politica del compromesso, di un patto interclassista tra interessi sociali diversi che trovano una convergenza in nome di una prospettiva politica comune. Quale sia oggi la prospettiva politica che Conte, Di Maio e Zingaretti propongono non è affatto chiaro, come non è chiaro il blocco sociale che intendono costruire intorno a essa. Del resto, un compromesso tra chi? Sia il Pd sia il M5S sono pressoché privi di legami organici con le organizzazioni di classe, che faticano tremendamente a vedere i propri temi entrare nell’agenda del governo, mentre dall’altra parte vasti segmenti dell’élite economica, non disposti a partecipare ad alcun tipo di mediazione, si sono messi direttamente all’opposizione, e sono comunque consapevoli di poter imporre la propria agenda nei momenti chiave, a prescindere da chi sia a Palazzo Chigi. Il governo Conte, insomma, sembra rappresentare politicamente un compromesso di cui nel frattempo nella società non si vede l’ombra, tra segmenti produttivi ben più dispersi e articolati che in passato.
Se una parte maggioritaria della società italiana, in particolare quella più sensibile, in parte per necessità materiale in parte per tradizione culturale, al bisogno di protezione sociale, si è riconosciuta nel governo, è stato solo sotto la pressione della pandemia, e solo di fronte all’alternativa spaventosa di una gestione dell’emergenza Covid-19 in mano a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ma non è su queste basi che si costruisce una proposta politica solida e di prospettiva. Anzi, come abbiamo visto anche in queste settimane negli Stati uniti, identificare nella difesa dell’ordine democratico costituzionale una parte politica che non offre alcuna prospettiva a vasti strati della società, rischia di creare ulteriore risentimento contro quell’ordine democratico costituzionale, nutrendo le fila della peggior destra.
Del resto, c’è davvero una distanza così abissale tra il Pd di Zingaretti e quello di Renzi, quando le facce più riconoscibili del nuovo Pd, i due presidenti democratici che hanno difeso Emilia-Romagna e Toscana dall’offensiva leghista, sono Stefano Bonaccini ed Eugenio Giani, entrambi ex pasdaran dello stesso Renzi? E se il governo sopravvivesse alla prova parlamentare di martedì, e si liberasse quindi dell’influenza nefasta di Matteo Renzi, la sua agenda ne gioverebbe? Se Renzi ha rappresentato l’apice della svolta blairiana nel centrosinistra italiano, quella svolta non è certo iniziata con lui, né è finita con Zingaretti.
Non è che manca il coraggio per la svolta politica radicale che piacerebbe a Jacobin Italia, mancano proprio le basi sociali e la sostanza politica per un banale centrosinistra riformista, che su queste pagine criticheremmo ma che quantomeno potrebbe offrire spazi di intervento e vertenzialità a sindacato e movimenti. Se da destra arriva la sfida di Matteo Renzi e del liberismo alla Macron, da sinistra dovrebbe arrivare una sfida sul piano della lotta alle disuguaglianze, della redistribuzione fiscale, della questione salariale, della riduzione dell’orario di lavoro, della conversione ecologica, del welfare universale.
Perché ciò accadesse, in ogni caso, ci sarebbe bisogno di un protagonismo delle forze sociali che la pandemia rende difficile ma non impossibile. Se recentemente il presidente Usa in pectore Joe Biden ha sostenuto pubblicamente la necessità di stabilire un salario minimo nazionale di 15 dollari l’ora, ciò non si deve a una sua improvvisa conversione a sinistra, ma a quasi un decennio di battaglie di sindacati e movimenti intorno allo slogan Fight for 15, a cui le campagne presidenziali di Bernie Sanders hanno fatto da potente megafono.
La sinistra, oggi, in Italia, non ha un ruolo nella crisi di governo: può dedicarsi al commento da maratona televisiva, magari dividendosi tra chi pone maggiormente l’accento sulla moderazione e subalternità del governo Conte e chi sul carattere liberista e di svolta a destra dell’offensiva di Renzi, come se una cosa escludesse l’altra. Oppure può provare a rilanciare sul piano dell’organizzazione e della mobilitazione nella società, della costruzione di coalizioni ampie intorno a temi riconoscibili e d’impatto, della sfida concreta al neoliberismo sul piano del miglioramento della vita delle persone.
Raramente una crisi di governo è stata così totalmente di palazzo e lontana dalla concretezza di ciò che si muove nella società. Sta alla società stessa, e in particolare alle sue parti più attive, battere un colpo e far irrompere temi, bisogni e desideri sul palcoscenico della politica.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).
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