
I Mapuche, Benetton e la nuova destra sudamericana
I casi recenti di Santiago Maldonado a Camilo Catrillanca Marín dimostrano che l'oppressione degli indigeni continua e che trae nuova linfa dal ritorno delle destre in America Latina
Ercilla, regione dell’Araucania, centro sud del Cile. Il 14 novembre 2018 Camilo Catrillanca Marín, ventiquattrenne di etnia mapuche, viene assassinato dalla polizia, colpito alle spalle da sette fucilate mentre si trovava alla guida di un trattore.
L’America Latina e i suoi movimenti sociali sono da sempre osservati con attenzione in Europa. Nel ventesimo secolo le forze progressiste del vecchio mondo hanno ammirato personaggi come Ernesto “Che” Guevara, Salvador Allende, Marcos, Hugo Chavez o José Mujica, come, nel secolo precedente, gli intellettuali liberali avevano stimato i libertadores Simon Bolívar, José de San Martin e José Martí.
Oggi, segnali come la destabilizzazione del Venezuela bolivariano e il ritorno di governi reazionari (Cile, Argentina) e di estrema destra (Brasile), che non nascondono legami con le dittature del passato, rappresentano l’ennesimo campanello d’allarme per noi europei.
La vicenda di Camilo Catrillanca è la punta dell’iceberg: se vogliamo comprendere qualcosa degli attuali Cile e Argentina, è necessario fare un passo indietro lungo cinquecento anni e ripercorrere le vicende dei popoli mapuche.
Per quasi quattro secoli il fiume Bio Bio, che scorre circa seicento chilometri a sud di Santiago, ha separato il versante andino sud occidentale dell’impero spagnolo dalla tierra adentro, abitata da popoli divenuti leggendari per una tenace resistenza all’occupazione inca prima ed europea poi. I conquistadores li chiamavano araucanos, imprendibili a tal punto da meritarsi un poema epico dedicato alle gesta eroiche dei loro guerrieri, La Araucana, scritto da Alonso de Ercilla nel 1569. Il Bio Bio viene ancora oggi chiamato la frontera.
Gli araucani erano un popolo originario anomalo rispetto a quelli incontrati sino a quel momento dagli invasori, non erano relativamente docili come gli indigeni delle isole caraibiche né avrebbero potuto essere sottomessi come gli aztechi o i maya, perché nella loro società non esistevano imperatori da imprigionare, città da radere al suolo o sacerdoti da convertire. Avevano una struttura sociale orizzontale; gli insediamenti abitativi erano diffusi, indipendenti l’uno dall’altro e si univano in alleanze soltanto in caso di guerra.
Gli spagnoli si trovarono di fronte a un insieme di popoli diversi con aspetti culturali in comune che abitavano una striscia di terra dalle Ande all’Oceano Pacifico.
Semplificandone la complessa struttura sociale possiamo dividerli in Pewen-che, abitanti del pewen, la precordigliera, Lafken-che, abitanti del lafken, il mare, Huilli-che, del Sud, Wente-che, delle pianure, Picun-che, del Nord. Ogni zona aveva la sua gente: che. Nel tardo XVIII secolo, grazie alla resistenza contro un nemico comune, le diverse realtà hanno iniziato a riconoscersi nella definizione di Mapu-che, popolo della terra; unici indigeni ad aver costretto una monarchia assoluta europea ad abbandonare la conquista e a trattare la convivenza in grandi assemblee denominate parlamentos.
Alla nascita dello stato cileno, nella prima metà del diciannovesimo secolo, i mapuche erano una realtà consolidata che aveva valicato le Ande inglobando popolazioni del versante argentino e del nord della Patagonia. Secoli di guerra contro un nemico comune avevano creato e consolidato un’identità e la permeazione di idee europee aveva dato origine all’embrione di “nazione mapuche”. Questo popolo, come lo consociamo oggi, nasce da una resistenza secolare ed è perseguitato dai conquistatori come secoli fa lo erano i suoi antenati.
Durante la guerra d’indipendenza del Cile, durata a fasi alterne dal 1810 al 1823, si verifica un’anomalia spesso omessa dagli storici nazionalisti. Oggi lo stato creolo ha trasformato eroi mapuche protagonisti dell’antica guerra di Arauco, come Lautaro o Caupolicán, in simboli della resistenza al re di Spagna. La verità è però un’altra: durante la guerra d’indipendenza la maggior parte dei nativi sostenne i realisti, fedele ai patti di alleanza stretti con la monarchia spagnola durante i parlamentos dei secoli precedenti. Il ragionamento mapuche era semplice: meglio sostenere un monarca assoluto che aveva accettato la convivenza e regnava dal versante opposto delle Ande e dell’oceano che un’élite creola capitalista e centralista costituita da proprietari terrieri.
Quanto non si stessero sbagliando lo dimostrano i fatti degli anni successivi. Per arrivare ai giorni nostri dobbiamo, infatti, passare attraverso la campagna del deserto in Argentina e la Pacificazione dell’Araucania in Cile, operazioni avvenute nella seconda metà del diciannovesimo secolo che portarono all’occupazione e annessione violenta delle terre indigene in nome delle neonate nazioni di matrice europea. Per decenni i mapuche rimasero impotenti, schiacciati dalla violenza creola; in tanti vennero derubati con l’inganno, altri semplicemente si arresero vendendo le proprie terre per cercare fortuna nelle città in pieno sviluppo.
Negli ultimi decenni, dopo la fine delle dittature regalate dagli Stati Uniti, le cose sono cambiate: come molti altri popoli originari in America Latina, i mapuche reclamano il loro spazio e chiedono vendetta per quanto subito dagli winka, i “nuovi Inca”, gli invasori.
Un nodo centrale per collegarsi ai giorni nostri è il 1991, quando l’impresa Compañia de Tierras Sud Argentino S.A., proprietà della famiglia di industriali tessili veneti Benetton, compra oltre 900 ettari di terre indigene nella provincia argentina di Chubut. Siamo nel periodo in cui da una parte iniziano a prepararsi le celebrazioni del cinquecentenario di quella che noi definiamo scoperta dell’America, dall’altra movimenti indigenisti acquistano sempre più potenza e cercano il capovolgimento di prospettiva: cinquecento anni di conquista violenta, invasione, imposizioni culturali e prevaricazioni nei confronti dei nativi.
Il confronto raggiunge un livello tale che, nel 1994, viene inserito nell’articolo 75 della Costituzione della Repubblica Argentina uno specifico inciso (il 17) che riconosce le popolazioni originarie e i loro diritti sulle terre che abitano, impedendone l’alienazione. Il gruppo Benetton non si ferma davanti a nulla e, per oltre dieci anni, approfitta del potere coercitivo della polizia argentina, ancora impregnata della recente dittatura, per mantenere il controllo sul territorio.
Nel 2017 il conflitto, tutt’altro che sopito, riacquista eco internazionale a causa della vicenda dell’attivista argentino Santiago Maldonado, scomparso il 1 agosto durante la brutale repressione di un blocco sulla Ruta 40, strada che costeggia la Cordigliera e attraversa i possedimenti di Benetton. La manifestazione è organizzata dalla resistenza mapuche contro l’industriale di Treviso e la campagna “Donde está Santiago Maldonado?”, rivolta al presidente argentino, il neoliberale Mauricio Macri, diviene virale. Il ragazzo viene ritrovato cadavere il 17 ottobre dello stesso anno e, ad oggi, non esiste ancora un colpevole.
Le storie di resistenza si intrecciano, quando il corpo di Santiago riaffiora dalle acque del rio Chubut, Facundo Jones Huala, giovane lonko (termine mapudungun più o meno traducibile come “capo”) della comunità in conflitto Pu Lof di Cushamen, nella stessa regione, è già in carcere da più di un anno: la sua colpa è essere un leader della resistenza indigena contro Benetton. L’11 settembre 2017 Huala viene estradato in Cile, dov’era ricercato dal gennaio 2013 con l’accusa di aver preso parte a un attentato incendiario nella regione di Los Rios, nonostante l’Onu avesse chiesto al governo argentino di attendere che i fatti fossero verificati. L’estradizione viene concessa proprio nel giorno dell’anniversario del colpo di stato del 1973 e dell’assassinio di Salvador Allende. ma questa possiamo considerarla casualità.
Il processo contro Facundo Jones Huala è iniziato il 4 dicembre al tribunale di Valdivia, città che porta il nome del suo fondatore, Pedro de Valdivia, conquistador morto nel 1553 in uno scontro con gli Araucani, anche questa è una casualità.
In Cile, dal 1984, è in vigore una legge speciale antiterrorismo promulgata dalla dittatura di Augusto Pinochet. Questa legge, modificata per l’ultima volta nel 2011, viene chiamata anche ley antimapuche, in quanto spesso utilizzata per organizzare la repressione nella regione militarizzata dell’Araucania. La normativa conferisce poteri di coercizione speciali alle forze dell’ordine quando si tratta di agire contro atti sovversivi contro lo Stato, in particolar modo qualsiasi forma di rivendicazione mapuche.
Ritorniamo all’inizio di questa storia, a quel 14 novembre in cui le forze speciali dell’esercito cileno entrano nella comunità di Ercilla, in Araucania, con il pretesto di arrestare i presunti colpevoli di alcuni furti d’auto. I militari agiscono indisturbati, protetti dalla legislazione antiterrorismo e supportati dal governo neoliberale di Sebastian Piñera. Camilo Catrillanca Marín viene colpito alle spalle da sette fucilate e muore qualche ora dopo suscitando l’indignazione di una parte della società cilena vicina alle rivendicazioni degli indigeni. Il giovane weichafe (guerriero) lascia una moglie incinta e una bambina di sei anni.
Nel paese la protesta monta, si cerca un colpevole tra le file del Comando Jungla, reparto speciale delle forze di polizia cilene addestrato nella Colombia e negli Stati uniti della lotta al narcotraffico ed inviato in Araucania per sedare le sollevazioni mapuche.
Il sergente Carlos Alarcón viene identificato come il probabile assassino e immediatamente i carabineros de Chile iniziano a insabbiare le indagini, scompaiono addirittura parte delle immagini riprese dalla telecamera con cui stava filmando l’operazione il presunto assassino. Si potrebbe pensare a esagerazioni complottiste, non fosse che, qualche giorno dopo, Alarcón posta un video su Twitter dove non chiede perdono per quanto imputato, parla di Dio e sostiene di essere stato obbligato a mentire, il tutto vestito da Batman.
Il 21 novembre, durante l’amichevole Cile – Honduras giocata a Temuco, capitale della regione araucana, il giocatore cileno di origine haitiana Jean Bonsejour scende in campo con il cognome mapuche della madre sulla maglia, Coliqueo.
Il 30 novembre le deputate comuniste Camila Vallejo e Karol Cariola espongono una bandiera mapuche durante una cerimonia di premiazione a Santiago del Cile e vengono attaccate dalla destra di governo per presunto abuso di potere.
I mapuche sono un popolo che si è costruito su una resistenza perenne. Nel corso dei secoli i loro nemici si sono presentati sotto diverse forme. Incas, conquistadores europei, stati nazionali e capitalismo hanno plasmato la loro società; il loro stile di vita si è adattato all’invasore per resistergli con le sue stesse armi ma, per quanto abbiano subito e continuino a subire, mai si vedranno gli araucanos abbassare la testa.
*David Angeli è storico ed etnostorico laureato all’Università Ca’ Foscari di Venezia e quasi dottorato alla Sapienza di Roma. È giornalista pubblicista, ha scritto per la rivista Latinoamerica. Vive a Venezia e lavora come attore teatrale, autore, allestitore, receptionist. È membro del consiglio direttivo del festival internazionale Venice Open Stage.
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