
«Eco-socialismo o morte»
Il portavoce della rete Cooperation Jackson, che si batte per l’economia solidale e dal basso nel Mississippi, ragiona del Green New Deal, della necessità di una disobbedienza civile di massa e di un movimento internazionale
Il Green New Deal (Gnd) è ormai entrato nel dibattito nazionale. Anche se, per decenni, i movimenti sociali hanno portato avanti in maniera capillare un’azione di resistenza al capitalismo a combustibili fossili, e hanno saputo immaginare futuri differenti. Mobilitazioni sociali di questo genere – piccole ma diffuse – sono fondamentali per rendere il Gnd un catalizzatore di cambiamento sociale.
In questo senso, Cooperation Jackson è all’avanguardia nell’organizzare un movimento eco-socialista per la creazione di una nuova società e di una nuova economia dal basso verso l’alto. Cooperation Jackson è una rete di lavoratori e cooperative, che supporta le istituzioni che combattono per costruire un’economia solidale in Mississippi e oltre. La redazione di Jacobin ha parlato del Green New Deal con Kali Akuno, cofondatore e direttore esecutivo di Cooperation Jackson, oltre che coeditor di Jackson Rising: The Struggle for Economic Democracy and Black Self-Determination in Jackson, Ms.
In questa lunga intervista abbiamo discusso dei possibili collegamenti fra le azioni locali di eco-socialismo, la costruzione di un movimento nazionale e l’orientamento internazionalista, delle tattiche e strategie di interazione sul piano elettorale volte a radicalizzare il Gnd – e di molto altro ancora. Nel corso della chiacchierata, Akuno ha tracciato la lunga storia dell’attivismo per la giustizia ambientale negli Stati uniti e in tutto il mondo, e ci ha fornito alcuni strumenti chiave per capire come andare avanti – rapidamente – per dare vita a un movimento militante e di massa che salvi il pianeta.
Siamo in un momento politico molto particolare, c’è molta eccitazione per il Gnd da parte della sinistra emergente interna al Partito democratico, ma anche forti resistenze dei centristi che nel partito hanno ancora molto potere – come abbiamo visto col tentativo di Nancy Pelosi di indebolire il comitato ristretto sul Gnd. È possibile rapportarsi in maniera strategica con i diversi attori politici e i gruppi di potere? Guardando al 2020, quali prospettive si aprono per il Gnd, e quanto radicali?
La risposta è l’organizzazione. Dobbiamo organizzare una base forte e indipendente, per avanzare il programma di transizione [a un’economia ecologica, Ndt] di cui abbiamo bisogno, che sia il Green New Deal o qualcosa di simile. Altrimenti un tema centrale come il clima resterà ostaggio di forze – nella variante repubblicana o democratica non ha importanza – che cercano di mantenere il sistema capitalistico e i suoi interessi così come sono. E abbiamo bisogno di costruire una base del genere per portare avanti due strategie in una volta.
Primo, dobbiamo organizzare una base di massa nella working class, concentrandoci soprattutto sull’aspetto lavorativo di una transizione economica generale. Dobbiamo articolare un programma che affronti concretamente la necessità di classe di creazione di posti di lavoro e redditi stabili, a breve e medio termine, unendo questa necessità all’espansione delle cosiddette industrie “green” e allo sviluppo di nuovi settori, come la fabbricazione digitale e quella che chiamiamo produzione comunitaria, che renderebbe possibile una transizione completa sia a livello energetico che di consumi. Per fare ciò dovremo prima di tutto avere un movimento sociale che guardi al momento elettorale in maniera tattica e non fine a sé stessa.
Da parte nostra, una delle iniziative critiche di cui stiamo discutendo come Cooperation Jackson è quella di sviluppare un’alleanza larga, una sorta di “sindacato cooperativo”, che provi a tenere insieme le tre forme di organizzazione del lavoro in questo paese – e cioè i sindacati, gli spazi comunitari, e le cooperative – sulla base di un programma che ci piace chiamare build and fight, “costruisci e combatti”. L’idea è quella – per quanto riguarda il versante della costruzione – di dare vita una nuova forma di industria, posseduta e autogestita da lavoratori e lavoratrici, fondata su metodi di produzione sostenibili. Allo stesso tempo, pensiamo di dare vita a diversi esperimenti di appropriazione delle industrie esistenti da parte dei lavoratori, per agevolarne la transizione a pratiche sostenibili o eliminarle totalmente se necessario – e questo per quanto riguarda il versante della lotta. Pensiamo che siano strumenti utili a costruire l’indipendenza necessaria per dettare i termini della lotta politica nell’arena elettorale.
La seconda strategia fa appello alla disobbedienza civile di massa, così come l’abbiamo vista a Standing Rock. Dobbiamo riconoscere che le forze neo-liberali e reazionarie al cuore del Partito democratico sono solo parte del problema. Il nemico principale sono e saranno le multinazionali petrolchimiche. Dobbiamo indebolire la loro capacità di estrarre il petrolio, e ciò comporta fermare le nuove trivellazioni e i nuovi piani produttivi. È un atto fondamentale, perché indebolirà il potere – soprattutto quello finanziario – che è al cuore della loro capacità di influenzare la politica. Se riusciamo a spezzare questo meccanismo, non ci dovremo più preoccupare dei centristi.
Cooperation Jackson è un progetto locale, come molti dei progetti più eccitanti e innovativi comparsi recentemente. È probabile che il Green New Deal stanzi molti fondi da spendere a livello locale. La storia degli Stati uniti, compreso il New Deal, presenta vari esempi di istituzioni locali che difendono diseguaglianze e privilegi dall’intervento federale, mentre quella che W. E. B. Dubois chiamava la “democrazia abolizionista” richiederebbe un forte sostegno federale. Che ne pensi del ruolo della decentralizzazione e del governo federale nel Green New Deal, soprattutto nei primi anni?
Cooperation Jackson è un progetto situato localmente, come hai detto, ma noi ci vediamo come parte di un movimento internazionale, o meglio, di più movimenti internazionali. Lo dico perché non penso che le risposte a queste domande siano locali o nazionali; sono necessariamente globali. Dobbiamo smettere di stendere tappeti rossi al cambiamento climatico e alla sesta estinzione di massa che stiamo attualmente vivendo, e per farlo dobbiamo costruire un movimento internazionale. Non c’è una vera alternativa.
Una delle ragioni per le quali dobbiamo costruire un potente movimento internazionale è quella di fortificare i rispettivi movimenti nazionali, regionali e locali contro le minacce reazionarie e i contro-movimenti che sicuramente esistono in tutti gli Usa, ma che in posti come il Mississippi risultano particolarmente compatti. Per esempio, da un punto di vista pratico, essere in connessione con un ventaglio di forze internazionali ci aiuta a dare copertura al nostro lavoro qui a Jackson. Possiamo esercitare vari tipi di pressione sulle forze reazionarie locali, le cui minacce costanti possono essere mitigate (a vari livelli) da atti di risposta economica e politica portati avanti dai nostri alleati internazionali (e nazionali).
Se il Green New Deal diventasse legge, e se fosse effettivamente ancorato a politiche di trasformazione radicale, sarebbe un contributo importante per contrastare la crisi climatica e allo stesso tempo trasformare le pratiche energetiche e di consumo statunitensi, specialmente quelle del governo, che è uno dei maggiori attori inquinanti del pianeta. Tuttavia, perché il Green New Deal sia efficace nelle sue articolazioni, dovrà essere estremamente attento a tenere presenti le diseguaglianze di razza e classe che sono al cuore della questione.
Per esempio, oltre che di una trasformazione radicale del governo del Mississippi – e della società, noi qui a Jackson avremmo bisogno di stabilire un rapporto diretto con il governo federale per assicurarci l’accesso alle risorse promesse dal Green New Deal. Nelle condizioni attuali, se queste risorse venissero allocate a livello di governo statale, stai pur certo che Jackson ne riceverebbe solo una piccola parte – o anche nulla. La ragione principale sta nelle intersezioni strutturali tra colonialismo, capitalismo, e suprematismo bianco che continuano a definire gli Stati uniti come progetto di nazione.
E dunque, per essere efficace, il Green New Deal non può avere un orientamento monolitico – ad esempio, preoccuparsi soltanto di ridurre le emissioni di carbone, senza prendere in considerazione le diseguaglianze regionali e di genere, razza e classe che sono parte integrante della nostra società.
Cooperation Jackson sta lavorando sul modello delle cooperative agricole. Che ruolo dovrebbe avere nel Gnd il movimento per la sovranità alimentare, in termini di metodi di produzione alimentare?
Una parte rilevante della sesta estinzione è rappresentata dalla rapida perdita di varietà di habitat, a cui è corrisposta la distruzione ecologica di innumerevoli specie negli ultimi duecento anni. Dobbiamo assolutamente capire – insisto – come ridurre drasticamente l’utilizzo del nostro habitat in senso lato (cioè la terra) e intraprendere un massiccio processo di restaurazione ecologica.
La sfida consiste nel capire come produrre più cibo, sfruttando meno terra, senza ricorrere a modificazioni genetiche. Secondo me non l’abbiamo ancora capito. Nemmeno lontanamente. Credo che la permacultura guardi nella giusta direzione, così come per certi versi l’agricoltura su piccola scala, almeno per rompere il fortino di monopoli che abbiamo oggi. Credo anche che dovremo aumentare la densità urbana, e in maniera equa e significativa, per poter permettere a più habitat di essere recuperati ad altre specie e per restaurare l’equilibrio ecologico e permettere al suolo di riprendersi: tutte cose sulle quali il carbone incide moltissimo. Per farlo dobbiamo modificare gli spazi urbani e renderli “fattorie viventi”, adatte a soddisfare i nostri bisogni calorici.
Il Green New Deal dovrà affrontare questa sfida a testa alta e lasciare ampio margine alla sperimentazione, una sperimentazione che rompa intenzionalmente il potere dei monopoli e crei nuovi incentivi per una produzione non orientata o legata al profitto.
Sei stato molto lucido nell’individuare il problema del produttivismo implicito in molte delle proposte del Green New Deal. Alcuni di noi hanno provato ad affrontare questo problema enfatizzando altri tipi di lavoro, come il lavoro di cura. Un’altra idea ancora è quella di riconvertire una grossa fetta della forza lavoro con lavori part-time, ridistribuendo così il carico di lavoro attuale in maniera più equa. Quali sono le modalità con cui credi che dovremmo strutturare il lavoro per non riprodurre le politiche produttiviste capitaliste e/o socialiste?
La sinistra è a favore di un aumento della qualità della vita della working class – gli oppressi – e dell’umanità in generale. Per ottenere questo risultato un’ampia redistribuzione del lavoro è un passo necessario, senza dubbio, e non solo è la direzione giusta, ma fondamentale. Tuttavia, una redistribuzione di questo tipo deve combinarsi con forme di scambio solidale che migliorino la qualità della vita della maggioranza dell’umanità. È un contesto in cui cose come una banca del tempo a livello di massa potrebbero tornare utili. Così come un’ampliamento generale di ciò che è considerato comune.
Secondo me, è necessario integrare quanto detto con misure di transizione, come il reddito di base universale. Dico “di transizione” perché istituire un reddito universale senza socializzare i mezzi di produzione servirebbe soltanto a riprodurre la logica capitalista di accumulazione e le relazioni diseguali necessarie alla sua riproduzione.
In fin dei conti, penso che dovremmo sviluppare un progetto di sistema, inclusivo e democratico, che distribuisca equamente i beni e i servizi necessari a tutti e tutte per vivere e prosperare. E, per essere chiari, non sto invocando il ritorno alle economie centralizzate e al capitalismo di stato del Ventesimo secolo, ma la socializzazione democratica delle economie di scambio emergenti information-based, e l’utilizzo di tecnologie innovative per creare un’economia rigenerativa.
Questo comporterà, almeno nella sua fase iniziale, diverse regole e diversi limiti, per far sì che gli scambi siano all’interno dei limiti scientifici e sociali correlati con l’estrazione delle risorse e l’utilizzo energetico, finché non diventeranno la norma – e saranno necessarie diverse generazioni per disfare la centenaria consunzione generata e promossa dal tardo capitalismo.
Hai fatto riferimento alla leadership indigena nella battaglia contro i gasdotti in posti come Standing Rock e hai suggerito che abbiamo bisogno di «estendere la portata delle nostre campagne contro le compagnie petrolifere», anche attraverso azioni dirette. Altri hanno proposto di nazionalizzare o chiudere le compagnie petrolifere e le società del gas. Cosa vuol dire espandere la lotta contro le compagnie di combustibili fossili? Quali strade possiamo intraprendere per abbattere industrie così incredibilmente ricche e potenti?
Come ho detto, il tipo di azione diretta a cui abbiamo assistito a Standing Rock è esattamente quello che dobbiamo replicare. La marcia della morte che le compagnie petrolchimiche ci stanno costringendo a fare non ci lascia nessun’altra alternativa.
Ci sono alcuni passaggi fondamentali che dobbiamo fare prima di raggiungere il livello di un’azione diretta di massa su base stabile. Dobbiamo impegnarci molto di più per far comprendere alla maggioranza delle persone tanto la portata della crisi quanto la nostra capacità collettiva di fare qualcosa al riguardo. Dobbiamo conquistare cuori e menti; e dobbiamo sconfiggere l’idea che il capitalismo non possa essere sconfitto. Certo, non sarà facile, ma non è un sistema immutabile.
Le forze della reazione stanno facendo tutto quanto in loro potere per rendere esplicitamente illegali le azioni dirette a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni. La loro brutalità non farà che aumentare. Standing Rock dovrebbe avercelo insegnato. Siamo arrivati all’ora fatale: eco-socialismo o morte. Dobbiamo essere molto chiari su cosa faremo per eliminare il sistema corrente.
Questo tipo di sensibilizzazione deve precedere opzioni come la nazionalizzazione, vista come mezzo per liquidare il capitalismo a combustibili fossili. Questo non significa che non dobbiamo iniziare a parlarne o non usarla come fattore motivazionale, ma dobbiamo essere realistici e dirci che serviranno milioni di persone che agiscono all’unisono l’una con l’altra per rendere questa opzione una realtà concreta.
Sei un attivista del movimento per la giustizia ambientale da tanto tempo. Che lezione hai imparato dal tuo lavoro? Quali strategie e quali alleanze sono state più efficaci? Cosa possiamo imparare dalle persone che combattono queste battaglie?
Ad essere onesti, per rispondere a questa domanda ci vorrebbe un libro. Lasciatemi aggiustare un po’ il tiro. È arrivato il momento di apprezzare le intuizioni di gruppi come Earth First!. In termini di sviluppo del movimento sociale, erano un’avanguardia. La nostra sfida oggi è capire come estendere la loro influenza e farlo in un piccolissimo lasso di tempo – nel giro di cinque anni, perché ci restano circa dieci anni per raddrizzare le cose.
Dobbiamo rivalutare le differenze di risultati tra i movimenti ecologicamente orientati degli anni Sessanta e Settanta e quelli degli anni Novanta fino a oggi. Non è un caso che le legislazioni più significative da un punto di vista ambientale degli Usa, come l’Endangered Species Act, la costruzione dell’Environmental Protection Agency, il Clean Ari Act, siano state emanate negli anni Sessanta e Settanta – e nientedimeno che da Richard Nixon! Queste leggi passarono grazie alla forza e alla militanza dei movimenti sociali dell’epoca, che rappresentavano una concreta minaccia per il sistema.
I movimenti ecologici dagli anni Novanta fino a oggi non hanno beneficiato della vicinanza ad altri movimenti forti e presenti su più livelli, portati avanti dagli oppressi e dalla working class. Senza un ciclo di lotte a cui appoggiarsi, le battaglie contro il razzismo ambientale e per la giustizia climatica si sono rivolte al lobbismo per ottenere risultati. Cosa che a sua volta ha costretto questi movimenti ad affidarsi a “bravi politici”, invece di creare le condizioni per costringere il sistema a una risposta – o qualcosa di simile. Dobbiamo costruire movimenti che abbiano le dimensioni, la chiarezza, la forza e la determinazione per essere una minaccia concreta.
L’internazionalismo è uno dei principi fondanti di Cooperation Jackson, e hai più volte enfatizzato l’importanza dell’internazionalismo soprattutto per le battaglie ambientali. Che aspetto dovrebbero avere le politiche internazionaliste del Gnd? E quali sono gli esempi politici – di eco-socialismo, di sistemi di transizione, di agricoltura sostenibile, cooperativismo, democrazia energetica, etc. – del Sud del mondo che trovi d’ispirazione o di incitamento? Come possono le persone di sinistra statunitensi entrare in contatto, imparare da e supportare questi progetti?
Un’altra domanda eccellente. Ecco quattro politiche importanti:
- 1. Politiche di creazione di istituzioni e meccanismi internazionali che lavorino direttamente con le persone indigene e le comunità delle regioni pluviali dell’Africa, dell’Asia, dei Caraibi, dell’America Latina, e dell’Oceania, al fine di interrompere le attività delle multinazionali nel campo dell’estrazione, del petrolchimico, dell’agricoltura, della pesca, e della ricerca medica. Queste politiche dovrebbero esplicitamente contrapporsi al programma Onu “Reducing Emissions through Deforestation and Forest Degradation in Developing Countries” (Redd); non per astio verso l’Onu, ma perché il loro programma è fondato su logiche neoliberiste e sulla reintroduzione di pratiche coloniali che minacciano di deportare milioni di persone indigene dalle loro terre.
- 2. Politiche che promuovano lo sviluppo di tecnologie open source per trasferire direttamente tecnologie e informazioni alle persone in tutto il mondo. Ciò renderebbe le comunità capaci di produrre localmente le tecnologie più innovative a basso o nullo impatto ambientale, eliminando la necessità del commercio su larga scala che non fa altro che aumentare l’inquinamento.
- 3. Politiche che mettano fine alle attività internazionali dei monopoli statunitensi nel campo dell’estrazione, del petrolchimico, dell’agricoltura, della pesca, e della ricerca medica. Ciò aprirebbe le porte alla produzione locale di beni e servizi essenziali quando e dove necessario, e metterebbe un freno ai regimi di estrazione e accumulazione che attualmente dominano il nostro pianeta.
- 4. Politiche che eliminino le imposizioni dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che negano la sovranità nazionale e locale, questione dirimente per l’introduzione di politiche che possano mitigare gli effetti del cambiamento climatico negli Usa e in Canada.
Sono tanti i progetti politici nel Sud del mondo che affrontano la crisi climatica e i numerosi argomenti che avete citato. Sono stato profondamente ispirato dai movimenti in Micronesia e nelle Maldive, che hanno messo il mondo davanti al dato ineludibile che le loro isole stanno letteralmente sparendo mentre ne parliamo. Le loro manifestazioni ambientaliste ai vari raduni internazionali – sia alle Nazioni Unite che altrove – hanno colpito al cuore e aperto gli occhi a molti. Sono pochi invece i progetti esplicitamente eco-socialisti, che io sappia. Secondo me i più sviluppati sono nel Sudafrica, in Venezuela e in Bolivia. In queste nazioni il problema del cambiamento climatico e della rigenerazione ecologica è incluso nelle agende nazionali.
E infine, è fondamentale per i movimenti qui nel Nord del mondo cercare attivamente connessioni con i movimenti nel Sud. Sotto molti aspetti, i movimenti del Sud sono molto più avanzati di quelli del Nord, specialmente in termini di consapevolezza politica, sviluppo organizzativo, adesione e base sociale. Tuttavia, quello che molti dei movimenti del Sud del mondo non possiedono sono le risorse che abbiamo a disposizione noi al Nord – e non intendo soltanto risorse finanziarie, ma infrastrutture di diverso tipo, come l’accesso diffuso all’elettricità e ai servizi di telecomunicazione.
Nell’immaginare una nuova internazionale, dobbiamo pensare strategicamente a come utilizzare al meglio i nostri rispettivi punti di forza per superare le nostre rispettive debolezze. Dobbiamo appoggiarci alle capacità organizzative e politiche dei nostri compagni e delle nostre compagne nel Sud del mondo, adattandole ai nostri rispettivi contesti e a tutte le battaglie sociali che portiamo avanti, mentre allo stesso tempo cerchiamo di capire come condividere i nostri fattori di forza, fosse anche semplicemente fornendo più risorse e l’accesso ai media per parlare, agire e comunicare le loro lotte a tutto il mondo.
*Kali Akuno è cofondatore e direttore esecutivo di Cooperation Jackson, oltre che coeditor di Jackson Rising: The Struggle for Economic Democracy and Black Self-Determination in Jackson, Ms. Questo testo è uscito su Jacobinmag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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