Destrutturazione dei tempi di vita nel “fast capitalism”
Il nuovo contratto della “distribuzione moderna organizzata” riduce i tempi di vita dei lavoratori di pari passo con quelli di consegna delle merci, di produzione e di consumo
Nel dicembre 2018 i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il nuovo contratto della Distribuzione Moderna Organizzata (Dmo) con Federdistribuzione, federazione delle aziende uscite nel 2012 da Confcommercio. Il nuovo contratto prevede qualche minimo aumento salariale, ma soprattutto introduce una maggiore flessibilità temporale: l’orario lavorativo prevede oggi la possibilità di un massimo di 44 ore settimanali, invece di 40, per 16 settimane all’anno, nei periodi di maggiore fatturato e quindi durante quelle che per il resto della società sono chiamate “le feste”. La contrattazione aziendale potrà persino derogare a questo tetto massimo e arrivare a 48 ore settimanali, in cambio di un maggior numero di permessi retribuiti, ovviamente se e quando consentiti dalle aziende a lavoratori e lavoratrici. Addetti e addette che comunque non potranno scegliere se lavorare la domenica o i festivi. La maggiorazione salariale oraria per il lavoro festivo e domenicale resta del 30%. I sindacati confederali hanno però ottenuto finanziamenti agli enti bilaterali (organismi privati paritetici senza scopo di lucro, istituite per legge nel 2003 e costituiti da sindacati e organizzazioni datoriali, che offrono servizi di assistenza al lavoro e alle imprese) dai datori di lavoro, e questo era il motivo per cui inizialmente aveva firmato l’accordo solo Confcommercio e non Federdistribuzione. Poi anche quest’ultima ha acconsentito al rinnovo contrattuale, che, come abbiamo visto, sancisce una maggior deregolamentazione dei tempi di lavoro, che sconfinano così ancor più nei tempi sociali e di vita.
Interpretando questi fatti alla luce di un’impostazione teorica critica, tutto questo non ci desta nessuna sorpresa. Oggi i settori della distribuzione, del commercio, dei servizi al cliente e al consumatore, stanno mutando. La trasformazione ha conseguenze anche sociali e culturali. I tempi di consegna delle merci stanno cambiando, di pari passo con quelli di produzione e di consumo. Un prodotto viene costruito, assemblato, inviato, spedito, venduto, gettato via, riacquistato sotto altra forma in veste di “ultimo modello”, in tempi sempre più stretti. È il “fast capitalism”, capitalismo veloce (termine coniato dal professor Ben Agger, fondatore dell’omonima rivista, oggi diretta dal professor Timothy Luke). Anche i tempi di chi lavora, donne e uomini, mutano di pari passo. Di certo, non sono mutati in meglio le condizioni contrattuali, il diritto del lavoro, i livelli salariali e in generale la regolamentazione sui tempi, gli orari e i giorni di lavoro. La distribuzione ad esempio viene definita “distribuzione moderna organizzata”, Dmo, ma l’unico cambiamento rilevante nel benessere di lavoratori e lavoratrici è stato un peggioramento: i tempi di lavoro sono sempre più ampi, i ritmi sempre più veloci, e il cottimo è tornato di moda.
Nel commercio, alcune aziende firmano contratti nazionali e altre no, alcune rientrano in Confcommercio e altre in Federdistribuzione, le compagnie multinazionali in Italia decidono ognuna per sé. Turismo e ristorazione sono altri settori in cui non vengono rispettate le normative del lavoro, pagati straordinari, segnate le effettive ore di lavoro. Le normative stesse ormai non regolano quasi nulla. Il benessere sociale, che è definito anche dal diritto del lavoro e dalla qualità del lavoro, che è a sua volta anche qualità della vita, non è tenuto in considerazione, se non nei termini di profitti di chi già possiede le risorse e le ricchezze, i capitali, a livello sia economico che culturale. Siamo di fronte a un processo di mercificazione, contrazione e decostruzione dei tempi e dei ritmi di vita, un’accelerazione che è sempre aumentata, giungendo nella contemporaneità al profilarsi di un fenomeno che potremmo chiamare di immediatizzazione dell’azione umana e dei suoi stessi fini. Un processo che è causa di estraniamento, solitudine, difficoltà dell’attore sociale ad agire nella e sulla società. La struttura economica e sociale crea una frammentazione dei tempi e ritmi sempre più serrati, con conseguenze sulle vite di chi lavora e anche di chi consuma, quindi di tutti coloro che lavorano per produrre o distribuire merce e/o consumano e acquistano merce. Nell’epoca attuale del neoliberismo, della deregulation e del lasseiz faire, la cosiddetta longa manus del mercato ha superato di gran lunga la ratio che sottostava all’idea stessa di modernità e industrializzazione, che avrebbe dovuto, secondo i teorici del capitalismo avanzato, avere come fine un certo “benessere sociale”, seppur nei fatti individualizzato. È come se la gabbia d’acciaio della razionalizzazione – che comprende quantificazione e valorizzazione, messa a valore e mercificazione, frammentazione e destrutturazione delle relazioni umane, sociali – avesse compresso non solo lo spazio ma il tempo. A differenza dei teorici del capitalismo, che il tempo fosse una variabile dirimente nella produzione e distribuzione qualcuno l’aveva sottolineato. Non solo globalizzazione, ma immediatizzazione: fine dell’azione, non solo economica, diviene la gratificazione istantanea, soddisfazione immediata, che si risolve nella merce, non certo il benessere sociale, che è intrinsecamente collettivo, sovraindividuale.
Karl Marx ha ben mostrato in passato come il lavoro sia per l’operaio non uno scopo, ma il mezzo per raggiungere un obiettivo, il salario, per assicurarsi i mezzi di sussistenza. L’attività che occupa la sua vita non è un fine in sé. Ma così facendo, anche la vita stessa diviene un mezzo, poiché il lavoro è quell’attività che svolge per la maggior parte del tempo, anzi spesso a parte per quanto riguarda il tempo impiegato per la sua stessa riproduzione, per mangiare, bere, dormire, riprodursi, il tempo di lavoro è il suo tempo di vita, essi coincidono. In Lavoro salariato e capitale, raccolta di articoli pubblicati nel 1849, Marx scrive, riferendosi all’operaio: «egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae in miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario. (…) La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto». In questo passo è chiaramente espresso il concetto marxiano di alienazione, ampiamente argomentato nei giovanili Manoscritti economico-filosofici del 1844, pubblicati solo nel 1932: «L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci». E ancora: «L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, al lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea».
Cos’è questa espropriazione, questa alienazione, se non un’espropriazione di tempo? Il concetto marxiano di alienazione nelle sue diverse sfaccettature ci aiuta a comprendere la necessità dell’essere umano di tempo per poter essere, ci aiuta a capire quanto l’assenza di tempo – di vita, di riflessione, tempo proprio – possa rendere impossibile avere una coscienza, e impossibile essere umani in quanto tali. Marx ed Engels ci offrono uno spaccato del lavoro operaio al tempo della fabbrica accentrata e della catena di montaggio, descrivendo con vivo realismo la struttura sociale e le conseguenze sulla percezione di sé del lavoratore operaio: la sua incapacità di coscienza, di essere umano in sé e per sé. Marx scrive: «Come nella religione, l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé. Ne viene quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più ancora l’abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale».
L’essere umano smette di essere umano, diventa “bestia” perché viene espropriato del suo stesso lavoro, dell’oggetto del suo lavoro, la merce, e si tramuta così in merce-lavoro. In altri termini, l’essere umano si svilisce e perde le sue proprie facoltà e qualità umane nel momento in cui non possiede tempo per se stesso, in cui il suo tempo viene venduto per ricevere in cambio il denaro: il tempo viene oggettivato, reificato, e poi espropriato e alienato, in cambio del salario.
L’enorme contributo di Marx ed Engels all’analisi dei fenomeni sociali risiede nella loro capacità di cogliere la condizione storica propria del capitalismo e dei rapporti sociali determinati dal valore, e come vedremo nessuno studioso e nessun ricercatore potrà prescindere dal loro studio della condizione dell’operaio salariato e del rapporto tra capitale e lavoro, poiché ancora oggi, seppur il contesto occidentale sia interessato da un processo di graduale relativa deindustrializzazione, vediamo come lo sviluppo del capitalismo mostri proprio quegli stessi principi di espansione spaziale e contrazione temporale, tradotta in produttività e flessibilità, che questi autori hanno delineato già nella seconda metà dell’Ottocento, prima che il sistema di produzione capitalistico venisse regolato, prima che venissero limitate le sue conseguenze sulla vita sociale, da parte di quelle stesse istituzioni politiche e sindacali che vediamo oggi divenire sempre più prone alla finanza globale e che vengono sempre più depotenziate in nome della deregulation, deregolamentazione neoliberista, utile solo alla massimizzazione dei profitti.
Che fare quindi? Di certo non abbiamo una soluzione fast in tasca. Altrettanto certamente la risposta, per una società più giusta ed equa, non risiede nel lavorare di più e lavorare in pochi. Perché questo significa che altri restano disoccupati, allargando le fila dell’esercito industriale di riserva, contribuendo alla paura reale di tutti i lavoratori e lavoratrici, vera causa dell’insicurezza, che provoca il consenso dato al “meno peggio” e che genera il cancro sociale del “bisogna solo ringraziare di avere un lavoro”. L’unico modo perché una società possa almeno tentare di avere come fine il benessere è promuovere il rispetto dei diritti di chi lavora, della vita altrui, del tempo altrui, del riposo altrui, e stimolare la riflessione, l’analisi, il pensiero critico. Di certo non possiamo accontentarci della mera gratificazione per le briciole del consumo, rappresentate dai miseri aumenti salariali previsti dal nuovo contratto della cosiddetta Distribuzione “Moderna” Organizzata. Briciole utili solo a giustificare l’ennesimo attacco ai tempi di vita di chi lavora e ad accrescere i profitti delle aziende, spesso ormai compagnie multinazionali parte delle reti globali del valore e dello sfruttamento umano e ambientale.
*Annalisa Dordoni PhD in Sociologa applicata e metodologia della ricerca sociale, è Assegnista di ricerca presso l’Università di Trento. Esperta di processi economici e culturali, mondo del lavoro e questioni di genere. È socia fondatrice della libreria e associazione culturale Les Mots di Milano.
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