Il giorno in cui la rabbia diventò collettiva
Come mai il femminicidio di Giulia Cecchettin è stato così generativo in termini di dibattito pubblico e, soprattutto, che tipo di dibattito ha generato? Le questioni sono inscindibili, perché raccontare la realtà significa crearla
Nel momento esatto in cui scriviamo, sono 114 i casi di femminicidi, lesbicidi, trans*cidi registrati dall’Osservatorio di Non Una di Meno nell’anno 2023. Tra questi numeri resi invisibili e dimenticati, solo uno verrà ricordato per aver cambiato tutto: il numero 107, quello di Giulia Cecchettin.
Quando quel 18 novembre ci è arrivata, come un pugno nello stomaco, la notizia della morte di Giulia, così come era stato per il femminicidio di un’altra Giulia, Tramontano, abbiamo dovuto ammettere a noi stesse, alle nostre compagne, alle nostre sorelle che «lo sapevamo tutte». Già mentre le narrazioni mediatiche intorno alla fuga dei due ex fidanzati si facevano sempre più violente, con ricerche morbose di particolari intimi volti a romanzare la vicenda, dentro di noi sentivamo che dietro questa scomparsa ci fosse in realtà un femminicidio. Avevamo paura. Come donne, lesbiche, trans* e libere soggettività, conosciamo la paura perché conosciamo il patriarcato.
Dopo una settimana, il 25 novembre a Roma, una marea di più di mezzo milione di persone ha gridato il desiderio di un mondo liberato dalla violenza patriarcale, riconoscendosi in quello che non è solo il nome di un movimento ma un obiettivo politico: che non ci sia una donna, una lesbica, una trans*, una libera soggettività di meno. Non Una di Meno.
Oggi, da Padova, città in cui Giulia studiava, città dove da anni come nodo territoriale di Non Una di Meno apriamo spazi di scambio e organizzazione femminista e trasfemminista, ci fermiamo per guardare e guardarci.
Situare i fenomeni nello spazio
In Veneto, secondo l’Osservatorio di Non Una di Meno, quest’anno si è consumato circa il 4% dei femminicidi, lesbicidi e trans*cidi avvenuti in Italia. I loro nomi erano Anica Panfile, Margherita Ceschin, Liliana Cojita, Manuela Bittante, Giulia Cecchettin, Vanessa Ballan.
In Veneto, a San Donà di Piave, due anni fa si è suicidata Cloe Bianco, docente trans*, dopo aver subìto per anni, a causa del suo percorso di affermazione di genere, sanzioni disciplinari e gogna mediatica istituzionale (capofila Elena Donazzan, assessora regionale all’istruzione, alla formazione, al lavoro e alla pari opportunità in quota Fratelli d’Italia, nota per aver cantato Faccetta nera alla radio e definito l’antifascismo un «concetto storico antideologico»).
Sempre in Veneto, la libertà di abortire è ostacolata da tassi di obiezione di coscienza che superano il 70% e da una legislazione regionale che, per mezzo di una modifica voluta dalla stessa Donazzan, impone la sepoltura di ogni feto abortito, a prescindere dalla settimana gestazionale e dalla volontà della persona gestante. Il Veneto è la terzultima Regione per presenza di consultori familiari: uno ogni 49.000 abitanti, quando la Legge 34/1996 che istituisce i consultori pubblici prevede che ce ne sia uno ogni 20.000.
Se osserviamo la violenza di genere da una prospettiva femminista, intendendola quindi come fenomeno strutturale che riguarda ogni aspetto delle esistenze delle donne e delle libere soggettività, questi dati sono utili per nominare che cos’è il patriarcato in Veneto, nel produttivo Nordest, motore economico d’Italia.
18 novembre: collettivizzare il dolore
Appena appresa la notizia della morte di Giulia, come Non Una di Meno Padova abbiamo sentito l’esigenza di stare insieme nello spazio pubblico e abbiamo lanciato una passeggiata spontanea. È bastata una comunicazione sui social e nel giro di un’ora e mezza eravamo in migliaia, prontə a scendere in strada perché un’altra sorella era stata ammazzata. Non avevano ancora parlato la famiglia Cecchettin, la stampa, i partiti, i movimenti; non era ancora arrivato il momento delle riflessioni, delle analisi e dei comunicati; ma già sentivamo, immediatamente, l’urgenza di uscire di casa per rendere collettivi il dolore e la rabbia. Senza mezzi: solo i nostri corpi, le nostre urla amplificate da un megafono, uno striscione riciclato, i nostri piedi furiosi che marciavano battendo al ritmo de «El violador eres tú».
I giorni a seguire: organizzare la rabbia
Dopo il 18 novembre, nel territorio padovano, così come in tutta Italia, abbiamo assistito a un’esplosione multiforme di iniziative politiche, sbocciate dal basso una dietro l’altra: minuti di rumore (anziché di silenzio) nelle scuole e nelle università, presidi, passeggiate, cortei, assemblee permanenti, occupazioni, gruppi di lavoro, petizioni.
L’immagine è quella di una forza, acquatica forse, che si propaga e tutto travolge, dai centri città fino ai luoghi di provincia. Il 25 novembre, data di lotta nazionale che Non Una di Meno da otto anni costruisce a Roma per rendere visibili e contrastare tutte le forme di violenza di genere, quest’anno ha straripato. Per la prima volta, ci sono state mobilitazioni a ogni latitudine dell’Italia. Il giorno dopo, a Vigonovo, un comune di 10.000 abitanti nel veneziano dove abita la famiglia Cecchettin, migliaia di persone sono scese di nuovo in corteo per dire che in provincia mancano luoghi di confronto, relazione e cura collettiva, mancano servizi fondamentali come i consultori, accendendo così i riflettori sulle condizioni di vita nella provincia veneta.
Fortissima è stata la reazione studentesca dell’Università di Padova. Diversamente dalla rettrice Mapelli, che in uno dei primi comunicati ha parlato di «dolore lancinante» per una «scomparsa» che lascia «sgomenti e attoniti», la comunità studentesca ha assunto una postura consapevole e risoluta, nominando le responsabilità istituzionali e cominciando a delineare una piattaforma rivendicativa.
Dal flusso di assemblee, organizzate dai collettivi universitari con un’ampia partecipazione spontanea, stanno emergendo con chiarezza necessità e desideri: autoformazione studentesca, gruppi di decostruzione del maschile, formazione del personale docente, finanziamenti per percorsi di educazione sessuale e affettiva, ridefinizione dei programmi didattici, sportello del centro antiviolenza dentro l’università, gruppi di sostegno dal basso, aule per assemblee.
Un femminicidio generativo
Ci siamo chieste come mai il femminicidio di Giulia sia stato così generativo in termini di dibattito pubblico e, soprattutto, che tipo di dibattito abbia generato. Le questioni sono inscindibili, perché raccontare la realtà significa crearla.
«Femminicidio generativo» perché la diffusa presa di parola intorno alla violenza di genere – dal discorso da bar a quello mediatico e istituzionale, passando per quello dei movimenti – indica che la morte di Giulia ha prodotto un’accelerazione di consapevolezza collettiva. Agendo come un detonatore, ha fatto esplodere forze che si erano accumulate da anni e reso evidente che i femminicidi, gli stupri, le molestie, le discriminazioni non sono un ammasso di casi isolati, ma che esiste un sistema di potere, il patriarcato, che produce violenza e che ci riguarda tuttə.
Ciò è stato possibile anche grazie a Elena Cecchettin, che è uscita dal ruolo della sorella-vittima, ha rifiutato il silenzio e la passività che il patriarcato impone alle donne e ha politicizzato questa morte. Affermando con estrema forza e lucidità che il problema di questa vicenda non è solo Filippo Turetta ma il sistema patriarcale, Elena ha reso politico e collettivo un fatto che è sempre stato considerato privato.
Non si sono fatti attendere attacchi da parte di esponenti politici di estrema destra, con il violento tentativo di delegittimare il discorso di Elena attaccando la sua persona, il suo corpo, il suo modo di esprimersi, la sua stessa possibilità di prendere parola e venire ascoltata. Una reazione che mostra una delle tante facce della violenza patriarcale: dubitare, minimizzare, indebolire, invalidare e silenziare la verità di chi esprime e denuncia le forme di violenza nella propria esistenza
Impossibile, nell’analisi di questa fase, non nominare il peso dei mezzi di comunicazione. Spuntano ora come funghi articoli, editoriali, servizi di telegiornale, inchieste, interviste, programmi di approfondimento politico, talk show, tutti con ordine del giorno «violenza di genere». È un gran parlare di femminicidio, di parole «nuove e pericolose» come maschilismo e machismo, privilegio e patriarcato, come se prima di Giulia Cecchettin nulla di tutto questo fosse mai esistito.
Tanti nodi di Non Una di Meno, compreso il nostro, sono stati sommersi da richieste di commenti, interviste, partecipazione a programmi televisivi – anche di bassissimo livello – da parte di giornalisti curiosi di sapere «cosa dicono le femministe della morte che sta scandalizzando l’Italia». Rimanevano annoiati e delusi quando rispondevamo che non c’era nessuno scandalo, che i femminicidi sono la violenta normalità del patriarcato, che le cose da fare sono a) educare al consenso in ogni luogo di formazione, b) finanziare i centri antiviolenza, c) garantire un reddito di autodeterminazione. Noi, da otto anni e oltre l’eccezionalismo mediatico, diciamo questo. Nel frattempo, voi dov’eravate?
Il giornalismo eccezionalista è responsabile di una serie di effetti dalla pericolosità reazionaria. Raccontare un femminicidio come «scandaloso» costruisce e veicola l’idea che la violenza di genere sia un fatto eclatante, fuori dall’ordinario e che consista, coincida e si esaurisca nel femminicidio stesso. Si tratta di una semplificazione della realtà, molto utile a chi detiene il potere perché confortevole, rassicurante e non divisiva. Se si possono condannare con multipartisan comodità le botte in casa del marito possessivo, più scomodo è, invece, nominare gli aspetti istituzionali della violenza di genere, tra cui la vittimizzazione secondaria della polizia e dei tribunali, le narrazioni violente dei giornali, i tagli alla spesa pubblica e gli aumenti della spesa militare, la criminalizzazione del lavoro sessuale e della migrazione, la patalogizzazione delle persone trans*, la repressione del dissenso, gli sgomberi di case e di spazi di socialità dal basso.
Un ulteriore effetto di questa comunicazione violenta è la creazione di una sorta di gerarchia tra femminicidi, a seconda delle caratteristiche delle donne e delle soggettività uccise. Quelli di serie A, valutati dall’opinione pubblica come «spiazzanti» e meritevoli quindi di essere resi visibili, narrati, pianti e ricordati; quelli di serie B, che non hanno le carte in regola per bucare lo schermo e che possono quindi rimanere invisibili e dimenticabili. A questo proposito, non possiamo non osservare come Giulia fosse una donna giovane, bianca e di classe media, studiosa, con un aspetto rientrante nello standard di bellezza, dal carattere descritto come gentile, in una recente relazione eterosessuale, a un passo dalla laurea e con una famiglia apparentemente come tante.
Anche Filippo Turetta ha delle caratteristiche in cui facilmente ci si può riconoscere: è giovane, incensurato, descritto come sensibile, iscritto all’università, anche lui con una famiglia come tante.
Questo riporta a un concetto sociale di «normalità»: in questa storia non c’è nessuna donna che conduceva una vita fuori dallo standard, che aveva amicizie discutibili, che se l’è andata a cercare, che ha provocato. Non si possono trovare spiegazioni, scuse, argomentazioni: la violenza è troppo palese e sconvolge a livello di massa e di coscienza sociale.
Perché i femminicidi di donne anziane, migranti, trans*, povere, che hanno tradito, sex worker, con disabilità, con gonna corta e in uscita serale non creano scalpore e non diventano problema politico? Nessun funerale pubblico per loro?
La (non) risposta istituzionale
Il 5 dicembre nella Basilica di Santa Giustina a Padova si sono tenuti i funerali pubblici di Giulia Cecchettin. Fuori dalla chiesa, oltre 10.000 persone si sono ritrovate in un silenzio denso di dolore collettivo interrotto solo da un roboante rumore di migliaia di chiavi agitate all’unisono, per esprimere un riconoscimento verso il discorso pronunciato dal padre Gino Cecchettin.
Quel gesto spontaneo sembrava riprodurre «l’azione delle chiavi» propria delle iniziative di Non Una di Meno. Una riproduzione forse inconsapevole, ma è, del resto, questa la potenza di un movimento le cui pratiche riescono a uscire dalla dimensione strettamente militante e divenire patrimonio collettivo. Le chiavi sono la nostra autodifesa fuori casa: anche se nessuno ce l’ha insegnato, abbiamo imparato a tornare a casa con il mazzo stretto forte tra le dita, pronte a utilizzarlo per proteggerci. Al tempo stesso, le chiavi sono il simbolo del luogo in cui più spesso si consuma la violenza patriarcale: la casa. Il femminicida non è lo sconosciuto in strada, come la retorica securitaria, opportunisticamente, racconta. Nella maggior parte dei casi, il violento è un familiare, un partner, una persona con cui intessiamo o abbiamo intessuto relazioni, che conosce noi e i nostri luoghi: qualcuno che ha le chiavi di casa.
Mentre le chiavi si agitavano e alzavamo al cielo i pañuelos, misuravamo il valore differenziale che il patriarcato attribuisce alle parole, a seconda che vengano pronunciate da uomini o da donne e libere soggettività. Sia Gino che Elena Cecchettin hanno (seppur con forme, intensità e verosimilmente prospettive diverse) nominato pubblicamente il femminicidio e il patriarcato. Lui, se da un lato è stato ascoltato, dall’altro è stato attaccato in quanto uomo e padre incapace di difendere la figlia; per lei, giovane donna e quindi meno credibile, meno titolata a prendere parola e imporsi nel discorso pubblico, ci sono stati attacchi personali e tentativi di delegittimazione. Due fenomeni parte del medesimo problema: l’uomo deve proteggere, la donna deve stare in silenzio.
Dentro la chiesa sedevano in tricolore istituzioni statali e locali. Della manifestazione di lutto ce ne facciamo, in realtà, gran poco: pretendiamo una concreta assunzione di responsabilità politica.
L’affanno dei componenti del governo Meloni nel voler omettere la matrice patriarcale che accomuna i femminicidi, il trincerarsi dietro il genere della Presidente del Consiglio come se essere donna equivalesse a essere scevre dalla cultura patriarcale, non è che la conferma della paura che le piazze dell’ultimo mese incutono. È facile esprimere cordoglio per una vittima, ma quello che risulta impossibile è ammettere la propria complicità nell’aver costruito e continuare a costruire i presupposti affinché un’esistenza (una su 114) venisse spezzata.
È proprio da qui che vogliamo ripartire, puntando il dito verso chi detiene potere e responsabilità: il governo, i tribunali, la polizia, i media. Non serviranno pene più severe né strade più militarizzate. Non basterà il piano del Ministro dell’Istruzione Valditara che separa e gerarchizza tra violenza maschile sulle donne e violenza di genere, tanto che con una nota il Ministro ha precisato che nelle ore di educazione alle relazioni non si dovrà in alcun modo parlare né di educazione sessuale e affettiva, né di educazione di genere (perché fa così paura?).
Sul piano territoriale padovano, le risposte istituzionali sono finora state inadeguate e limitate al piano simbolico. Dall’assessore alla Cultura Andrea Colasio è arrivata la proposta di una statua dedicata a «tutte le vittime di femminicidio», dall’Università di Padova il collocamento di una panchina rossa presso il Dipartimento di Ingegneria dell’informazione e di un posto occupato nella Biblioteca di Studi Letterari, Linguistici, Pedagogici e dello Spettacolo. Dall’Università di Padova ci aspettiamo il passaggio dalla simbologia alla materialità: finanziare l’apertura di uno sportello antiviolenza all’interno dell’università. Immaginiamo un presidio finalizzato alla prevenzione e all’emersione della violenza di genere, a disposizione di chi attraversa gli spazi dell’università, nel segno dell’esperienza del centro anti violenza di Lucha y Siesta a RomaTre, che ora rischia di chiudere a causa del mancato rinnovo del finanziamento da parte dell’Ente regionale per il diritto allo studio del Lazio.
Con chi si unirà inonderemo il mondo intero
Ovunque in Italia il discorso sulla violenza di genere sta strabordando. A Padova capita di sentire le persone passeggiare sotto i portici parlando di patriarcato; capita di andare in osteria e leggere su un cartello i versi della poesia di Cristina Torre Cáceres che abbiamo sempre letto con dolore e rabbia: «Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto. / Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima». Questa poesia è stata condivisa su Instagram anche dalla Polizia di Stato, dalla stessa istituzione che al corteo nazionale del 25 novembre ha manganellato chi protestava davanti alla sede di Provita&Famiglia contro la violenza antiabortista.
A tutto questo strabordamento guardiamo con meraviglia, ma non con acritico entusiasmo. Osserviamo infatti le complessità, le ambivalenze, le contraddizioni, i rischi di appropriazione indebita, strumentalizzazione, appiattimento, svuotamento e de-radicalizzazione del discorso sulla violenza di genere. Ecco perché, in una fase in cui apparentemente si è «tutti d’accordo con tutti», diviene urgente nominare (ancora) il carattere necessariamente conflittuale di un posizionamento femminista e transfemminista rispetto alla violenza di genere.
La violenza di genere non è un problema solo culturale, ma è un fatto strutturale; ha a che fare con il patriarcato, con un’organizzazione economica e sociale fondata sulla violenza e sullo sfruttamento della vita e dei corpi delle donne e delle libere soggettività; il modo per contrastare la violenza di genere patriarcale non è la buona educazione o la gentilezza quotidiana, ma la trasformazione radicale dell’esistente, il sovvertimento del sistema di oppressione patriarcale, capitalista, razzista, colonialista e abilista.
Per tutto l’ampio e composito movimento femminista e transfemminista italiano, la sfida è comprendere e organizzare la potenza che si sta esprimendo in questa fase politica. Potenza che, come ci dice Verónica Gago, pratichiamo rivendicando l’indeterminatezza di ciò che possiamo, riconoscendo che non sappiamo di cosa siamo capaci fino a che non sperimentiamo lo spostamento dei limiti a cui ci hanno fatto credere e sottostare.
Da questa consapevolezza collettiva, da questa rabbia, da questo desiderio di cambiare tutto non si può tornare indietro. La marea ha iniziato a ingrossarsi, chi proverà a fermarla ne sarà travolto. Con chi si unirà inonderemo il mondo intero.
*Cecilia Iula e Camilla Girotti sono militanti di Non Una Di Meno Padova
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.