Il laboratorio Israele
Dialogando con Chiara Cruciati, Enzo Traverso spiega perché la posta in gioco della guerra a Gaza ha una portata che va ben al di là del Medio Oriente
Questa intervista di Chiara Cruciati, vicedirettrice del manifesto, a Enzo Traverso è avvenuta il 16 giugno nell’ambito del festival Contrattacco organizzato da Edizioni Alegre. All’iniziativa, durata due ore, hanno assistito quasi 200 persone. Qui la trascrizione del colloquio, rivista dagli autori.
L’8 giugno 2024, un’operazione israeliana per la liberazione di 4 ostaggi ha ucciso 276 palestinesi. Nei giorni successivi sono usciti dettagli sul modo in cui l’operazione è stata compiuta, nel cuore del campo profughi di Nuseirat. Eppure sui media occidentali e nelle dichiarazioni pubbliche dei leader politici si è parlato di «successo». La narrazione dell’offensiva israeliana passa da mesi per la sotto-rappresentazione se non l’occultamento dei crimini di guerra israeliani, eppure stavolta si è raggiunto un nuovo apice: definire una carneficina «un successo». Un massacro ampiamente anticipato dalle leadership europee che all’indomani del 7 ottobre dichiararono il sostegno «incondizionato» a Israele, dando di fatto la benedizione a qualsiasi forma di reazione.
In Gaza davanti alla storia dedichi un capitolo prezioso all’Orientalismo, più forte – scrivi – dell’eredità dell’Illuminismo. Dare valore diverso a una vita e a una comunità sulla base della presunta superiorità morale e culturale del mondo bianco occidentale è un tratto essenziale dell’Orientalismo. Possiamo leggere dentro a questo però anche una deriva necropolitica e, di rimando, fascista?
Innanzitutto, grazie per l’invito a questo dialogo. Vorrei dire subito che non ho scritto questo breve saggio come studioso del Medio Oriente. Non sarei in grado di spiegare le radici di questo conflitto o di analizzarne gli attori e la dimensione geopolitica. Il mio obiettivo è piuttosto quello di riflettere criticamente sulle categorie con le quali nel mondo occidentale viene letto il conflitto, che mi sembrano rivelatrici di una cultura, di una visione del mondo.
L’Orientalismo, elaborato dal grande studioso Edward Said, non è infatti morto con la decolonizzazione, pervade i nostri schemi mentali e continua a orientare la lettura di questo conflitto da parte dei media occidentali. L’episodio che hai appena citato è stupefacente: in Israele abbiamo assistito a un paese in festa per la liberazione di quattro ostaggi al prezzo di 276 vite palestinesi. Aver definito da parte dei media occidentali quel massacro come un «successo» mi pare una flagrante espressione dell’Orientalismo, cioè di come i nostri criteri di lettura e di giudizio implichino una disuguaglianza fondamentale nella definizione del valore della vita umana. Il valore delle vite israeliane, ormai parte dell’Occidente, è superiore di gran lunga a quello della vita dei palestinesi. L’Occidente è la razionalità e il mondo non occidentale il fanatismo ideologico; l’Occidente il progresso e il mondo non occidentale, cioè l’Oriente, l’oscurantismo e l’arretratezza. Da un lato c’è lo sviluppo dall’altro ignoranza. Il mondo occidentale è bianco, europeo nella sua matrice e l’Oriente è un indistinto universo gerarchicamente dipendente, razzialmente diverso e gerarchicamente inferiore.
Gli ebrei hanno varcato quella che W.E.B. Dubois un secolo fa definiva «la linea del colore» e sono diventati bianchi, parte integrante dell’Occidente, e la difesa di Israele viene presentata come la difesa della civiltà contro la minaccia di una barbarie che oggi porta il nome di fondamentalismo islamico.
Questa «linea del colore» è ovviamente metaforica. La metà della popolazione israeliana è fatta di ebrei di origine mediorientale o nordafricana, etnicamente non diversa dai palestinesi. Gli ebrei d’Europa centrale e orientale che emigravano in Germania, Francia e Stati uniti un secolo fa non erano considerati bianchi, incarnavano un’alterità negativa contro la quale si definivano i nazionalismi europei e le identità nazionali di allora. È quindi avvenuto un passaggio della linea del colore. Un fenomeno non nuovo – gli italiani emigrati in Alabama tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento erano linciati come i neri, ed è appunto adottando gli stereotipi razziali della società americana che gli italo-americani sono diventati «bianchi» – ma oggi assume dimensioni impressionanti, che stridono a decenni di distanza dalla decolonizzazione. L’orientalismo aveva raggiunto il suo apogeo alla fine dell’Ottocento in un’epoca in cui l’Occidente dominava il mondo e si considerava portatore di una missione civilizzatrice. Oggi l’Occidente non domina più il mondo. E quindi questa riproduzione caricaturale, grottesca, di una visione del mondo orientalista, non può che suscitare una reazione di rigetto, di indignazione.
Che ci sia una deriva genocida è sotto gli occhi di tutti. Siamo dentro una lista di genocidi occidentali che hanno una matrice orientalista, colonialista e imperiale, su questo credo non ci siano dubbi, la differenza riguarda la potenza dei mezzi di distruzione con i quali questo genocidio è messo in atto, incomparabilmente superiore a quella dei genocidi coloniali del passato. Riguardo all’utilizzo del termine «fascista» però sarei più cauto. Sicuramente le destre estreme o «post-fasciste» su scala globale sono schierate con Israele, ma l’orientalismo, il colonialismo e i genocidi coloniali precedono il fascismo. Certo trovano anche un’appendice fascista: il genocidio italiano in Etiopia è la variante fascista di questa lunga sequenza. Ma la matrice non è certo esclusivamente fascista, è occidentale.
Vorrei sottolineare che qui siamo di fronte a uno scontro tra due anime del razionalismo occidentale. Da una parte, la Corte penale internazionale che chiede l’arresto dei dirigenti israeliani accusati di crimini di guerra e di sterminio e la Corte di giustizia internazionale dell’Onu che mette in guardia contro un pericolo di genocidio sono una delle espressioni più alte, in campo giuridico, dell’eredità lasciata dall’illuminismo. Dall’altra parte c’è l’orientalismo, l’idea dell’Occidente come razza e civiltà superiore che deve dominare il mondo, e anche questa idea è un prodotto dell’Illuminismo. Insomma siamo di fronte a una contraddizione che la scuola di Francoforte definiva la «dialettica dell’Illuminismo», matrice al contempo di un’idea universale di umanità e di un’idea di gerarchia delle razze e di supremazia dell’Occidente.
A proposito di superamento della linea del colore, c’è un problema di rapporto tra il governo israeliano ed esponenti di partiti dell’estrema destra in Europa ma anche negli Stati uniti. Sempre più spesso si parla di un «Israele globale» inteso come modello di cittadinanza diseguale e di controllo sociale sulla base di una sicurezza razzializzata. Per tanti anni abbiamo parlato di «laboratorio Palestina», non dovremmoinvece iniziare a parlare di «laboratorio Israele»?
Non sono capace di distinguere tra il «laboratorio Israele» e il «laboratorio Palestina». Secondo me sono esattamente lo stesso laboratorio che ci interroga e ci costringe a riflettere sul destino di Israele e della Palestina, sul futuro del Medio Oriente. Un futuro che si gioca nella definizione di un orizzonte globale del XXI secolo. Sarei però, anche qui, molto cauto sull’uso della formula «Israele globale» perché sappiamo tutti che quando iniziamo a parlare di sionismo, antisionismo, antisemitismo, Israele, entriamo in un terreno minato in cui ogni aggettivo, ogni sfumatura, diventa pretesto di strumentalizzazioni, polemiche, interpretazioni.
La formula «Israele globale» evoca in modo sgradevole la vecchia mitologia antisemita del complotto globale, della cospirazione ebraica internazionale di Wall Street «dominata dai banchieri ebrei» che starebbero estendendo i loro tentacoli sul pianeta… Non siamo in presenza di questo «Israele globale» e quindi stiamo attenti nelle formulazioni per evitare equivoci.
Israele è un laboratorio perché è uno dei luoghi in cui sta prendendo forma una ricomposizione delle élite sul piano politico e una ricomposizione della destra internazionale. Lo indica il fatto che le estreme destre di tutta Europa e l’estrema destra americana siano le più oltranziste nel sostegno a Israele senza introdurre nessun distinguo. Attraverso il sostegno a Israele, l’identificazione con Israele e il genocidio che Israele sta conducendo a Gaza, le destre estreme si stanno integrando in seno all’establishment che fino a oggi le aveva guardate con diffidenza. Uno dei vettori di questa transizione è la revisione ideologica e culturale dell’estrema destra che storicamente è sempre stata antisemita ma oggi si schiera con Israele facendo dell’islamofobia uno dei suoi pilastri identitari. Le nuove destre non sono più antisemite, anzi sono filo sioniste in modo ostentato e sono sempre più xenofobe in un senso islamofobo. Questo è il processo che sta avvenendo e costituisce una mutazione genetica perché, seppure in forme diverse, l’antisemitismo è stato storicamente una delle fondamenta dei nazionalismi europei. Il caso più emblematico, per certi versi paradossale e quasi grottesco, è il caso tedesco: la Germania, il paese in cui fu concepito e messo in atto l’Olocausto, è diventato il paese che fa della difesa incondizionata di Israele una ragion di Stato.
Il laboratorio Israele è dunque un modello di futuro mondo globale come mondo colonizzato, fatto di segregazione e apartheid, di gerarchia dei diritti. La posta in gioco in Israele ha una portata che va ben al di là del Medio Oriente.
Nel capitolo dedicato a «Violenza, Terrorismo e Resistenza», scrivi: «Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è né bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante». Ne dai poi esempi storici, per concludere quanto sia inutile, se non controproducente, non riconoscere che Hamas – piaccia o meno – combatte contro un’occupazione illegittima. È un tema, questo, che disturba, lo si vede dal modo in cui Hamas è narrato, ma che non si discosta da come è stata narrata in passato la resistenza armata palestinese di altri soggetti (Fatah, Fronte popolare per la liberazione della Palestina) e come addirittura sono narrate altre forme di resistenza non armata: dal boicottaggio al lancio di pietre, ai palestinesi non pare essere riconosciuta la legittimità di alcuna forma di resistenza.
Questo è un tema molto delicato perché tutte le strumentalizzazioni ideologiche del dibattito occidentale si focalizzano su questo punto. Chi osa utilizzare il termine «genocidio» diventa automaticamente un complice di Hamas. La questione è complessa e delicata, merita di essere dibattuta e può suscitare posizioni diverse. Io non sono un pacifista, ma comprendo gli argomenti di critica Hamas adottando questo punto di vista.
Ripeto di non essere uno storico della questione palestinese né sono in grado di analizzare le varie componenti di Hamas o le sue evoluzioni. Ma penso che si debba evitare almeno di compiere gli errori del passato. Sono abbastanza vecchio per ricordare la guerra del Vietnam e il trauma della scoperta del genocidio in Cambogia. La prima conclusione che abbiamo tutti tratto da quella tragedia era semplice ed evidente. Benché mobilitarsi contro la guerra del Vietnam fosse indispensabile e giusto, avremmo potuto farlo con un occhio critico evitando un sostegno incondizionato. Quindi io non ho la minima esitazione a condannare l’attacco del 7 ottobre, a definirlo sbagliato, controproducente, immorale e atroce.
Credo che uno degli errori peggiori che si possano commettere oggi sia quello di scendere in piazza gridando che siamo dalla parte di Hamas. Occorre quindi evitare un allineamento acritico con Hamas. Ma nello stesso tempo, il secondo errore che va evitato è il paternalismo, che ha anche dei tratti razzisti, che consiste nella pretesa di dare lezioni, di decidere, da qui, chi fa parte, e chi no, della resistenza palestinese o spiegare loro come devono agire. Questo è un altro atteggiamento che va evitato. I palestinesi hanno bisogno del nostro sostegno, un sostegno che sia autentico, convinto ma anche critico. Non hanno bisogno né di tifosi ingenui né di lezioni impartite ex cathedra.
Si tratta poi anche di ricordare qualcosa che appartiene alla nostra storia. E ricordare che i metodi terroristici che colpiscono i civili sono sempre stati oggetto di discussioni in seno ai movimenti di liberazione nazionale, sia nelle rivoluzioni anticoloniali che nei movimenti di resistenza in Europa. La violenza contro i civili è stata usata dal Fronte di Liberazione nazionale algerino. Nel mio libro ricordo non a caso il film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri. Questi attentati che colpiscono i civili hanno sempre fatto discutere. Vi hanno fatto ricorso l’Anc in Sudafrica nella lotta contro l’apartheid, i vietcong nel sud est asiatico o e anche la resistenza in Europa. Quindi sono parte della nostra storia. Per questo dire che Hamas non fa parte della Resistenza a causa dei suoi metodi terroristici è una stupidaggine. Persino Anthony Blinken, il Segretario di Stato Usa, dopo aver ostracizzato Hamas gli chiede di sottoscrivere la sua proposta di accordo per il cessate il fuoco. C’è dunque un’ipocrisia gigantesca nella stigmatizzazione di Hamas che, lo si voglia o meno, è un interlocutore ineludibile.
Detto questo Hamas è un movimento fondamentalista, autoritario con tratti di misoginia e omofobia. In una società democratica la sinistra palestinese vedrebbe in Hamas un avversario da combattere. Ma oggi non c’è una società palestinese che vive in condizioni di libertà e di democrazia, oggi chi lotta contro l’occupazione israeliana sono i combattenti di Hamas e questo li definisce, oggettivamente, come forza della Resistenza. Altrimenti dovremmo dire, a proposito di una pagina tragica e gloriosa come l’insurrezione del ghetto di Varsavia, che siccome tra le forze che hanno organizzato quella rivolta – il Bund, i comunisti, i socialisti, persino alcuni trotzkisti, sionisti di destra e componenti religiose – c’erano anche movimenti che nel 1948, cinque anni dopo, hanno messo in atto la Nakba ed espulso ii palestinesi, bisogna condannare l’insurrezione di Varsavia. Bisogna studiare gli eventi nel loro contesto e nelle loro circostanze storiche. Oppure bisognerebbe condannare la Resistenza perché la sua componente egemone, quella comunista, difendeva un regime totalitario come l’Urss. Voglio dire soltanto che criticare Hamas non è affatto incompatibile con il riconoscimento oggettivo del ruolo che sta svolgendo nella Resistenza palestinese. E questo non è assolutamente incompatibile con la denuncia dell’attacco del 7 ottobre.
Poi bisogna anche porsi un altro interrogativo. Da dove viene Hamas? Hamas è il prodotto della nostra sconfitta. È un movimento fondamentalista che nasce dalla sconfitta di tutti i progetti socialisti, internazionalisti, universalisti, del nazionalismo laico e del panarabismo e di tutti i tentativi di ricerca di una soluzione pacifica che ci sono stati. Hamas è anche, in buona misura, un prodotto della politica israeliana che lo ha sostenuto per creare un conflitto in seno al fronte palestinese e poter dire di non avere interlocutori per un accordo di pace.
Da mesi si assiste a uno scollamento totale tra politica e media da un lato e società civile e movimenti studenteschi dall’altro. Le mobilitazioni dei campus di tutto il mondo, in particolare negli Stati uniti, sono state combattute accusandole di antisemitismo (sia latente che palese), quando abbiamo invece assistito a un fenomeno nuovo: il ritorno del discorso anti-coloniale intorno alla Palestina, di fatto sparito, sostituito negli ultimi decenni da un discorso meramente umanitario e mai politico. Lavorando tra Francia e Stati uniti, cosa ci puoi dire di questi movimenti?
Ho visto e partecipato al movimento di questi mesi negli Stati Uniti, il movimento contro la guerra più ampio che questo paese abbia conosciuto dopo la guerra del Vietnam anche se non ha ancora raggiunto le stesse dimensioni, ma ha un’ampiezza considerevole. C’è un’opposizione alla guerra e al genocidio molto diffusa nella società, ben al di là dei campus universitari, che sono la punta dell’iceberg. Joe Biden e altri leader democratici non possono intervenire in un luogo pubblico senza che qualcuno intervenga per protestare alzando una bandiera palestinese o gridando «genocide Joe». È un movimento che nasce da una coscienza molto forte che il genocidio a Gaza viene compiuto con armi americane, che i mezzi di distruzione di Gaza sono forniti in primo luogo dagli Stati uniti; da qui dunque il parallelo con il Vietnam perché si coglie il fatto che negli Stati uniti, oggi come allora, si può impedire la guerra. Si va quindi oltre la pura espressione umanitaria della solidarietà con un popolo che soffre. Gaza sta subendo un genocidio di cui ci si sente corresponsabili e dunque si lotta per fermarlo.
Questo movimento contro il genocidio a Gaza è molto ampio ma al suo interno si possono distinguere tre componenti fondamentali. In primo ci sono gli studenti di origine postcoloniale, sia americani (immigrati o figli di immigrati) sia giovani del sud globale che vengono a studiare negli Stati uniti. per questi studenti, manifestare contro il genocidio a Gaza è prima di tutto una lotta contro le nuove forme del colonialismo, la loro identificazione con i palestinesi è innanzitutto l’identificazione con un popolo oppresso dal colonialismo e dall’imperialismo. C’è poi una seconda componente, che negli Stati uniti è molto più forte che in Europa, ed è quella afroamericana: per molti studenti afroamericani questo movimento è una continuazione, su un altro piano, del movimento Black Lives Matter. Qui, come si vede, si torna al discorso di prima sul passaggio della linea del colore. I palestinesi sono portatori di un conflitto che rappresenta una variante del conflitto razziale e di una gerarchia razziale molto forte negli Stati uniti. E poi c’è una terza componente, molto importante e molto visibile, che è quella ebraica. Soprattutto studenti ma non solo, perché c’è una partecipazione molto significativa di docenti ebrei. Non si tratta di casi individuali, di alcune personalità note, si tratta di associazioni molto presenti con i loro simboli, soprattutto Jewish Voice for Peace. Questa componente ebraica contiene a sua volta diverse anime. Ne vorrei citare almeno due: la ricomparsa di una antica tradizione ebraica rivoluzionaria, coloro che non si considerano ebrei sul piano religioso e che, in molti casi, rifiutano l’ebraismo come una forma di oscurantismo religioso ma che, essendo parte di una storia secolare di discriminazione, oppressione e persecuzione, sono sensibili alla causa di tutti gli oppressi in nome di un internazionalismo e di universalismo che ha una radice molto forte nella tradizione della sinistra radicale ebraica. La seconda componente si potrebbe definire dreyfussiana. Durante la guerra d’Algeria, molti francesi – tra cui molti israeliti – pensavano che quella guerra coloniale stesse disonorando la repubblica e ne calpestasse i principi, come era avvenuto durante il caso Dreyfuss. Oggi molti ebrei americani (ma anche francesi o italiani) non accettano che un genocidio venga permetrato a Gaza da uno stato che si proclama «stato degli ebrei». Per questo scendono in piazza dicendo «not in my name».
Si tratta di posizioni molto diverse rispetto alle manifestazioni contro il governo di Netanyahu che si svolgono oggi in Israele, dirette contro il governo ma tese a mettere fine alla guerra: non sono manifestazioni contro il genocidio, sono manifestazioni per il cessate il fuoco, una misura necessaria per il negoziato e per la liberazione degli ostaggi. La sinistra in Israele oggi è molto minoritaria e marginalizzata, ma nel mondo occidentale esiste una componente ebraica – non solo antisionista – la cui voce è autorevole e può risvegliare un’antica, nobile tradizione. Anche per questo è assolutamente demagogico e scandaloso l’atteggiamento di gran parte dei media occidentali che definiscono antisemita questo movimento contro la guerra e contro il genocidio. Vale la pena di osservare che i più rumorosi tra quelli che denunciano il preteso antisemitismo degli studenti sono i repubblicani e gli evangelici, gli stessi che sostengono che Joe Biden avrebbe manipolato le elezioni del 2020 e che i suprematisti bianchi che hanno dato l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio sarebbero degli autentici democratici.
[Al termine del dibattito c’è stata una domanda dal pubblico che riproduciamo per il suo interesse]:
Approfitto del fatto che lei lavora in università, qual è lo stato dell’arte della rivendicazione politica della lotta palestinese? La soluzione «due popoli, due Stati» mi sembra suonasse già antica diversi anni fa, una soluzione che non avrebbe risolto il problema. Cosa chiede allora il movimento di supporto alla Palestina?
È una domanda molto interessante e molto importante. Certamente non ho una ricetta per risolvere il problema, ma nel mio libro spiego perché non credo più alla soluzione a due Stati. Questo non vuol dire che io sia contrario al riconoscimento di uno Stato palestinese: sarebbe un passo in avanti importante e darebbe forza al movimento palestinese, ma ci sono una serie di paesi arabi, oltre agli Usa e all’Ue, che stanno elaborando il progetto di un simulacro di Stato palestinese che in realtà sarebbe un bantustan sottoposto a al controllo militare ed economico di Israele. Oggi, parlare di uno Stato binazionale sembra del tutto fuori dalla realtà; sembra una chimera, un’utopia impossibile, ma ragionando in una prospettiva storica non vedo nessuna alternativa a uno Stato binazionale. A questo proposito c’è anche molta demagogia e strumentalizzazione attorno allo slogan «dal fiume al mare»: oggi dal Giordano al Mediterraneo c’è un solo Stato e in questo Stato ci sono due comunità che hanno esattamente lo stesso peso: 7 milioni di israeliani e 7 milioni di palestinesi. E non si tratta di due comunità geograficamente separate nello spazio, sono due comunità profondamente compenetrate sul piano territoriale. Per questo l’idea di uno Stato laico e democratico, fondato sul riconoscimento dell’esistenza di due nazioni che hanno lo stesso diritto di vivere, svilupparsi e cooperare, mi sembra la più ragionevole e ovvia. Questo Stato funzionerebbe attraverso uno scambio reciproco fruttuoso e permanente sulla base del riconoscimento di una completa eguaglianza di diritti tra ebrei e palestinesi in termini di lingua, cultura e appartenenza religiosa. Non vedo un’alternativa a questo se non uno Stato-fortezza che si proclama «lo Stato degli ebrei» da un lato e dall’altro uno Stato fondamentalista palestinese che potrebbe essere sotto una direzione di Hamas. Questa non è la soluzione del futuro, anche se oggi riconosco che sia una prospettiva impraticabile.
*Enzo Traverso insegna alla Cornell University. I suoi libri più recenti sono Rivoluzione (Feltrinelli, 2021), La tirannide dell’io(Laterza, 2022) e Gaza davanti alla storia (Laterza, 2024). Chiara Cruciati è vicedirettrice del manifesto. Ha scritto con Michele Giorgio Cinquant’anni dopo (Alegre, 2017) e Israele, mito e realtà (Alegre, 2018). Il suo ultimo libro, con Rojbîn Berîtan, è La montagna sola. Gli ezidi e l’autonomia democratica di Şengal (Alegre, 2022).
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