Un Green New Deal per l’abitare
Il Green New Deal è un piano di riforme proposto da Alexandria Ocasio-Cortez per combattere il cambiamento climatico. Ma la giustizia economica e ambientale passa per un'edilizia popolare, pubblica e carbon-free
Quando Alexandria Ocasio-Cortez ha partecipato alle primarie democratiche contro il candidato in carica Joe Crowley, sul suo sito internet campeggiava il Green New Deal. Ma i punti di forza del suo programma erano il costo delle case, la gentrificazione, e i legami di Crowley con gli immobiliaristi. Ora sta provando a unire il problema ecologico e quello abitativo nella nuova proposta di legge del Green New Deal. Fino a qui tutto bene. Ma la proposta fa solo una menzione veloce alla promessa di nuove case. Il suo focus principale è il lavoro. Il costo crescente delle abitazioni, però, è importante tanto quanto la questione dei salari stagnanti – se non di più – per la lotta di classe e le sofferenze economiche di lavoratori e lavoratrici.
Il reddito medio è stagnante dal 2000. Ma nello stesso periodo, un boom di pignoramenti ha fatto a brandelli i risparmi di milioni di famiglie, e il costo degli affitti nelle città è aumentato del 50 percento. Il Green New Deal non potrà portare a una giustizia sociale o aumentare il sostegno delle masse senza affrontare di petto il problema abitativo.
Il miglior modo per il Green New Deal di espandere, de-carbonizzare, e garantire il diritto all’abitare è di promettere e costruire nuove case, dieci milioni in dieci anni per la precisione, pubbliche e carbon-free. Ancora, e ancora, e ancora.
E no, dieci milioni non è un numero folle. Gli Stati Uniti hanno già costruito più di un milione di case in un anno. E il sistema ancora non funziona. Il diritto alla casa dev’essere il cuore del Green New Deal per tre semplici ragioni. Primo, i costi esplosivi hanno reso la crisi abitativa una minaccia concreta al benessere basilare tanto quanto le paghe basse e la disoccupazione – o la sottoccupazione. Secondo, milioni e milioni di persone avranno bisogno di nuove case man mano che gli eventi climatici estremi renderanno invivibili ampie fasce della nazione. E terzo, costruire tonnellate di nuove case adatte ai nuovi standard low-carbon può essere un ottimo stimolo per de-carbonizzare il settore edilizio, che è responsabile del 39 percento del consumo energetico degli Usa.
Il diritto all’abitare è trattato solo timidamente dal dibattito a sinistra sui cambiamenti climatici. Non è incluso nella proposta standard del Green New Deal; era assente da libro di Naomi Klein Una rivoluzione ci salverà e dalle richieste della People’s Climate March. Quando il dibattito sui cambiamenti climatici incontra il tema del diritto all’abitare, è solitamente nella forma di proposte che potrebbero piacere a Elon Musk, tipo mettere un pannello solare su ogni casa di periferia e una bobina di Tesla in ogni macchina (senza pensare al fatto che oggi ci sono più poveri nelle periferie Usa di quanti ce ne sono nelle città e nelle campagne messe insieme.) Le proposte di lavoro green si sovrappongo a un bisogno disperato di immaginare programmi di ristrutturazione energetica – come un’enorme impermeabilizzazione su larga scala, finanziata da sussidi federali, per le abitazioni dei poveri e della working-class, o autorizzazioni per ammodernare gli edifici pubblici, o una profonda ristrutturazione energetica delle case popolari.
È sorprendente come il movimento contro il cambiamento climatico sia stato incapace di collegare le due più grandi minacce esistenziali del nostro tempo: il caos climatico e il problema dell’assenza di case. Forse è sembrato troppo da affrontare tutto in una volta. Ma già abbiamo gli strumenti per affrontare questa crisi gigantesca, precedenti europei e americani a cui fare riferimento, e l’urgenza feroce di fare qualcosa.
Un piano d’azione per un’edilizia pubblica di alta qualità, esteticamente gradevole, e meticolosamente finanziata dal pubblico, con design e strutture di governo differenti, incontrerebbe le esigenze di milioni di persone e creerebbe decine di migliaia di posti di lavoro specializzati nella costruzione di edifici carbon-free, per decenni. Fatto bene, un piano di edilizia pubblica riuscirebbe a creare comunità democratiche diverse, miste, amabili e a misura d’uomo in tutto il paese – nelle città, nelle periferie, nei paesi e nelle riserve.
Aumentare semplicemente la densità abitativa è una soluzione ecologica buona per le piste ciclabili degli yuppie, ma non per mettere fine alla povertà. La densità abbassa le emissioni di carbone, certo. Ma vari studi hanno dimostrato che quando i residenti di un quartiere molto denso sono benestanti, l’impatto dei loro consumi di lusso – dagli iPad ai viaggi in aereo – supera il risparmio energetico che deriva dall’andare al brunch a piedi.
L’impatto inquinante procapite del West Village è due o tre volte più alto di quello di molti quartieri altrettanto densamente abitati del Bronx. Quartieri densamente abitati di classi miste o working-class, situati vicino a mezzi di trasporto pubblici e pieni di case popolari, garantiscono una buona qualità della vita e un basso impatto ambientale. Ora come ora, nel mercato immobiliare, la vicinanza a grossi centri di trasporto pubblico aumenta il costo delle case e manda via i residenti con un reddito basso. Unire trasporto pubblico ed edilizia popolare renderebbe tutto molto più equo – e toglierebbe i combustibili fossili dalle strade.
Nel frattempo, le donne nere working-class che animano i movimenti di lotta per la casa e combattono la gentrificazione, chiedendo case popolari, non sempre parlano di cambiamento climatico – ma spesso lo fanno. Le loro richieste, però, sono oggettivamente ecologiste. Le loro mobilitazioni e le loro lotte sono essenziali per un’alleanza che riesca davvero a de-carbonizzare la vita urbana.
Cancellare i meccanismi di mercato
La necessità di promettere una casa attraverso un programma massiccio di edilizia pubblica è schiacciante. Città dopo città, la gentrificazione sta scatenando traumi culturali ed economici che evocano memorie di deportazioni coloniali. Un’epidemia nazionale di sfratti sta aumentando la povertà, gettando le famiglie in mezzo a una strada semplicemente perché fanno un po’ troppo rumore, o perché commettono il crimine di essere poveri. Lo sfratto minaccia il 17 percento degli affittuari statunitensi che spendono più della metà del loro stipendio in affitti, mentre un altro 21 percento ne spende almeno un terzo. In sostanza, come hanno scritto David Madden e Peter Marcuse, «secondo gli standard di accessibilità, non c’è un solo stato statunitense dove un lavoratore full-time con un salario minimo possa permettersi di affittare o possedere un monolocale».
Nel frattempo, la grossa differenza tra chi possiede una casa e chi no rende la questione abitativa una delle cause più importanti della scioccante disparità di ricchezza tra bianchi e neri, un divario strutturale le cui radici vanno cercate nelle politiche razziste di concessioni di mutui del New Deal. Questa diseguaglianza è aumentata ulteriormente dopo il collasso dei mutui sub-prime e la crisi finanziaria del 2008.
La crisi abitativa si manifesta anche nei danni strutturali degli edifici, dove boiler che non funzionano e finestre rotte aumentano l’inquinamento e influiscono sul bilancio. Sulla costa Atlantica, più della metà dei proprietari di casa neri hanno recentemente visto le proprie utenze venire tagliate, hanno dovuto risparmiare sul cibo o le medicine per pagare le bollette, o hanno rinunciato a riscaldamenti e condizionatori per evitare la bancarotta. Un quinto dei proprietari di casa bianchi hanno altrettanto scarso combustibile. A New York, dopo l’uragano Sandy, il 45 percento degli appartamenti popolari nelle aree colpite dalla tempesta era visibilmente infestato dalla muffa. Ma anche prima della tempesta, la percentuale era del 34 percento. La crisi climatica e abitativa stanno già convergendo, e lo faranno sempre di più in futuro.
Gli avvocati hanno vinto importanti cause legali che finalmente rendono operativo il Fair Housing Act del 1968, approvato sull’onda dell’assassinio di Martin Luther King, che in teoria garantisce abitazioni adeguate e accessibili per i neri. Ma il mercato attuale e le attuali cassette degli attrezzi non possono costruire le nuove case di cui abbiamo bisogno, soprattutto ora che la crisi abitativa e climatica stanno emergendo con forza.
Anche solo l’innalzamento del livello del mare costringerà, nel prossimo secolo, almeno tredici milioni di statunitensi a spostarsi – ed è uno scenario positivo. È più di quanto non sia avvenuto con la grande migrazione del Ventesimo secolo, che il redlining [un meccanismo che consisteva nel negare a fette di popolazione razzializzate alcuni servizi basilari ndt] del New Deal ha incanalato in una segregazione duratura. Il caldo, gli incendi, la siccità e altri fattori di questo tipo probabilmente costringeranno altri milioni di persone a migrare. Lo stesso genere di pressioni nel resto del mondo farà crescere il tasso di immigrazione e l’arrivo di rifugiati.
Un approccio di mercato alla questione abitativa sarebbe disastroso. Le industrie di costruzione e il settore edilizio sarebbero i reali beneficiari della spinta a costruire più case nel settore privato, un boom di costruzioni sub-prime con crediti d’imposta, finanziato attraverso “prestiti predatori”. Abbiamo già visto come è finita questa storia nel 2008. Un altro boom di abitazioni private ripeterebbe le patologie emerse in precedenza, imprigionandoci in decenni di segregazione, scarsità di combustibili, sfratti e fallimenti.
Il groviglio delle partnership pubblico-privato e gli ammiccamenti al mercato che attualmente passano per una politica abitativa accessibile sono quasi altrettanto pessimi. Attualmente, il meccanismo più importante per ottenere finanziamenti federali per la costruzione di case accessibili è il programma Low-Income Housing Tax Credits (Lihtc), che sostiene i costruttori privati. Mentre i fondi per le case popolari sono a secco da anni, i fondi Lihtc non fanno che aumentare. Classico compromesso liberale, il meccanismo di partnership pubblico-privato è diventato un ricco lasciapassare per le corporation, anche se gli avvocati dell’edilizia lo difendono come fosse la soluzione migliore possibile. La destra lo critica per la sua inefficienza e la corruzione che genera, mentre le ricerche hanno dimostrato che a lungo termine l’obiettivo del programma – abitazioni veramente a basso costo – viene meno, in favore del profitto.
Le altre soluzioni sono comunque deboli, sia a livello federale che locale. Il programma Section 8 Housing Choice Voucher (Hcv) aumenta la qualità della vita individuale; ma concentra la povertà e lascia intatto un mercato immobiliare che non funziona. Nelle città, i dibattiti sulla divisione in zone sono un buco nero politico; e, alla fine, solo una piccola frangia di feticisti del mercato riconosce la necessità di costruire abitazioni pubbliche accanto a nuove costruzioni private – ed eccoci al punto di partenza.
A proposito: in California, Gavin Newsom sta proponendo una sorta di “piano Marshall” per creare l’incredibile numero di 3,5 milioni di nuove unità abitative in quattro anni, aumentandone il totale di un quarto. Finalmente una soluzione proporzionata! Con la giusta leadership pubblica, la California potrebbe dare una lezione al paese nel disegnare amabili contesti urbani. E tuttavia, per rendere le nuove case accessibili, Newsome ha suggerito – udite udite – di versare centinaia di milioni di dollari in crediti d’imposta per gli investitori privati.
È tempo di lasciar perdere i crediti di imposta e le aggiustatine al mercato, ed essere sinceri. Proprio come Medicare for all e la promessa di posti di lavoro federali potrebbero attaccare al cuore i problemi della salute e del lavoro, bypassando le partnership succhia-soldi pubblico-privato, la garanzia di una casa per tutti e tutte dev’essere costruita dalle persone, per le persone
Malgrado la propaganda dell’industria immobiliare e una classe di codardi professionisti della politica, i precedenti europei e americani ci dimostrano esattamente che il pubblico è perfettamente in grado di dare casa a milioni di persone a prezzi accessibili, in sicurezza, in maniera ecologica, e in grande stile.
I templi del lusso popolare
La scorsa estate, passeggiando in un rigoglioso giardino di Vienna, ho avuto quella che potrei descrivere soltanto come un’illuminazione religiosa. Ero nel mezzo del tempio dell’edilizia pubblica sostenibile, il Karl Marx Hof, un gigantesco e verdeggiante complesso di 1.200 appartamenti, con arcate gentili e raffinate murature, circondato da ampi prati, fontane e giardini. Ma è l’intera città a essere un gioiello. […] Mentre giravo per i vari quartieri della città, ho visto una grande varietà di giardini, cortili, scalinate, cornicioni, arcate, lavanderie, e altre tipologie di spazi comuni. Con palazzi alti quasi sempre cinque o sei piani, percorribili a piedi, fitte, verdi, ombreggiate, e intrecciate in un tessuto urbano denso ma non sovraffollato, le vie di Vienna sono un’unica, gigantesca presa in giro al mercato immobiliare.
Oggi, quasi un terzo dei palazzi cittadini è ancora di proprietà pubblica. Un altro terzo è di cooperative limited-equity [una tipologia di cooperative in cui la proprietà dell’immobile è suddivisa equamente tra i soci, ndt], il trend più recente, e mostra design ancora più innovativi. Il rimanente terzo è privato, di buona qualità e a prezzi bassi. Persino nella bolla europea, neoliberale e razzista, Vienna può camminare a testa alta. I quartieri più densamente popolati da immigrati e working-class, ricchi per edilizia popolare, hanno votato in massa contro gli ultra-conservatori, che sono riusciti a racimolare consensi solo oltre i confini della città. Vienna ha recentemente introdotto asili nido gratuiti per bambine e bambini dagli zero ai sette anni. Il trasporto pubblico costa un euro al giorno con la tessera annuale. «Le persone si arrabbiano tantissimo se un autobus ci mette più di sette minuti per arrivare», ha sospirato una delle mie guide, lo storico e consigliere di quartiere Armin Puller, con una smorfia che indicava tutto il fastidio per il peggioramento dei servizi.
E il carbone? Le estati a Vienna sono quasi altrettanto calde che a New York. Ma nella maggior parte delle case popolari o cooperative è proibita l’aria condizionata. Alcuni edifici del periodo post-bellico sono terribilmente caldi, e ogni tanto possono usare l’aria condizionata, ma la maggior parte degli edifici sono di alta qualità, costruiti in modo tale da essere confortevoli tutto l’anno. Puller mi ha mostrato uno dei complessi delle cooperative circondato da aree giochi flessibili, i pavimenti che sembrano la caricatura trekkiana dell’utopia; i balconi degli edifici hanno porte scorrevoli in plastica che li possono trasformare in verande assolate. Ero commosso. Quando mi ha mostrato una scuola pubblica sperimentale, dove ogni classe ha un spazio all’aperto dedicato, con sedie e tavoli a rotelle così che i gruppi possano fare la spola tra un micro-clima e l’altro, ho versato una lacrima. È qualcosa che potremmo avere tutti e tutte.
Certamente, Vienna non è perfetta. Non si può avere l’eco-socialismo in una città europea capitalista. Ma indovinate un po’: è vero che quando la working-class dà vita a istituzioni durature e creative che spendono bene i loro soldi, la vita è assai meglio. E con i trasporti pubblici straordinari di Vienna e un’alta densità abitativa, i tassi di inquinamento pro-capite sono ridottissimi.
10 milioni di case ecologiche
Oggi i quartieri popolari statunitensi sono ingiustamente stigmatizzati, anche se è vero che molti di loro sono stati costruiti al risparmio, e mal tenuti nel tempo, portando a infinite demolizioni e associando l’idea dell’edilizia pubblica alla decadenza urbana.
Sarebbe possibile per gli Stati Uniti invertire il processo e costruire qualcosa che somigli ai risultati ottenuti a Vienna? Il report brillante di un think tank di sinistra, “Social Housing in the United States” del People’s Policy Project (Ppp), mostra come Vienna, la Svezia, e la Finlandia siano riuscite a costruire case popolari di alta qualità – e gli Stati Uniti potrebbero fare la stessa cosa. I punti chiave sono due.
Il primo: la qualità e i finanziamenti. Con buoni investimenti di partenza e politiche intelligenti, puoi ottenere case popolari meravigliose grazie a una manutenzione generosa addebitata mensilmente ai tenutari. Dopodiché, puoi sovvenzionare i tenutari più poveri attraverso un fondo separato anti-povertà.
Altro punto fondamentale: la velocità. Negli anni Sessanta, la Svezia ha costruito circa tre milioni di unità abitative. Molte erano fatiscenti, e inoltre ne servivano di più. Malgrado alcuni momenti spigolosi, la Svezia riuscì a costruire un milione di case popolari in dieci anni. In pratica incrementò il numero di abitazioni di circa un terzo in un decennio. Cinquant’anni fa.
La proposta del gruppo Ppp è più modesta: dieci milioni di unità abitative in dieci anni (cosa che personalmente propongo di ripetere di decennio in decennio), finanziati da fondi federali e implementati dalle amministrazioni locali con strutture finanziarie simili a quelle di Vienna e della Svezia. Il costo? Più o meno l’equivalente dei tagli alle tasse introdotti da Trump.
Sì, ci saranno ostacoli. Il più grande di questi è la resistenza locale in molti dei migliori siti di costruzione. Siccome la maggior parte di queste abitazioni aiuterebbe le persone razzializzate a vivere in quartieri a prevalenza bianca, gli abitanti del posto si ribellerebbero. I distretti scolastici sarebbero campi di battaglia. Infatti, quartieri bianchi e rigogliosi hanno rifiutato a lungo progetti di sviluppo di edilizia popolare, violando il Fair Housing Act.
Ma un governo del Green New Deal rinforzerebbe il Fair Housing Act, brandendo ogni possibile mezzo di persuasione finanziario e legale – e fra questi il più potente potrebbe essere la mobilitazione di massa. Un altro ostacolo è il prezzo della terra nelle aree più desiderabili. Qui, il precedente di Vienna di punire con le tasse gli immobiliaristi è particolarmente importante: radere al suolo la speculazione, costruire case.
Per di più, le inevitabili battaglie locali che un grande afflusso di fondi federali potrebbe suscitare sono in realtà un elemento positivo – in questo modo sarebbe più probabile che il risultato finale rifletta le necessità locali effettive. Nessuno vuole vivere in una diapositiva Powerpoint decisa a tavolino da Washington. All’inizio, le battaglie locali contro i miglioramenti saranno frustranti. Ma per la maggior parte, stiamo parlando di contesti politici in cui milioni di persone hanno intasato le strade per rovesciare l’establishment politico. E sarà più facile mobilitare una coalizione di inquilini arrabbiati, gravati dal mutuo, misti a gruppi per la giustizia razziale e abitativa, a lavoratori dell’edilizia sindacalizzati (e futuri lavoratori), e a progressisti bianchi e politici locali che vogliono essere rieletti, per chiedere un investimento pubblico importante sull’edilizia popolare, anziché mobilitarli per un misero schema Lihtc di credito d’imposta.
Non esiste un sostituto alla mobilitazione di massa, ma le ricompense sono tante. I finanziamenti potrebbero permettere a gruppi motivati di sperimentare cooperative limited-equity e società territoriali di comunità, anche se almeno all’inizio molte delle case popolari verrebbero probabilmente costruite e governate dalle autorità locali. Le case popolari dovrebbero altresì essere costruite in forme e dimensioni differenti, con un programma in grado di andare oltre le città e i nodi di transito periferici e raggiungere le aree rurali rovinate da case di scarsa qualità – dalle città degli Appalachi fino alle riserve indiane – dove il controllo locale sul design e altri aspetti sarà centrale. Avremo anche bisogno di una sorveglianza aggressiva da parte dei revisori, per sradicare opportunismo e corruzione. Dalla Red Vienna al programma di infrastrutture del New Deal, mantenere “puliti” i progetti pubblici è stata la chiave per ottenere il consenso popolare.
Com’è stato già detto, quartieri densamente abitati, pieni di case popolari e ben collegati sono l’obiettivo principale di un’urbanizzazione ecologica e democratica. Buoni standard di costruzione pubblica e un decentramento intelligente permetteranno agli edifici di essere sufficientemente solidi da resistere a un tempo brutale. La loro costruzione rafforzerebbe altri aspetti del Green New Deal.
La promessa di case ecologiche si sposa perfettamente con la promessa di posti di lavoro. Per de-carbonizzare l’economia bisogna necessariamente elettrificare tutto – rimpiazzando fornelli e scaldabagni e padroneggiando le tecnologie come le pompe di calore casalinghe che permettono sia di riscaldare che di raffreddare. L’incentivo migliore per questi miglioramenti tecnologici? Finanziamenti pubblici intelligenti. Rendere le case resistenti alle intemperie e cambiarne gli elettrodomestici è un lavoro noioso ma necessario. Un grande programma di edilizia pubblica con l’obiettivo dell’inquinamento zero potrebbe addestrare ed equipaggiare decine di migliaia di lavoratori con le abilità necessarie per bonificare dal carbone ogni singola casa, appartamento o ufficio del paese.
Potremmo avere un insieme di programmi spezzettati, cuciti insieme come una trapunta vecchia e logora, giurisdizione per giurisdizione, con piccole società che tentano di vendere grandi idee a costruttori di lusso. O potremmo mettere insieme leggi federali, soldi federali, movimenti sociali locali, e i migliori standard scientifici, ingegneristici e manifatturieri. Certo una decisione difficile.
Costruire il sogno
Puoi costruire edifici ecologici diminuendo drasticamente il loro consumo energetico e alimentando ciò che resta con le rinnovabili. Ma nel collegare l’ideale dell’edilizia popolare e il progetto di un’energia pubblica e rinnovabile c’è qualcosa di più.
Le due cose sono unite da un sogno irresistibile: persone normali che afferrano il controllo del loro posto nel mondo. Non è un’astrazione vuota. Prendiamo la campagna popolare dello stato di New York per una transizione ecologica giusta, New York Renews. La coalizione è nata da un gruppo di organizer per la giustizia ambientale, lavorativa e abitativa, a ridosso della Marcia per il Clima del 2014 a New York. Dopo essersi concentrati per anni sulla giustizia ambientale, questi organizer, già sensibili alla questione abitativa, hanno capito che dovevano espandersi, connettere i gruppi rurali anti-fracking presenti nello stato con i sindacati e le comunità locali. E così quattro leader chiave hanno viaggiato in tutto lo stato per costruire una coalizione che fosse in grado di portare avanti la sfida del Climate and Community Protection Act, un provvedimento stile Green New Deal.
Esiste un precedente storico poco noto ma sorprendentemente efficace che collega l’edilizia sociale e il potere pubblico. Uno dei più antichi complessi abitativi di New York, socialista e cooperativo, è stato pensato come omaggio al Karl Marx Hof di Vienna, e ne riecheggia l’architettura elaborata. Le Amalgamated Dwellings, nel Lower East Side di New York, furono costruite per un sindacato di sinistra di lavoratori tessili ebrei nel 1931, per ospitare 236 famiglie. La cooperativa esiste ancora. L’architetto, Roland Wank, si ispirò alla Red Vienna. In maniera inusuale per la Manhattan downtown – ora e allora – l’edificio vero e proprio copre soltanto la metà del dispendioso spazio di costruzione, dedicando il resto a una larga corte puntellata di giardini.
Come ho imparato durante la mia recente visita con William Rockwell – architetto, residente, e storico non ufficiale dell’edificio – persino i tetti furono disegnati specificatamente per feste e danze. Mentre discutevamo degli intricati ornamenti Art Deco in muratura, Rockwell insisteva, «Questo non è un costo effettivo. È un atto d’amore, una questione di principio». Sin dall’inizio, le Dwellings includevano una libreria e uno spazio culturale aperto, con un piccolo e accogliente palco per le performance, per rendere la vita insieme più piacevole. Il design poli-funzionale e arioso collega la tradizione radicale newyorkese ai movimenti austriaci dei lavoratori, socialisti, femministi e per la salute pubblica, a loro volta radicati nelle rivolte europee del 1848.
Wank era un ungherese di sinistra che aveva studiato architettura a Budapest e brevemente a Vienna, e che poi era emigrato negli Stati Uniti nel 1924 per inseguire nuovi sogni. Poco dopo aver disegnato le Amalgamated Dwellings, Wank accettò un lavoro nell’ambito del New Deal con la Valley Authority del Tennessee, introdotta da Franklin Delano Roosevelt per spezzare il controllo monopolistico e inutile dei privati sulle utenze elettriche. Wank divenne l’architetto capo dell’Authority. Costruì bellissimi complessi abitativi per lavoratori in tutta la nazione, progettò diverse dighe idroelettriche, e aiutò a gestire la Rural Electrification Administration portando l’elettricità a dieci milioni di americani grazie a cooperative democratiche – ancora oggi in attività. Le dighe di Wank sono note per il loro design elegante, monumentale e orientato al pubblico. I critici rimasero stupiti dalla loro bellezza.
Wank inoltre fu un innovatore, includendo nei progetti anche piazze per i visitatori e strade per le persone ordinarie, perché potessero ammirare la magnificenza delle dighe. Come scritto su un necrologio, Wank «capì che la diga poteva essere approcciata come un tempo lo era l’Acropoli». Le città costruite da Wank per i lavoratori e per le persone intorno alla diga erano innovative. Una di loro, Norris, comprendeva la prima cintura verde del paese. La città però escludeva residenti e lavoratori neri. In questo senso, il lavoro di Wank cristallizza sia il buono che il marcio del New Deal. Il New Deal non si limitò infatti a ribadire le leggi Jim Crown [che introdussero la segregazione razziale nel 1876, ndt], ma le inasprì.
E tuttavia possiamo ancora rifarci ad alcune delle migliori intuizioni del New Deal, e di Wank – e cioè lo sperimentalismo e l’egualitarismo che introdussero nelle infrastrutture, piccole e grandi. La democrazia abolizionista, com’era articolata in quegli anni da W.E.B. DuBois, richiederà un potere pubblico ancora maggiore: abbondanza di energie ecologiche e un governo genuinamente democratico, e delle case democratiche per lavoratori e lavoratrici.
Dal Lower East Side fino al Tennessee rurale, Wank costruì strutture che resero le grandi promesse del socialismo monumentali, intime, e utili. Pensare al lavoro di Wank ci aiuta a focalizzarci sulle premesse al cuore delle dieci milioni di abitazioni pubbliche ed ecologiche di cui abbiamo parlato prima. La giustizia climatica è una questione profonda: è molto più di qualche cella fotovoltaica, di foreste in salute, o piantagioni di proteine; riguarda come viviamo e lavoriamo: le pietre, il vetro e l’acciaio che plasmiamo con le nostre mani per proteggerci dagli elementi – e per meravigliarci della loro bellezza.
E abbiamo una storia a cui poterci rifare. C’è un filo rosso che collega gli architetti di strada che hanno costruito le barricate nell’Europa del 1848, fondando la coscienza politica socialista e femminista del continente, e l’arrivo dell’elettricità prodotta attraverso fonti rinnovabili di energia, in centrali costruite dalle istituzioni pubbliche e consegnate dalle cooperative, nel cuore dell’America rurale e povera. Quel filo passa attraverso alcuni dei progetti di edilizia popolare migliori d’Europa, e attraverso la grande tradizione socialista di New York City, tracciando case e negozi luminosi e verdi giardini che hanno reso l’idea astratta di egualitarismo socialista letteralmente tangibile – una forma di giustizia che puoi materialmente toccare. È sicuramente un filo un po’ logoro, un filo che divide. Ha bisogno di essere nuovamente tracciato con un’ambizione che a sinistra non era nemmeno immaginabile fino a qualche anno fa.
La svolta di Ocasio-Cortez dai temi del diritto all’abitare a quelli del clima è coerente: le due sfide sono in realtà una sola – e urgente. Possiamo pensare in grande e agire in fretta, un decennio erculeo dopo l’altro. Nel 1941, mentre il nazismo minacciava di distruggere l’Europa una volta per tutte, e il New Deal diventava economia di guerra, Roland Wank, l’immigrato costruttore di case e centrali, pubblicò un saggio commovente sull’architettura come politica. Anticipando il sentire odierno, spronava i suoi colleghi architetti ad abbracciare l’incertezza radicale della sua era, attaccare senza pietà le diseguaglianze, e trarre piacere «dalla lotta quando la battaglia si infiamma e le passioni si accendono».
Pensando alla politica, Wank la definiva come «una delle esperienze essenziali che rendono la vita degna di essere vissuta». Il titolo di questo saggio è un rimprovero ai suoi fallimenti, e ai fallimenti del New Deal, che il Green New Deal è chiamato a correggere. Il titolo è così semplice da essere anche uno slogan, un sonoro scappellotto ai critici che vorrebbero rallentare il nostro passo e diminuire i nostri desideri, che vorrebbero dare una mano al mercato che noi pensiamo già di superare, che si aggrappano a quel potere che noi desideriamo condividere, e che prendono in giro le case popolari da sogno che un giorno costruiremo per la nostra meravigliosa sopravvivenza: «Nessun luogo in cui andare, se non avanti».
*Daniel Aldana Cohen è assistant professor di sociologia all’Università della Pennsylvania, dove dirige il Socio-Spatial Climate Collaborative. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
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