Il 25 aprile è un campo di battaglia
La Resistenza ha valore soltanto se riusciamo a riconoscere quel conflitto nelle forme odierne. Il contrario della memoria condivisa
«Intuivo allora, senza saperlo, che la Resistenza antifascista non era stata un freddo monolite con la erre maiuscola, né solo una stagione di disciplina e rettitudine, venata magari da un certo fanatismo, ma qualcosa di concreto, diffuso, contraddittorio anche, ma condiviso, nel concreto eroismo quanto nella sua materiale miseria. […] Doveva esserci una ragione che non aveva a che fare solo col passato se, nel mio tempo, la memoria di quella gente da niente, come loro e come noi, rischiava di perdersi proprio nel farsi rito, fino a ricomprendere persino quella del nemico, coniando concetti illogici come “memoria condivisa”, e al punto da mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, perché “i morti sono tutti uguali”. E la ragione non poteva essere altro che il fatto che quella storia faceva ancora paura». Andrea Olivieri, Una cosa oscura, senza pregio (Alegre Quinto Tipo, 2019)
Da oltre un ventennio il motivo della memoria condivisa occupa stabilmente lo spazio del discorso pubblico sulla fondazione dello Stato repubblicano. Per i suoi fautori, le ragioni della guerra civile tra fascisti e antifascisti andrebbero superate una volta per tutte, in nome del comune riconoscersi della nazione nei valori costituzionali: è la “liberazione senza antifascismo” di cui ha parlato la storica Vanessa Roghi. E i suoi fautori provengono anche, se non principalmente, dal centrosinistra. Sono personalità con una lunga storia all’interno del Pci / Pds / Ds / Pd: Luciano Violante (di cui si ricorda soprattutto il discorso d’insediamento alla presidenza della Camera dei Deputati) e Giorgio Napolitano, per non fare che due soli nomi. Quindi si può ben dire che la memoria condivisa sia stata e sia ancora un instrumentum regni.
Nel saggio La crisi dell’antifascismo (Einaudi, 2004), lo storico Sergio Luzzatto scriveva: «Credo sia venuto il momento di dire ai cattivi maestri – votino a destra o a sinistra – una cosa semplicissima, ma di dirla forte e chiara: la guerra civile combattuta tra il 1943 e il 1945 (o 46) non ha bisogno di interpretazioni bipartisan che ridistribuiscano equamente ragioni e torti, elogi e necrologi. […] Si può condividere una storia […] senza per questo dover dividere delle memorie». Quindici anni dopo, le parole di Luzzatto colgono una verità che si è fatta ancora più attuale. Nell’agenda della politica politicata, l’antifascismo è assente, quando non apertamente avversato.
Il concetto di “memoria condivisa” presenta almeno due aporie: da un lato, il comune riconoscersi nella Costituzione è tutto tranne che un dato di fatto; la costituzione materiale del Paese è lontanissima da quella formale. Basti pensare a come, ultimo di una lunga serie, il governo Salvini-Di Maio (forse il governo più a destra nella storia della Repubblica) faccia della negazione dell’uguaglianza sociale sostanziale una rivendicazione, con buona pace del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. D’altro canto, postulando il superamento del conflitto fondativo tra fascisti e antifascisti, gli alfieri della memoria condivisa non riescono a riconoscere il ripresentarsi di quel conflitto nelle forme odierne: in altre parole, il fascismo viene inteso solo come una forma storica contingente e conclusa (il regime dittatoriale che si è imposto in Italia tra il 1922 e il 1945), e non anche come un insieme di miti e pulsioni, retoriche e soluzioni politiche che si ripropongono in una situazione strutturale di crisi: quello che Umberto Eco ha chiamato “ur-fascismo” o “fascismo eterno”. Un corollario di quest’interpretazione è la pseudotesi dell’antifascismo in assenza di fascismo, cavallo di battaglia delle destre più o meno estreme, che però capita di sentir riproposto sempre più spesso in ambienti sedicenti democratico-progressisti.
Quest’idea interagisce con (ed è alimentata da) tutta una vulgata antipartigiana, anti-antifascista e filo nostalgica molto radicata nell’immaginario del nostro paese. Una vulgata con i suoi campioni, i più celebri tra i quali sono indubbiamente Indro Montanelli e Giampaolo Pansa. A proposito del ruolo di Montanelli nel plasmare a posteriori l’immaginario nazionalpopolare sul ventennio vanno almeno ricordate due cose. In primis, le ricerche della storica Renata Broggini hanno scosso dalle fondamenta la sua credibilità testimoniale. In secundis, come ha spiegato un altro storico, Mimmo Franzinelli, Nell’immediato dopoguerra Montanelli fu tra i primi a comprendere le potenzialità, politiche e di marketing, dell’operazione riabilitatrice del duce e del fascismo: riabilitare Mussolini permetteva di perpetuare nell’opinione pubblica l’idea che a risolvere i problemi dell’Italia dovesse essere l’uomo forte al comando; idea ben lungi dal tramontare, non solo a destra. Montanelli insisteva nel raccontare di Mussolini le gentilezze, le paure e le piccole meschinità private, tratteggiando nella coscienza collettiva il ricordo del comune individuo e non del dittatore; in un biografismo ombelicale nel quale scompaiono la politica e la storia, e rimane solamente un pugno di aneddoti pruriginosi. Come ha osservato lo scrittore Davide Orecchio, Ciò ha fatto di lui l’intellettuale perfetto per l’Italia che voleva autoassolversi dal fascismo. Eppure Montanelli è assurto dagli anni Novanta a paladino antiberlusconiano trasversale agli schieramenti: criticarlo vuol dire commettere un crimen maiestatis.
Sulle strategie discorsive di Gianpaolo Pansa si sono espressi storici e narratori. Wu Ming 1 ha scritto: «I suoi libri, presentati come inchieste storiche, sono in realtà, in gran parte, opere di fiction. È stato dimostrato, più volte si sono sviscerate le tecniche e gli stratagemmi a cui Pansa ha fatto ricorso da Il sangue dei vinti in poi. […] sono solo libri disonesti, perché nascondono la propria natura ibrida, ne simulano una “oggettiva”, si spacciano per inchieste quando non lo sono».
Affermatasi nel discorso pubblico intorno alla liberazione e alla resistenza, inevitabilmente l’ideologia della memoria condivisa doveva presto o tardi retroagire anche sul racconto della Grande guerra. Lo scorso 4 novembre, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha celebrato la festa nazionale delle forze armate a Trieste. Nel centenario dell’entrata in vigore dell’armistizio tra Italia e Austria, la scelta di Trieste non è stata casuale. Ma per la nostra storia, Trieste di cosa è il nome? Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, le brame su Trieste italiana alimentavano la propaganda interventista; l’irredentismo triestino si nutriva di veementi invettive razziste contro le comunità cittadine non italofone. All’indomani dell’annessione della Venezia Giulia all’italia, quel razzismo si tradusse nell’italianizzazione forzata di un territorio storicamente multiculturale e mistilingue. Il processo iniziò con il regime liberale, e trovò il suo compimento sotto il fascismo. Cent’anni più tardi, l’Italia non ha ancora fatto davvero i conti con il suo passato. Il razzismo, il colonialismo e i crimini di guerra sono il grande rimosso della nostra coscienza. Un assunto che per la storiografia più seria è praticamente scontato, ma che per la politica di palazzo non lo è affatto, anzi.
Negli ultimi tre anni di commemorazioni della grande guerra, l’ideologia e la retorica delle istituzioni non sono mai cambiate. L’entrata in guerra dell’Italia ci è stata sempre raccontata come una necessità storica, e non come una scelta politica dettata da interessi economici e da mire imperialistiche, quale effettivamente fu. Il discorso istituzionale non ha mai problematizzato il dogma secondo cui la guerra e ancor più la vittoria furono momenti unificanti dell’identità nazionale. Lo ha fatto, invece (e per fortuna non è il solo), uno storico e divulgatore rigoroso come Alessandro Barbero, con il libro Caporetto (Laterza, 2017), e con un ciclo di tre lezioni al Festival della mente 2018 di Sarzana.
La retorica ufficiale sulla grande guerra risuona fortissima anche nel Manifesto per il 4 novembre sottoscritto nel 2015 dalla Confederazione tra le associazioni combattentistiche e partigiane. Nel testo si leggono frasi come queste: «I Combattenti, Decorati al Valor Militare, Congiunti dei Caduti, Mutilati ed Invalidi di Guerra, Protagonisti della Guerra di Liberazione e della Resistenza, Reduci dalla Deportazione, dall’Internamento e dalla Prigionia, in memoria della Grande Guerra e della sua conclusione […] MANIFESTANO riconoscenza alle Forze Armate, presidio delle istituzioni repubblicane, ai militari che all’estero rischiano la vita, per la pace e la convivenza tra i popoli e le nazioni e a tutti i combattenti per la libertà».
Tra le associazioni che hanno sottoscritto il manifesto c’è anche l’Anpi. Ma non tutte le sue sezioni l’hanno accettato acriticamente. Uno dei circoli dissenzienti è quello di Pavia, la città in cui vivo. Per non fingere un’inesistente terzietà, dico subito che di quel circolo sono il presidente. A Pavia, dal 2015 l’Anpi non partecipa alle celebrazioni cittadine del 4 novembre, per le stesse ragioni di cui parla questo articolo.
Anche le istituzioni locali si allineano volentieri alla retorica ufficiale sul 4 novembre. Faccio ancora l’esempio di Pavia, dove nel 2018 la prefettura ha organizzato un ciclo di conferenze rivolte alle scuole superiori. Si è trattato, senza troppi giri di parole, di un’iniziativa di propaganda militarista. Già il titolo diceva molto: “Verso la vittoria”. A promuoverla, insieme alla prefettura, il coordinamento delle associazioni d’arma, meglio noto come “Assoarma”, che a Pavia è vicino a Fratelli d’Italia. Di Fratelli d’Italia è anche la curatrice delle conferenze, l’insegnante Paola Chiesa, che ama presentarsi come storica militare, e che nel 2017 è stata insignita del titolo di cavaliere al merito della repubblica. Diversi relatori invitati a parlare hanno rapporti con gli uffici storici delle forze armate; gli altri non sono storici. Il ruolo di questi uffici nella ricostruzione della storia italiana del Novecento è stato molto criticato. In un articolo apparso sul sito di Internazionale, ad esempio, Nicola Perugini ha mostrato come l’ufficio storico dei carabinieri si sforzi tuttora di minimizzare le responsabilità dell’arma per i crimini di guerra commessi dall’Italia, a volte riproponendo pari pari i toni e le giustificazioni della propaganda dell’epoca. Date le premesse, era facile prevedere che gli studenti non avrebbero ascoltato una parola, per dire, sul ruolo dei carabinieri nella folle stretta repressiva ordinata da Cadorna, o sulla totale imperizia dello stato maggiore dell’esercito, che mandò al massacro la massa enorme dei proletari e dei contadini al fronte.
La scelta di Trieste per le celebrazioni nazionali del 4 novembre, dicevo, non è stata casuale: al contrario, è stata perfettamente coerente con quest’ideologia e questa retorica. Già il 24 maggio 2015, il centenario dell’entrata in guerra, fu ricordato a Trieste con la tappa finale della manifestazione “l’esercito marciava”, durante la quale l’allora ministra della difesa Roberta Pinotti portò la fiaccola nell’ultimo tratto della staffetta militare, per poi pronunciare un discorso che pareva un’eco della propaganda interventista di cent’anni prima. Trieste e la Venezia Giulia restano luoghi attraversati da contraddizioni, da rimossi che ritornano. Commemorare a trieste il centenario dell’entrata in guerra e dell’armistizio non ha fatto che riattivarne la fortissima carica simbolica. Contraddizioni e simboli su cui anche i neofascisti hanno provato a fare leva. Quattro anni fa, Casapound aveva celebrato l’entrata in guerra dell’Italia con un corteo a Gorizia, il 23 maggio. L’anno scorso ci ha riprovato con un corteo nazionale a Trieste il 3 novembre. Ma quel giorno, un’imponente manifestazione convocata dalla Rete Antifascista di Trieste, organizzata in poco più d’un mese, ha rovinato la festa ai fascisti: il corteo antifascista, anticipato il primo novembre da una storica lezione ai nazionalismi, ha umiliato nei numeri quello di Casapound. Risultato davvero impressionante, dato che quella antifascista era stata convocata come una manifestazione cittadina, mentre quello di Casapound era un corteo nazionale. Come mi hanno detto le compagne e i compagni triestini con cui ho parlato nei giorni immediatamente successivi alla manifestazione: «dobbiamo ancora capire cosa, ma il tre novembre è successo qualcosa di importante per l’antifascismo, non solo in città».
Bisogna ripeterlo, la retorica ufficiale sulla Grande guerra non è solamente una retorica; è il prodotto di due ideologie: quella nazionalista e quella della memoria condivisa. Lo si capisce benissimo leggendo il manifesto per il 4 novembre citato più sopra, in cui prima guerra mondiale, Lotta di Liberazione e odierne missioni militari sembrano formare un tutt’uno.
Per iniziare a ricostruire un argine antifascista solido, dobbiamo prendere posizione contro quest’uso politico della storia, e specialmente contro gli attacchi all’antifascismo, che non di rado provengono direttamente dalle istituzioni. Prendere posizione significa anzitutto reagire a questi attacchi senza metterci sulla difensiva, ma contrattaccando a nostra volta. Così, se l’assessora all’istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan accusa l’Anpi di negazionismo delle foibe e ne invoca lo scioglimento, non è inopportuno far notare che la sua idea della Resistenza, molto eufemisticamente parlando, sconta qualche pregiudizio. Donazzan proviene da un milieu politico in contraddittorio equilibrio tra post/neofascismo e venetismo, come ha scritto il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki nella sua recensione al film Red Land / Rosso Istria: film che Donazzan ha propagandato a tambur battente, proprio per i motivi spiegati in quella recensione. Nel mentre, l’assessora annunciava che, in occasione del Giorno del Ricordo, nelle scuole medie del Veneto sarebbe stato distribuito Foiba Rossa, un fumetto ispirato al quasi omonimo libro Foibe Rosse di Frediano Sessi e incentrato – come Red Land – sulla vicenda di Norma Cossetto. Un fumetto pubblicato da un editore vicinissimo a Casapound e Forza Nuova. Ma per contrattaccare non basta individuare le postazioni da cui si muovono i nemici dell’antifascismo. Che se ne sia produttori o fruitori, è importante approcciare con metodo critico la public history (storia per il pubblico ma anche storia pubblica, discorso pubblico attorno alla storia): con metodo critico vanno vagliate le notizie a tema storico reperite dentro e fuori internet. Per contrattaccare non bisogna opporre retorica a retorica, rifugiandosi in una rappresentazione mitica della Resistenza, sottratta all’indagine storiografica. È necessario continuamente affermarne la natura di fenomeno conflittuale, la cui memoria non può essere condivisa dalle opposte fazioni. Va riaffermata la provenienza della lotta antifascista dalla storia del movimento operaio e bracciantile, ragione per cui non può darsi anticapitalismo senza antifascismo. Nel libro Le donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana (Feltrinelli, 1995), Giovanni De Luna ricorda che su 5.620 antifascisti processati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, 3.898 erano operai e 546 contadini.
Soprattutto, e non vorrei che la formula suonasse troppo trombonesca – detta da me che non sono nessuno – è di vitale importanza tornare a narrare: a cantare l’epos della Resistenza. È quello che fanno secondo me splendidamente due libri usciti da pochissimo: Una cosa oscura, senza pregio (Alegre Quinto Tipo, 2019) di Andrea Olivieri, da cui proviene la citazione che ho messo qui in esergo, e La Macchina del vento (Einaudi Stile Libero, 2019) di Wu Ming 1, nel quale proprio l’intreccio tra Epica con la e maiuscola e antifascismo è la raison d’être del racconto.
Dobbiamo fare tutto questo, perché l’antifascismo continua ad avere una grandissima capacità di mobilitazione: il corteo di Trieste del 3 novembre 2018, quello di Macerata del 10 febbraio precedente, le contestazioni ai comizi di Casapound e Forza nuova in giro per l’Italia durante la campagna per le ultime elezioni politiche sono lì a dimostrarlo. E a questi esempi aggiungerei senz’altro l’ondata di entusiasmo e di empatia suscitata dal video del gesto di Simone, il ragazzo di Torre Maura che ha affrontato in modo dialetticamente e semioticamente impeccabile i fascisti venuti a fare sciacallaggio politico nel suo quartiere. Per inciso, un commento semiologico azzeccato al discorso di Simone è questo, in cui sono messi in evidenza tutti i punti che Elena Stancanelli, nel suo famigerato tweet, in quelli che gli hanno fatto seguito e nell’articolo scritto poi per Il Foglio, non ha colto.
L’antifascismo è un fronte strategico fondamentale: non dobbiamo lasciare che venga fagocitato dagli interessi di bottega di chi vorrebbe strumentalizzarlo per i suoi scopi personali, di corrente o di partito. Quando questo è successo, in tempi recentissimi, la frattura dal sentire diffuso è stata inevitabile. È stato il caso della manifestazione del 10 febbraio 2018 a Macerata, in solidarietà con le vittime della tentata strage di Luca Traini. Manifestazione alla quale in un primo tempo avevano aderito anche Anpi, Arci, Cgil e Libera, salvo poi ritirarsi all’ultimo momento: anzi, salvo sconvocare una piazza che non avevano convocato loro, in quello che a moltissimi è parso un gioco di sponda con il Partito Democratico. Poche ore dopo la retromarcia, infatti, l’allora ministro dell’interno Marco Minniti vietava di fatto il corteo. Proprio quando le circostanze richiedevano di scendere in piazza, i vertici nazionali delle quattro associazioni avevano mostrato subalternità alla strategia elettorale attendista del Pd: ricordiamo che il mantra ripetuto da Renzi in quei giorni era “abbassiamo i toni”. In molti avevano allora reagito al dietrofront organizzando presidi nelle loro città, e soprattutto andando direttamente a Macerata: tanti l’avevano fatto portando con sé, bene in vista, il fazzoletto o la bandiera dell’Anpi. Anche la presidente nazionale dell’Arci Francesca Chiavacci, alla fine, aveva di nuovo cambiato idea, e aveva scelto di presenziare al corteo.
Questa reazione dal basso, come dicevo, è stata una prova della capacità di mobilitazione dell’antifascismo, della sua forza ricompositiva. La nostra preparazione storica e teorica dev’essere all’altezza di tutto ciò.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale.
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