Ieri, ora e sempre fratelli Cervi
Dopo il 25 luglio del 1943, per l'arresto di Mussolini, offrirono pastasciutta a tutto il paese. Oggi la storia di questa famiglia assume nuova vitalità di fronte a una politica che guarda con imbarazzo la matrice resistenziale della Repubblica
La memoria dei fratelli Cervi ha a sua volta una storia, che nei tre quarti di secolo di vita dell’Italia repubblicana si intreccia con quella, irta di ostacoli, del «paradigma antifascista». Mentre in tutta Italia si organizzano «pastasciuttate» in ricordo di quella che i Cervi offrirono alla popolazione per celebrare la caduta del fascismo del 25 luglio 1943, ne scrive uno degli storici che ha collaborato alla realizzazione del nuovo allestimento di Casa Cervi. Per riannodare i fili della storia e ribadire l’attualità dei valori per i quali i sette fratelli hanno combattuto.
La memoria della lotta partigiana non è mai stata un monolite, ma la vicenda dei fratelli Cervi è stata forse l’unica a dimostrare una persistenza eccezionale, per la sua natura polisemantica, nella storia della memoria resistenziale, sebbene ci sia voluto del tempo perché si imponesse. Le ragioni del suo messaggio in potenza e spesso in atto rappresentativo di una parte considerevole dell’arco antifascista sono da rintracciare nei fatti storici in sé – erano sette fratelli, un unicum drammatico –, nel luogo in cui la violenza fascista andò in scena in un paese per oltre un secolo a trazione contadina – le campagne dell’Emilia «rossa», epicentro della lotta nell’Italia centrale – e nell’appartenenza plurima della famiglia, con una forte matrice cattolica sfociata in un impegno smaccatamente comunista ma in maniera comunque non ortodossa. Sotto certi aspetti, a voler rimandare a un’immagine nota, pare di vedere la celebre foto di Coppi e Bartali al Tour de France del 1952, pensando ai Cervi, alla loro memoria e al potere evocativo di questa storia.
I padri e i martiri della Resistenza (1945-1960)
Alcide Cervi, che dall’immediato dopoguerra sceglie di essere testimone – con le vedove dei suoi figli e i nipoti – della storia dei sette fratelli, si candida così a essere uno dei grandi «padri della Resistenza» e della Repubblica che con molte fatiche dalla Resistenza è nata. Il sacrificio dei figli migliori del paese, declamato anche da Ferruccio Parri fin dal pacato e commosso discorso all’Eliseo del maggio del 1945 (il primo tentativo, forse, di fare la storia della guerra partigiana), è sottolineato a più riprese dai noti discorsi retorici di Piero Calamandrei, pur scettico nei confronti della scelta del figlio Franco durante la guerra, e da quelli più infuocati, successivi, di Sandro Pertini. All’interno di un discorso resistenziale che viene anche usato nello scontro politico, come mostrano ad esempio le furibonde polemiche tra Luigi Longo e Raffaele Cadorna nel 1953 intorno alla «legge truffa», la proposta di legge elettorale in senso maggioritario della Democrazia cristiana, papà Cervi tiene alta la fiaccola della memoria composita – contadina, familiare, rossa con venature bianche – della lotta di liberazione. Che a suo modo può pacificare almeno parzialmente gli ex alleati divenuti avversari nel contesto della Guerra fredda che possono tentare di riconoscersi in un antifascismo esistenziale e fortemente legato al territorio. Il suo messaggio pare così imporsi come ecumenico per una vasta area dell’opinione pubblica, non solo comunista, che si ispira all’antifascismo: basti pensare alla fortuna editoriale de I miei sette figli, parallela e convergente rispetto a quella delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza.
La centralità acquisita da Casa Cervi dopo i «fatti di luglio» del 1960, culminati nella strage di Reggio Emilia con cinque operai uccisi dalle forze dell’ordine durante una manifestazione sindacale, mostra il tentativo di tessere un fil rouge tra la lotta di ieri e quelle di oggi, e domani: il ricordo dei caduti deve essere affiancato a una rivendicazione delle loro scelte da vivi.
Gli storici partigiani (1964-1971)
Il venir meno di una dimensione martiriologica della narrative resistenziale ha permesso ai primi storici della Resistenza, tutti anche protagonisti della guerra di liberazione, di acquisire centralità nel discorso pubblico sui «venti mesi» proponendone grandi affreschi non scevri di afflati mitologici ma storicamente documentati (pur sempre contrastati da opere apologetiche dell’esperienza di Salò, su tutte quelle di Giorgio Pisanò): le nuove edizioni della pioneristica Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia (dal 1964), presto affiancate dalla sintesi di Giorgio Bocca (1966), prendono le redini del discorso resistenziale. Solo un quarto di secolo dopo arriverà Una guerra civile di Claudio Pavone (1991), un lavoro monumentale per molti versi insuperato che oltre a tripartire la lettura della parabola partigiana nelle note tre «guerre» (di liberazione, civile, sociale), si interroga a fondo sulla «moralità» della lotta armata e prende definitivamente le distanze, almeno nei toni, dalle letture più apologetiche.
Parallelamente la Resistenza, già raccontata anche nei gangli più problematici dalla letteratura (Calvino, Fenoglio, Meneghello), diventa un affare anche del cinema militante sorto alla fine degli anni Sessanta, e il film di Gianni Puccini I sette fratelli Cervi (1968) «entra in sintonia con le spinte libertarie del movimento del ’68», come ha rilevato Claudio Silingardi, così come quello che narra la vicenda – vicina geograficamente e certo più hollywoodianamente «avventurosa» – del partigiano Silvio Corbari (Corbari, di Valentino Orsini, 1970) e il contemporaneo e celeberrimo Giù la testa di Sergio Leone (1971) anticiperanno in diversi loro aspetti la stagione della lotta armata.
La crisi del paradigma antifascista (1980-1994)
Gli anni Settanta, che già covano attacchi anche intestini all’egemonia culturale del discorso resistenziale, sono il preludio della crisi, e forse non è un caso che Alcide Cervi muoia proprio all’alba del decennio di grande partecipazione in cui torna anche la violenza politica – le stragi, il terrorismo nero, il terrorismo rosso che cerca di intestarsi l’eredità della guerra partigiana –, lasciando così orfana l’Italia intera di uno dei suoi più ferventi cantori che avrebbe forse potuto portare un contributo significativo per depotenziare l’escalation di violenza che affianca e sovrasta le conquiste sociali.
In ogni caso la tenuta della memoria resistenziale frana negli anni Ottanta e si impone una «memoria grigia» del paese che si vuole liberare della pluridecennale contrapposizione fascismo/antifascismo e Resistenza/Salò: proprio gli eredi della memoria repubblichina, giunti al governo dal 1994, incrinano definitivamente il «paradigma antifascista» che, pur non essendosi mai pienamente imposto, aveva retto per quasi mezzo secolo. Questo dona una ritrovata vitalità anche a Casa Cervi e a tutto quello che rappresenta: nonostante gli attacchi mediatici che seguono il crollo del mondo comunista non risparmino gli stessi fratelli Cervi, intorno al loro ricordo si addensano manifestazioni e iniziative volte a rivendicare il messaggio della loro parabola umana.
Revisionismo e memoria vs storia (2001-2020)
Nonostante pregevoli lavori di sintesi come quelli di Santo Peli, l’ultimo quarto di secolo vede emergere un’offensiva revisionista capeggiata da Giampaolo Pansa che con prepotenza scardina la maggior parte delle acquisizioni della ricerca storica: un racconto della Resistenza che nei decenni precedenti aveva spesso teso al western e aveva talvolta taciuto le cosiddette «zone d’ombra» si piega su sé stesso, difendendosi dagli attacchi che accusano il partigianato di essere stato un movimento sanguinario. Ci si rifugia così in gran parte nelle molte «altre» Resistenze, in netta prevalenza senz’armi o con una spiccata connotazione patriottica, perdendo i caratteri fondanti dell’esperienza partigiana: il ricorso alla violenza «giusta» in un contesto di guerra e il suo non trascurabile carattere internazionalista in particolare, con migliaia di combattenti non italiani che lottavano fianco a fianco con i partigiani locali. Oltre a una generica lotta contro l’«invasore», svuotata dalle sue connotazioni antifasciste, a emergere è soprattutto la «resistenza civile», humus indispensabile perché decine di migliaia di persone in armi si potessero organizzare e combattere, ma non sufficiente. La resistenza armata, cui pure i fratelli Cervi avevano contribuito, è messa alle corde nel discorso pubblico, complice anche un poderoso emergere della figura della «vittima», intesa tout court e non più come martire.
Non è da escludere che la forte contrarietà dei Cervi alla guerra fascista prima e il fatto che non abbiano potuto prendere parte, armi in mano, alla lunga stagione resistenziale essendo fucilati agli albori della lotta, abbia contribuito alla tenuta, nel sentimento popolare, del loro «mito», che riesce a inscriversi anche nel montante «paradigma vittimario» degli ultimi vent’anni.
Il ritorno degli storici?
Sarebbe da restituire al senso comune, credo, la storia a parte intera: è vero che Casa Cervi evoca «una storia di sofferenze, violenze, lutti ma anche di volontà, impegno, coraggio di compiere scelte difficili», come ha rilevato ancora Silingardi.
Certamente, per assolvere questo compito, e per potere raccontare tutta la storia dei fratelli Cervi – non solo il suo esito drammatico – è fondamentale che gli storici e le storiche tornino a occuparsi di questa vicenda a suo modo archetipica, potenzialmente ecumenica anche oggi per la memoria pubblica di un paese sperduto, con una politica che guarda con disprezzo, sarcasmo o imbarazzo alla matrice antifascista e resistenziale della nostra Repubblica.
Si può fare, credo, rimarcando proprio le scelte che permettono di leggere la loro parabola nella sua complessità: il loro avvicinamento all’ideale comunista all’interno di un mondo con una tradizione secolare incardinata nella religione, il loro ferreo rifiuto della guerra d’aggressione fascista e della logica nazionalista/patriottica, il loro avere aperto casa ai rifugiati e ai combattenti di ogni nazione, il loro aver optato per la lotta armata in collaborazione con persone di anime politiche diverse, il loro aver saputo portare all’estremo, naturalmente loro malgrado, le conseguenze della scelta fatta. Rifuggendo la retorica, per quanto possibile, anche gli storici sono costretti ad ammettere che è difficile da rintracciare una storia altrettanto luminosa, in centosessant’anni di storia d’Italia.
* Carlo Greppi, storico e scrittore, è membro del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che coordina la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia. I suoi ultimi libri sono La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet 2020) e L’antifascismo non serve più a niente (Laterza 2020), primo volume della serie a cura sua Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti. Nel 2020 ha fondato, insieme a diversi colleghi e colleghe, il sito di storia pubblica lastoriatutta.org
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