Essere classe media è un’illusione
La maggioranza dei milionari si definisce classe media, e così fanno le persone indebitate solo perché qualcuno sta peggio di loro. Quando un termine significa cose così diverse bisogna chiedersi a cosa serva. È facile: a smobilitare le persone.
Nel 1932, un gruppo di intellettuali di sinistra formò la Lega dei Gruppi Professionali per Foster e Ford, una campagna per sostenere i candidati del Partito Comunista William Z. Forster e James W. Ford per, rispettivamente, la presidenza e la vicepresidenza. A tal fine la Lega produsse un pamphlet, intitolato La cultura e la crisi: un appello agli scrittori, artisti, insegnanti, medici, ingegneri, scienziati e altri professionisti americani. In questo scritto, gli autori invitavano i cosiddetti «lavoratori cognitivi» a unirsi ai «lavoratori manuali» nella lotta per un nuovo mondo. Prendendo nota dell’impoverimento dei colletti bianchi – «Ci sono insegnanti nelle file per il pane, ingegneri che riparano le baracche di lamiere nelle ‘Hoovervilles’» – il pamphlet tracciava una linea di divisione per questo gruppo sociale. La loro scelta era «tra essere i luogotenenti culturali della classe capitalista, o gli alleati e compagni di viaggio della working class». Ci sono due parti, sosteneva. Sceglietene una.
Anche se Foster e Ford non riuscirono a vincere le elezioni – ricevettero 102.785 voti – il pamphlet fu una primordiale teorizzazione della posizione di classe dei colletti bianchi negli Stati Uniti. Michael Denning, nel suo libro su quell’epoca, individua in questo pamphlet il ground zero del marxismo statunitense. Considerando il loro posizionamento in una società capitalista stratificata, gli autori del pamphlet guardavano avanti: i colletti bianchi – un’immagine tanto evocativa quanto quella dei «lavoratori cognitivi», anche se è falso che il lavoro manuale non abbia bisogno di pensiero e infatti è un’espressione che perderà presto importanza – dovrebbero essere alleati e compagni di viaggio della working class industriale.
Ma se vendere il proprio lavoro per vivere, essendovi costretto dalla minaccia della fame e per tenersi un tetto sopra la testa, ci rende lavoratori e lavoratrici (finché non si ha un potere di disciplina sugli altri lavoratori, cosa che complica la questione) allora perché, esattamente, gli insegnanti e le ingegnere non contano come lavoratori e lavoratrici vere e proprie, e sono semplici alleati? In realtà non ci volle molto perché uno dei firmatari del pamphlet sostenesse proprio questo. Rigettando la formulazione precedente, Lewis Corey, nel suo libro del 1935 The Crisis of the Middle Class, sostenne che «la massa di impiegati con salari bassi e professionisti non sono ‘alleati’ della working class, sono parte della working class e della sua lotta per il socialismo», in virtù – tra le altre cose – della loro «condizione economica proletaria» e della «necessità del loro lavoro sotto il socialismo». Il fatto che questi lavoratori e lavoratrici non se la passassero male quanto le tute blu è irrilevante. Lavoravano, avevano fame e sudavano sottoponendosi ai desideri del capitale. Dunque, erano lavoratori. Se solo fosse così semplice.
Da che parte stai?
Nei giorni scorsi, poco dopo la notizia che gli impiegati di Kickstarter si stanno sindacalizzando, Gizmodo ha pubblicato una nota mandata allo staff da alcuni impiegati di lungo corso della compagnia, riguardo le loro preoccupazioni rispetto alla sindacalizzazione – un’azione «estrema», per come la mettevano loro. Alcuni dei loro crucci sono ragionevoli – gli autori dicono di non essere stati contattati da quelli che stanno guidando la sindacalizzazione, il che, se fosse vero, renderebbe il processo poco trasparente (anche se gli stessi autori sostengono come alcuni lavoratori si sentano “molestati” dai metodi di reclutamento, e ciò vuol dire che o sono stati contattati da qualcuno, oppure che siamo di fronte a un movimento di sindacalizzazione non molto organizzato) – ma una cosa in particolare merita attenzione, visto che non potrà che proliferare non appena i boss si renderanno conto delle sue potenzialità. Scrivono:
Il sindacato è un ottimo strumento – per i lavoratori marginalizzati. I sindacati sono storicamente pensati per proteggere i membri vulnerabili della società, e pensiamo che la composizione demografica di questo sindacato mini questa sua importante funzione. Siamo preoccupati dall’appropriazione indebita dei sindacati da parte di lavoratori privilegiati…
Malgrado l’argomentazione – i sindacati sono buoni ma non sono fatti per noi e, in qualche modo, il fatto che ci sindacalizziamo compromette i sindacati stessi – sia insolitamente esplicita, non è inedita quando si prova a organizzare i colletti bianchi. Durante campagne del genere, solitamente viene data voce a questa preoccupazione da persone in buona fede – quelle che la sollevano sinceramente perché credono che le condizioni alla base della società siano insostenibili. Ma i sindacati – così la pensano in questa nazione dove dilagano le caricature della working class – sono per quelli che occupano i gradini più bassi della scala socio-economica: sono per gli operai di fabbrica, i lavoratori manuali, e magari per quei lavoratori del terziario con una paga minima. E gli insegnanti, le ingegnere, gli studenti laureati, le giornaliste? Questi sono lavori da classe media. Certamente lavoratori e lavoratrici del genere dovrebbero essere grati di non essere sbattuti là in fondo, nel fango della povertà. In realtà sarebbe avido da parte loro volere più di quello che già hanno. Chi sono per reclamare il mantello della working class? Sfortunatamente, questa prospettiva ha un solo effetto pratico, uno soltanto: trattenere le persone dal mettersi in gioco insieme alla working class, per chiedere vite migliori.
Costruire potere per le tute blu (e rosa) richiede di costruire potere per la working class ovunque. Sindacalizzare un posto di lavoro rende più facile sindacalizzarne altri. Produce casse di mutuo soccorso. Rafforza la cultura della sindacalizzazione – qualcosa del cui ritorno avremmo disperatamente bisogno, dato che le adesioni ai sindacati negli Stati Uniti sono ferme a un misero 10,7 percento. In più, nella loro versione migliore i sindacati sono veicoli per costruire il potere della working class come classe, anziché come gruppi di interesse che guardano al tornaconto dei propri membri – siamo molto lontani da questa visione del sindacato, ma non andremo avanti se non ricostruiamo un movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Abbiamo bisogno di più sindacato, non meno.
Anche se la popolarità dell’auto-rappresentazione come “classe media” è in declino, milioni di lavoratori della working class continuano a pensare a loro stessi in questo modo. Si sentono fortunati, siano essi lavoratori ben pagati di Kickstarter, cameriere, segretari, o chiunque conosca qualcun altro che se la passa peggio. «Sostengo i sindacati, certo», dicono, ma è un problema di quelle persone laggiù, non certo nostro, qui e ora. Eppure non importa quale sia l’intenzione, mettere gli interessi dei lavoratori gli uni contro gli altri è buono per una e una sola categoria: quella dei padroni. Sono queste le due parti, non c’è una via di mezzo. Sceglietene una.
La posta in gioco politica
Come per il ritratto fatto dalla Lega degli insegnanti alle file per il pane nei primi anni Trenta, negli ultimi anni c’è stata una vera e propria valanga di letteratura su come la classe media della nostra epoca sia “strozzata”, o stia “perdendo terreno”, con i giornali che regolarmente riportano come le condizioni di vita di coloro che tecnicamente sarebbero classe media stiano peggiorando (secondo una definizione ragionevole, sono le famiglie che guadagnano tra i due terzi e il doppio del salario medio nazionale, o tra 42.000 e i 125.000 dollari nel 2016). Un giornalista del New York Times ha sottolineato la scomparsa dell’espressione “classe media” nelle elezioni del 2016, notando come il termine stesso sia diventato fonte di stress e ansietà ora che gli americani temono di scivolare fuori dal benessere, rendendo la parola un boomerang se usata in campagna elettorale. Con l’apparente virata a sinistra nelle primarie democratiche per le presidenziali del 2020, questa tendenza è probabile che continui.
Tutto ciò ha senso: i cosiddetti appartenenti alla classe media, così definiti in base al reddito, fanno fatica. Indebitati per importi di decine di migliaia di dollari – che siano debiti studenteschi, carte di credito, o debiti sanitari – molti di loro fanno fatica a tenersi la casa, se ne hanno una, e spesso non hanno nemmeno dei risparmi per assorbire il colpo in caso di emergenza medica. Molti di coloro che sono chiamati classe media, soprattutto i millennial, non hanno mai conosciuto la stabilità economica, e vivono la minaccia di licenziamento e ulteriore impoverimento come una spada di Damocle che pende sulle loro teste. Con il costo medio di un asilo – 9.589 dollari annualmente – ormai più alto delle tasse per un college statale, e con le tasse per i college più costose che mai, sono davvero poche le persone che vivono in maniera confortevole. Per dirla con Anat Shenker-Osorio nell’Atlantic, «sembrerebbe che siano proprio gli appartenenti alla classe media i nuovi poveri». Ma con il Pew Charitable Trusts che ha scoperto che una famiglia americana su tre non ha nessun tipo di risparmio, non possiamo dire che la classe media «sembra» essere povera: lo è.
Se fosse soltanto un cavillo linguistico sarebbe una cosa, ma c’è una ragione se i comunisti negli anni Trenta litigavano sulla questione – perché ha delle ricadute organizzative. Invece che essere semplicemente inutile, la “classe media” e le sue trappole ideologiche rappresentano un ostacolo al coinvolgimento politico. Se si è sperimentata una povertà grave, o se qualcuno che amiamo la sta vivendo, è naturale essere grati di guadagnare qualcosa in più del minimo sindacale – o addirittura sentirsi in colpa per non aver avuto un simile destino. Questo senso di colpa stoppa l’attività politica sul nascere. Forse non esiste nessuna emozione più smobilitante.
Se ti senti in colpa per quello che hai – che sia l’assicurazione sanitaria, o un lavoro d’ufficio, o un tetto sopra la testa – sapendo che potrebbe andarti peggio, esiti a chiedere di più. Se ti sei associato a un sindacato di lavoratori di fabbrica e non lavori in una fabbrica? Be’, potresti credere che non sia giusto organizzarti insieme ai tuoi colleghi, anche se i tagli salariali, le molestie sessuali o la discriminazione razziale sono ovunque nel tuo luogo di lavoro. Se la classe è soltanto un fattore identitario, e non una relazione con le persone attorno a te e con l’apparato produttivo, chi sei tu, infermiera, grafico, per pretendere la stessa identità di un minatore di carbone? La sola logica conclusione è ripeterti quanto sei fortunato.
C’è una ragione per cui abbiamo bisogno di tornare ai vecchi termini, quelli che ci definiscono non in base al nostro rapporto con il resto della popolazione degli Stati Uniti, o globale, ma in relazione al capitale. In altre parole: oggi siamo tutti working class.
Una questione di classe
Certamente, non intendo tutti tutti. La nostra è una società fatta di lavoratori, lavoratrici, e padroni. La classe capitalista – i padroni – è il nostro antagonista. Loro si guadagnano da vivere con il nostro lavoro, o con i dividendi del nostro lavoro, o da ricchezze ereditate (quelle che i loro genitori e nonni hanno preso ai nostri genitori e nonni). Ci sono anche i padroni di casa, che si guadagnano da vivere estraendo valore dalla proprietà, rivendicando diritti esclusivi sopra un pezzo di terra e facendoci pagare l’accesso. E i manager, anche se non sono capitalisti, detengono il potere disciplinare sopra i loro sottoposti, il che li mette a loro volta in una posizione distintiva. Ma tutti gli altri e le altre, costrette a vendere il loro lavoro per la libertà di non morire di fame? Benvenuti nella working class.
Ora, il mio non è un tentativo di appiattire le differenze interne alla classe, o la distinzione tra settori, equiparando industrie diverse come la logistica e la cura della persona, le telecomunicazioni e l’ingegneria informatica. Terry Eagleton diceva che «gli uomini e le donne non vivono soltanto di cultura; la vasta maggioranza di loro da sempre ne è stata totalmente privata, e quei pochi che sono abbastanza fortunati da viverci ora sono in grado di farlo grazie al lavoro delle persone che non possono», e ha ancora ragione. Molti dei lavori da colletti bianchi sono, per una persona nella media, preferibili – e anche meno gravosi per il fisico – al loro corrispettivo poco pagato nel settore dei servizi o nella manifattura. Mentre i miei amici che lavorano nel settore edilizio fanno più soldi di me, e insistono nel dirmi che sono un babbeo nel cercare un lavoro da colletto bianco, io sono contento di avere un lavoro che non richieda di stare in piedi tutto il giorno, con tutti i problemi di postura che ho.
E se la distinzione non è più così evidente in termini di reddito, alcuni lavori hanno ancora uno status più elevato di altri, e molti di quelli che fanno lavori ad alto status sociale hanno idee reazionarie riguardo al potere. Se le idee dominanti sono quelle della classe dominante, be’, avere dei legami con le élite, o essere andati nelle loro stesse scuole, potrebbe rafforzare la presa di alcune di queste idee, producendo, ad esempio, un’interpretazione speculare del rigido sistema delle classi statunitense («Hey, conosco molte persone ricche – quindi chiaramente alcune persone possono diventare ricche. Forse sono gli altri che non si impegnano abbastanza»). Sia che chiamiate le persone corrispondenti a questa descrizione «classe di manager professionisti», come fanno Barbara e Jon Ehrenreich, o abitanti di una «posizione contraddittoria in termini di classe», per dirla con le parole di Erik Olin Wright, queste definizioni debbono essere contrastate. Alcuni non saranno convinti; si schiereranno dalla parte dei dirigenti, diventando, per usare le parole dei compagni del Pc, «luogotenenti culturali della classe capitalista». E così sia; non possiamo guadagnare tutti alla nostra causa. Fortunatamente, non ce n’è bisogno.
Quest’argomentazione non deve essere confusa con l’essere ciechi rispetto alle differenze di potere tra i lavoratori e le lavoratrici delle diverse industrie – i camionisti e le insegnanti, i falegnami e le impiegate di Kickstarter hanno a disposizione leve diverse da usare contro il capitale, e discutere di quale settore sia meglio posizionato per accumulare potere per la working class è tutt’altra cosa. I lavoratori della logistica, dei trasporti e della manifattura possono infliggere costi particolarmente elevati al capitale se si rifiutano di lavorare. Insegnanti e infermiere in anni recenti hanno dimostrato a loro stesse di voler scioperare, e di volerlo fare a vantaggio di un pubblico più vasto – e questo li rende settori cruciali. Possiamo tenere a mente questi fatti, insieme con la consapevolezza che coloro che subiscono le condizioni di lavoro peggiori (in parte per via di leggi sul lavoro negligenti e di uno stato carcerario) – i lavoratori e le lavoratrici dei fast food, del lavoro domestico, i e le sex worker – hanno la necessità urgente di organizzarsi, e hanno bisogno della solidarietà dell’intera working class, mentre diamo il benvenuto nella lotta per costruire il potere di classe a coloro che un tempo si sono pensati come classe media.
Tutte e tutti abbiamo bisogno di un sindacato
La maggioranza dei milionari pensa a sé stessa come classe media, e così fanno le persone le cui madri «contavano gli spicci per il pranzo da infilare nella cartella». Quando un termine arriva a significare cose così diverse, vale la pena chiedersi a che serva utilizzarlo. È facile: serve a smobilitare le persone, a trattenerle dall’organizzarsi. In breve, aiuta i ricchi, non i poveri.
L’era della sicurezza della “classe media” di cui parlano nostalgicamente i politici (mettendo tra parentesi il fatto che sia esistita soltanto per un piccolo segmento sproporzionato di maschi bianchi americani) è stata possibile grazie ai lavoratori e alle lavoratrici, organizzati in sindacati, che hanno rivendicato una fetta più grande del profitto generato dal loro lavoro. Molti e molte di noi non hanno più un sindacato di riferimento. Cosa vuol dire? Che se vuoi una vita migliore, devi organizzarti per ottenerla. La classe dominante non concede sicurezze; dobbiamo strapparle.
A questo punto, tutti quelli convinti che la working class sia un’identità morale, e non una relazione con il capitale, staranno scuotendo la testa, lamentandone la gentrificazione. Ma categorizzare le persone in qualità di “lavoratori” e “lavoratrici” non segue una gradazione basata sul reddito, e non è nemmeno un giudizio sul loro valore etico o morale – dopo tutto, le persone della working class sono semplicemente persone; possono essere stronze come chiunque altro. E sebbene l’essere “working class” possa diventare un fattore identitario (ormai qualunque cosa può diventarlo in questi tempi, e va bene così), di fatto è irrilevante: o sei costretto a vendere il tuo lavoro per vivere, oppure no. Insistere nell’escludere i colletti bianchi dal ricorso all’azione collettiva appartiene alla logica dell’ideologia anti-sindacale. (O, come ha detto un fabbro al picchetto del recente sciopero dei laureati alla Columbia University quando gli ho chiesto di commentare il ragionamento secondo cui laureati e laureate non si “meriterebbero” i sindacati visto che possono guadagnare bei soldi e il loro lavoro non è estenuante sul piano fisico: «Ogni lavoratore ha bisogno di un sindacato»). La società è divisa in classi – lo stiamo semplicemente facendo notare.
Si è parlato molto recentemente della proletarizzazione dei colletti bianchi – e giustamente, data l’erosione crescente delle condizioni lavorative – non è una cosa nuova, e quelli che stanno sindacalizzando i loro luoghi di lavoro non aderiscono certo a una sorta di capriccio da millennial. I radicali di questa nazione lo teorizzavano già negli anni Trenta, dopo la Depressione – un momento chiarificatore, quando le trappole dello status si rivelarono sottili come carta, e il sogno americano un offuscamento, un ostacolo. Mi suona familiare.
*Alex N. Press è un collaboratore di Jacobin. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
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