Full Metal Masterchef e lo sfruttamento postfordista
Oggi ricomincia il talent show culinario di maggiore successo. Analisi di uno spettacolo e della sua funzione ideologica: trasmettere l'etica del lavoro contemporaneo
Perché i media fanno quello che fanno e dicono quello che dicono? Per vendere e conquistare ascolti o per diffondere ideologie? I mezzi di comunicazione sono imprese che vendono prodotti e cercano di massimizzare i profitti, o sono soprattutto organizzazioni ideologiche? E se sono tutte e due, in che relazione stanno queste due cose tra loro? Da molto tempo la sociologia della comunicazione accademica ha propeso per la prima ipotesi: i media sarebbero semplicemente aziende che vendono prodotti. L’ideologia non c’entra. Basta parlare di ideologia. L’ideologico è chi ci vede dell’ideologia. Così, si è spesso rinunciato a capire in che modo i prodotti della comunicazione di massa contengano ideologia. Eppure molto del senso comune nasce nei luoghi meno sospetti. L’ideologia è al suo massimo quando non sembra ideologia. Come accade nei prodotti di puro entertainment.
Ad esempio Masterchef, una delle trasmissioni più popolari, viste, cliccate e replicate degli ultimi anni. Per i pochi che non ne hanno mai visto nemmeno uno stralcio, spieghiamo velocemente in cosa consiste. Si tratta di una gara di cucina tra cuochi dilettanti. È un talent show in cui, dopo selezioni che coinvolgono centinaia di persone, venti aspiranti chef si contendono per due mesi il titolo di Masterchef d’Italia, a furia di piatti e test in cui sono giudicati da quattro giudici Mega-Chef tra i più grandi della cucina italiana, di cui il più famoso è stato (ora purtroppo non c’è più perché è tornato al suo vero amore, la cucina) Carlo Cracco, idolatrato e temuto da tutti i concorrenti, anche per il suo sguardo estremamente magnetico che ti inchioda davanti allo specchio, mettendo a nudo la tua anima, per forza debole e incerta di fronte alla sua ieratica grandezza.
Ad ogni giudice il suo ruolo
Tra i giudici storici del programma c’è una certa divisione dei compiti, da sceneggiatura. Perché a Masterchef tutto è sceneggiatura. C’era Cracco, appunto. C’è Bruno Barbieri, bonaccione bolognese, lo chef della porta accanto che però ha un bel po’ di stelle Michelin e aveva aperto un ristorante a Londra, portando nel mondo il verbo della Cucina Italiana e della Tradizione (rivisitata). Poi c’è Antonino Cannavacciuolo, carota e bastone, campione di spot pubblicitari di ogni tipo, spartano ma anche, se necessario, duro come un fratello maggiore che ce l’ha fatta, capace di dare pesantissime pacche sulle spalle che ne testimoniano al contempo la forza e l’umanità. Infine, il supermanager, quello che non è chef ma dirige una catena mondiale di ristoranti e quindi ne sa, perché sa come si fa business col food: è l’Archetipo della trasmissione, il fondatore, colui che l’ha importata dagli Stati uniti e ne detiene il codice: Joe Bastianich.
Masterchef è una gara quindi, un gioco, una competizione. Chi arriva primo vince il titolo, 100 mila euro e una certa notorietà. Ma il modo in cui la vittoria è descritta e raccontata dai giudici nel corso di tutte le puntate da sette stagioni a questa parte, la vittoria non è solo questo. È molto, molto di più.
Chi vince, vince il sogno: cambiare vita, diventare un altro, diventare veramente sé stesso, quel sé stesso che finora non si è potuti essere ma che Masterchef ti può far scoprire, se ti concedi completamente a Lui. I concorrenti sono portati a dire che per loro Masterchef è la possibilità di questo sogno, della nuova vita, del vero Sé finalmente emerso grazie alle lezioni di cucina e di vita, dure ma giuste, dei giudici. Questo sogno briatoriano (da Fausto Briatore, colui che coniò l’espressione: «Alla gente bisogna dare il sogno») viene messo nelle mani dei giudici, che lo custodiscono, lo sorvegliano e costantemente lo misurano, valutando quanto il concorrente stia davvero cercando di inseguirlo e di separarsi con sdegno e un po’ di disprezzo dal suo sé stesso precedente e da quella vita ordinaria fatta di lavoro, famiglia, amici, provincia e anonimato. Il sogno è superare l’ordinario, entrare nello straordinario, diventare qualcuno, essere davvero qualcosa.
È un accordo faustiano quello tra i giudici e i concorrenti: io ti do la possibilità di entrare nello straordinario, o almeno di lambirlo assorbendo la grandezza che emana dagli chef e dalle telecamere; tu, concorrente, in cambio mi dai la possibilità di giudicarti, commentarti e misurarti (e magari insultarti, deriderti, dileggiarti) non solo per come cucini, ma per come ti comporti, per come sei, per la tua personalità, per le tue innumerevoli mancanze, per la quantità di spirito imprenditoriale che stai o non stai acquisendo. Quello spirito imprenditoriale che consiste nel rischiare tutto per realizzare il sogno.
Quando i tremebondi concorrenti portano il piatto di una prova al cospetto del giudice-Dio, con l’aria di chi sta affrontando il giudizio universale, i giudici non giudicano mai solo il piatto, ma il concorrente come persona sempre deficitaria e insufficiente: giudicano se l’aspirante Masterchef sta o non sta mostrando la sua vera personalità, se finalmente ha deciso di migliorarsi, uscire dalla squallida condizione in cui versava prima e diventare sé stesso, se vuole davvero vincere e sta facendo tutto per farlo, se sta dimostrando di mettere nei piatti tutto sé stesso per essere quella personalità adeguata ad avvicinarsi al sogno. Per vincere bisogna fare tre cose: competere, essere originali, essere obbedienti e adulanti coi capi-chef-giudici.
Lotta e concorrenza
Bisogna essere molto agguerriti. Su questo i giudici insistono molto: non siamo qui per giocare. Dispensano molti buoni consigli soprattutto in dispensa, quando si trovano da soli con uno dei concorrenti e gli dicono: «Eh ho capito che quello è tuo amico, ma adesso puoi dargli un bel colpo», «Sì lo so che ti è simpatica, ma tu devi pensare che è una concorrente, potrebbe batterti», «Ah tu dici che siete diventati amici, ma sai cosa dice di te in realtà?», «Sicuro sicuro che avete un bel rapporto. Ricordati che quando ha potuto scegliere, ti ha messo in difficoltà», «Sì abbiamo capito che tra di voi sta nascendo qualcosa, ma ricordati che sei qui per realizzare il tuo sogno e lui è uno dei più forti. Sii strategica, io al tuo posto lo metterei in difficoltà».
Insomma, non esiste niente, solo lotta e concorrenza. Bisogna mettere in difficoltà gli altri, puro ostacolo tra sé e il sogno. E se uno non riesce a essere così, glielo si fa pesare come inadeguatezza. Non può diventare nemmeno uno Chef, forse nemmeno un modesto sous-chef. Perché un vero cuoco è un capo, e un capo non riconosce altri capi. Quindi i giudici aizzano continuamente, con fare ammiccante, la concorrenza e la divisione tra i concorrenti, soprattutto quando tra di loro sembra nascere qualche bella relazione personale o qualche sentimento di comunità. Questo va spezzato immediatamente. E molti concorrenti sono intervistati, in un confessionale tipo quello del Grande fratello, in momenti in cui dicono che loro sì, sono veramente agguerriti, «Sono venuto qui per vincere e vincerò», «Arriverò al sogno». E i giudici fanno scene di giubilo quando i concorrenti dicono così: «Ora sì che ci stai dimostrando che vuoi davvero arrivare al sogno, che vuoi cambiare, che non vuoi più essere quello di prima». Perché Masterchef ti deve trasformare nella persona che non eri, ma che in realtà sei, in fondo a te stesso.
Originalità
Bisogna essere molto originali. Per chi ha qualche confidenza con le riviste accademiche, è un’originalità abbastanza simile, quella che viene richiesta a Masterchef: originalità non è uscire dal canone, ma spostare una virgola nel canone più affermato. Non è inventarsi un’altra cosa, ma fare la stessa cosa con una micro-variazione. Ogni piatto dev’essere originalissimo. Dev’essere unico, perché dentro questa originalità unicaspeciale si deve riflettere l’originalità unicaspeciale della persona che prepara il piatto e che ci mette dentro «tutta sé stessa». Se nel piatto non c’è la persona, non è un Piatto. Sì è carino, è buono, ma non è un Piatto, «Non mi hai emozionato», «Non mi hai raccontato la tua storia», dice il giudice. Se uno fa una cosa molto buona e saporita, e pure bella, non è abbastanza, perché «la cucina è un’arte», nell’arte ci deve essere tutto il Soggetto, e «il cibo è vita» (forse la cosa più importante della vita e del mondo e dell’universo), quindi tutto questo non vale niente se non ci sono creatività e originalità.
Ma cosa sono, alla fine, la creatività e l’originalità? Semplice: cucinare come si cucina nei ristoranti stellati da 50 euro ad antipasto, e in particolare come gli Chef. La Cucina dei giudici-chef è il Canone, la Norma, la Forma a cui ci si deve avvicinare. Il massimo complimento che i giudici fanno è: «Sembra un piatto di Cracco», «Sembra un Barbieri», «C’è qualcosa del Cannavacciuolo», come fossero Opere. La creatività e l’originalità hanno quindi una sovranità molto limitata: se l’aspirante chef mette nella cucina tutto sé stesso, se si esprime veramente, se è lì che cerca la sua vera identità, alla fine, in fondo a sé stesso, come sua profonda verità ed epifania trova…Cracco! È quella la forma suprema a cui si può arrivare.
Disciplina e gerarchia
Ed eccoci al terzo punto, necessario per vincere: disciplina e gerarchia. Certo, realizzare sé stessi è molto importante. Scoprire la propria autenticità è fondamentale. Essere creativi e originali è imprescindibile.
Ma intanto, testa bassa e pedalare. Masterchef è un po’ Full Metal Jacket: i concorrenti diventano tanti Palla di lardo:
- «Va bene chef»
- «No, devi dire: Sì, chef!»
- «Sì»
- «Sì chef!»
- «Sì, chef!»
- «Così va bene»
Oppure, con il piatto appena giudicato dal Giudice, magari uno prova a dare una spiegazione delle sue intenzioni, non pienamente colte dal Giudice nonostante la sua suprema arguzia e infallibile esperienza:
- «Guardi chef, io veramente volevo fare…»
- «Pensi che io non abbia capito cosa volevi fare?»
- «No chef, ma forse non ha colto…»
- «Metti in dubbio quello che dico? Io ho capito quello che volevi fare, ma il risultato fa schifo»
E via con uno sguardo penetrante, insistito e sottomettente.
Masterchef è una caserma, un esercito fatto di soldati semplici che devono obbedire ai generali (anche qui svaniscono i corpi intermedi, diciamo). Figuriamoci se uno esprime un’opinione personale, o se addirittura azzarda un contenzioso con Dio.
«Il tuo piatto manca di sale», dice lo chef
- «No chef, io il sale ce l’ho messo»
- «Assaggia»
- «No chef, grazie chef, ho già assaggiato chef»
- «Assaggia!», e dopo un cucchiaio ficcato in bocca come all’asilo: «Allora, è salato?»
- «No chef, non abbastanza»
- «E perché non mi hai creduto quando te l’ho detto? Forse non hai capito che sei qui per imparare. Sei arrogante».
E poi il Giudice, rivolto a tutti i discepoli:
- «Voi ci dovete ascoltare sempre!».
- Coro: «Sì chef!».
Educare al lavoro creativo ma conformista
Cosa sembra tutto questo? Un’azienda contemporanea.
Masterchef è un luogo di lavoro. Educa il concorrente, ma attraverso di lui lo spettatore, la gente comune che si identifica con i cuochi debuttanti, ad essere il lavoratore subordinato adeguato all’economia contemporanea. Non è un’educazione fordista. Non si chiede solo disciplina, routine, capacità di esecuzione. È un’educazione a essere lavoratori e cittadini subordinati dell’economia postfordista, dell’economia della conoscenza, del capitalismo digitale. Come si scrive nei manuali di management o nei libri dei Ceo, nella nuova economia il lavoratore deve essere allo stesso tempo originale e militarizzato, creativo e conformista, performante e «artista», competitivo e ‘capace di lavorare in team’, superindividualizzato e comunitario, autonomo e sottomesso. Il lavoratore deve mettere nella produzione «tutto sé stesso», far convogliare nell’atto produttivo le sue emozioni e la sua personalità, e fare in modo che la merce veicoli emozioni, storie e simboli, come i giudici pretendono dal Piatto di Masterchef.
La creatività è a sovranità limitata, è ripetizione leggermente variata del canone su cui è basata la competizione. Masterchef somiglia alle aziende dell’economia avanzata: è atelier più esercito, individualismo più mimetismo, differenza più appiattimento di ogni differenza, creatività più gerarchia, autonomia più team, inseguimento del Sogno più affidamento del Sogno all’autorità del Capo. Non lavoriamo spesso in contesti simili?
Per questo, Masterchef oltre che un prodotto, molto ben fatto per raggiungere un pubblico ampio e ‘fidelizzarlo’, ma è soprattutto un veicolo di ideologia.
*Loris Caruso è ricercatore in sociologia politica alla Scuola Normale Superiore. Si occupa di teoria politica, movimenti sociali e trasformazioni del lavoro.
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