Il mito dell’unità a sinistra
Quello di De Magistris è almeno il quinto tentativo elettorale in 10 anni. Occorre una riflessione critica sull’idea di “popolo della sinistra” e sulla ricostruzione dei soggetti del cambiamento
Il primo dicembre il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, prova a ricreare le condizioni per una nuova unità a sinistra. Essendo il quinto tentativo di questo tipo in dieci anni, con una media di uno ogni due anni, corre l’obbligo di fare a lui e ai suoi compagni di strada i migliori auguri.
De Magistris è un sindaco che ha conquistato il municipio di Napoli con le sue sole forze, svuotando l’acqua del “grillismo” che infatti nelle elezioni comunali non ha attecchito, interpretando una sinistra da alcune venature populiste, in particolare per la funzione di rappresentanza giocata dal leader, ma solidamente ancorata a punti fermi come la pubblicizzazione dell’acqua o la difesa degli spazi occupati. Il suo tentativo, al di là di tutte le diffidenze o gli entusiasmi che potrà provocare, ha una sua legittimità.
È utile però interrogarsi su quello che è accaduto davvero in questi dieci anni e perché l’unità a sinistra è diventata una sorta di araba fenice o un mito originario che continua a illuminare la strada di migliaia di militanti. E cosa non ha funzionato.
Una delusione ogni due anni
La prima esperienza è quella del 2008, la Sinistra arcobaleno, che riunisce in un’unica lista quattro diverse formazioni allora presenti nel Parlamento di cui la caduta del governo Prodi provoca la rottura: il Prc di Fausto Bertinotti, il Pdci di Oliviero Diliberto (e prima di Armando Cossutta), i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio e la Sinistra democratica di Fabio Mussi. Sula carta le quattro formazioni possono contare sul 12% dei voti e quella è la cifra che ci si immagina di raggiungere alle elezioni politiche anticipate. Il risultato è il 3,1%, sotto la soglia del 4% e quindi senza nessun eletto. È a prima volta nella storia della sinistra. Sarà l’appena fondato Partito democratico di Walter Veltroni, che con la vecchia sinistra ha intenzione di recidere i legami, a fare il pieno di voti, il 34%, ottenendo un risultato notevole ma che non impedirà a Silvio Berlusconi, vincitore assoluto di quella tornata elettorale, di tornare al potere.
Già allora si capisce che la semplice unificazione dei gruppi dirigenti non è sufficiente a tradursi in voti e che la sinistra che si colloca a sinistra del Pd non riesce a maneggiare una contraddizione di fondo: fare i conti con la rassegnazione e la sfiducia di massa che si è andata accumulando negli anni, e nei decenni, precedenti. Dall’altro, si fa fatica anche a rapportarsi al partito maggioritario della sinistra, il Pd.
La sconfitta è dura da digerire e produrrà una regressione fatta di scissioni e scontri, il più rilevante dei quali riguarda Rifondazione comunista che nel congresso dello stesso anno si dividerà in due parti e che di lì a breve vedrà la nascita di Sinistra ecologia e libertà guidata da Nichi Vendola. La spaccatura si trascinerà fino alle europee del 2009 in cui le due liste, Prc e Sel, otterranno cumulativamente quasi il 7% ma essendo divise non raggiungeranno entrambe la soglia del 4% e quindi non eleggeranno nessuno.
Questa spaccatura segnerà i processi aggregativi degli anni successivi. Nel 2013, alle elezioni politiche successive al terremoto della caduta di Berlusconi, dei governi tecnici e dell’ascesa del M5S, la sinistra prova a riunirsi attorno all’ex pm Antonio Ingroia. La sua lista non supererà il 2,7% ma senza Sel che ha preferito far parte della coalizione “Bene comune” guidata da Pierluigi Bersani, nel frattempo divenuto segretario del Pd. Sel eleggerà un cospicuo gruppo parlamentare, mentre la lista Ingroia, che aveva riunito Rifondazione comunista, Comunisti italiani, la stessa Italia dei valori di Antonio Di Pietro e una parte dei Verdi, sarà rapidamente dimenticata insieme al suo fondatore. Anche qui, ma peggio di prima, la frettolosa unificazione dei gruppi dirigenti senza alcuna discussione su cosa è avvenuto nella società e senza porsi il problema delle nuove istanze di democrazia radicale che provengono dal movimento che spinge i grillini all’insù, produrrà una disfatta.
Si prova a risolvere l’impasse, l’anno successivo alle europee, con l’iniziativa di un gruppo di intellettuali e militanti non schierati, tra cui Barbara Spinelli, Paolo Flores d’Arcais, Marco Revelli, con l’idea della “lista Tsipras” ispirata al leader della sinistra greca che nel frattempo ha vinto le elezioni e da Atene ingaggia una dura battaglia, persa, con l’Unione europea. Stavolta i due tronconi della sinistra che si era rotta nel 2009 si ritrovano insieme, ottengono il superamento della soglia del 4%, ma la rissa interna inizia il giorno dopo le elezioni quando si tratterà di scegliere i parlamentari che, per il gioco delle candidature multiple (Barbara Spinelli sarà eletta in più circoscrizioni e quindi, pur avendo inizialmente promesso di non voler sedere in ogni caso in parlamento, dovrà optare per un seggio, lasciando libero il secondo posto in due diverse circoscrizioni e quindi mettendo in competizione due candidati diversi). Spinelli sceglierà di premiare la candidata di Rifondazione comunista, Eleonora Forenza, penalizzando quello di Sel, Marco Furfaro e questo costituirà l’inizio della fine della lista che non sedimenterà nulla di quanto aveva promesso.
Dalle europee del 2014, quelle del 41% di Matteo Renzi, si passa alla rovinosa caduta di quest’ultimo e poi alle elezioni del 4 marzo 2018. A sinistra ci saranno nuove rotture e nuovi scossoni con l’uscita dal Pd di una parte del suo gruppo dirigente storico impersonato da figure come Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema. Questi movimenti faranno saltare una nuova iniziativa di unificazione a sinistra rappresentata dall’assemblea del teatro Brancaccio e promossa da due figure estranee ai partiti, Tomaso Montanari e Anna Falcone. Le assemblee sembrano riuscire, ma di fronte alla scissione del Pd, Sinistra ecologia e libertà, che nel frattempo ha formato, con altri fuorusciti dal Pd, Stefano Fassina e Alfredo D’Attore, un nuovo partito (Sinistra italiana), corre subito all’interlocuzione con questo settore formando, insieme ad altri spezzoni della diaspora democratica, la lista Liberi e Uguali guidata da un altro ex magistrato, Pietro Grasso.
La sinistra più radicale, invece, viene presa di sorpresa dall’iniziativa del centro sociale napoletano ex Opg-Je so’ pazzo, che due giorni dopo l’annullamento di un’assemblea nazionale al Brancaccio ne convoca una tutta nuova riuscendo a portare a Roma, grazie anche all’adesione del Prc e di altri partiti più piccoli della galassia anticapitalista, oltre mille persone. Nascerà Potere al popolo, lista comunista e movimentista allo stesso tempo, che otterrà l’1,1%. Leu invece ottiene il 3,4%. Una delusione per entrambi che si tradurrà nelle spaccature che tutte e due le formazioni subiranno pochi mesi dopo le elezioni. Potere al popolo vedrà l’abbandono da parte del Prc che non sopporta la presa sul nuovo partito che gli attivisti napoletani sono riusciti ad assicurarsi, mentre LeU si dividerà di nuovo tra chi, gli ex Pd, torna a essere attratto dai movimenti che la sconfitta di Renzi produce in quel partito e chi, Sinistra italiana, con il Pd non vuole avere nulla a che fare.
La coazione a ripetere
Raccontata così, sembra davvero una coazione a ripetere e una farsa che si sostituisce alla tragedia. Ci sono però alcuni punti fermi in questa storia che, senza presunzione di esaustività e senza presunzione alcuna in ogni caso, proviamo a riepilogare.
Il primo è che ogni unificazione avviene per decisione presa dai gruppi dirigenti. Il massimo della concessione che viene offerta a un ipotetico “popolo della sinistra” è l’assemblea nazionale, in genere in un teatro, atto che fungerà da denominazione del processo. Quelli “del Brancaccio”, quelli del “teatro Italia” e degli altri luoghi del passato che con il tempo finiscono per essere dimenticati. A fronte di questo, senza farne un modello di riferimento, si assiste agli esperimenti di democrazia diretta “rousseauiana” del Movimento 5 stelle e che, parzialmente, solo Potere al popolo ha cercato di riprodurre. Nessun percorso di partecipazione effettiva, di presa di parola e quindi di sovranità è stato mai tentato. Ne è prova che i simboli elettorali dei vari esperimenti sono sempre stati nella disponibilità di questo o quel dirigente e successivamente dimenticati. Così come nessun controllo o nessuna novità è stata proposta sul piano degli eletti: ad esempio con l’impegno vero a dimettersi a metà mandato per dare spazio all’eletto o eletta successivi. Palliativi, certo, ma soluzioni possibili per invertire una sfiducia verso gruppi dirigenti sempre più autoreferenziali e guidati dall’ossessione di ritornare a essere eletti.
Questi aspetti tecnici si spiegano con la natura stessa dei processi di unificazione che sono stati sempre elettorali, ma mai legati alla dimensione sociale e alla politica tra una elezione e l’altra. Mai orientati a una campagna sociale, quale essa sia, mai espressione di una solidarietà ritrovata nel basso dell’agone politico per poi essere trasferita nel momento della rappresentanza. Dalla diaspora di Rifondazione in poi, i partiti della sinistra non sono riusciti a immaginare nessun “patto di azione” in grado di ragionare su programmi e risposte immediate ai temi politici. Nemmeno a semplici patti legati a questa o quella campagna, nemmeno sull’ascesa del razzismo e della criminalizzazione dei migranti si è riusciti a immaginare una rivitalizzazione di spazi comuni, magari eccedenti le forze costituenti per trovare nuove energie militanti. Ci sono state adesioni a movimenti sociali, ma non iniziative politiche che andassero nella stessa direzione.
Il “popolo della sinistra” non c’è più
La politica istituzionale ha sempre avuto la priorità. Per ragioni materiali, di sopravvivenza dei piccoli apparati rimasti, ma anche per l’oggettiva fragilità del sistema politico e delle paratìe ormai issate tra rappresentanza e rappresentati. Per cui, immaginare di stare stabilmente dalla parte dei rappresentati può significare anche perdere la corsa alla rappresentanza.
E qui ci sono due temi politici più significativi. Il primo riguarda la perdita di un agente collettivo a cui fare riferimento. Non solo in termini sociologici e indicativi di quella che abbiamo chiamato la “classe” e che potremmo definire un soggetto sociale composito e plurale in grado di incarnare una volontà generale per il cambiamento sociale. Non si è lavorato a quella che i teorici del populismo di sinistra, come Chantal Mouffle, chiamano “la costruzione del popolo” e quindi la capacità di collegarsi a istanze dei movimenti sociali e delle diverse soggettività per costruire un discorso egemonico. È quanto sono riusciti a fare formazioni come Podemos e France Insoumis, a prescindere dal giudizio che ne diamo – e tra l’altro le due formazioni sono anche diverse tra loro – ma per il metodo scelto. La capacità di dare valore al discorso egemonico, nel senso gramsciano del termine, rispetto alla mera unità aritmetica dei gruppi dirigenti. Qui si coglie tutto il peso di partiti, ormai ridotti al minimo, che però restano ancorati a forti nostalgie, guardano la realtà con gli occhiali di vicende spesso concluse e soprattutto scontano l’inattività sul piano della ri-costruzione. Ricostruzione di pensiero ma anche di ambiti sociali, “casematte”, sperimentazioni sociali. Su questo piano aveva avuto un dibattito interessante, diverso tempo fa, Rifondazione comunista quando ha fatto intravedere l’ipotesi di “partito sociale” mutuata dall’analisi di Pino Ferraris, sociologo che ha il merito di aver reintrodotto in Italia il tema del mutualismo. Il partito sociale, però, è stato rapidamente costretto nella morsa di un esperimento settoriale, delegato ad alcuni, e poi triturato dentro le dinamiche proprie del partito istituzionale, nettamente prioritarie.
Complessivamente, però, il punto della ricostruzione sociale, delle forme primordiali di solidarietà tra i soggetti che vanno evocati per costruire una soggettività plurale più ampia, è rimasto in sordina e non costituisce il punto nevralgico per la ricostruzione della sinistra.
Più rilevanza, invece, sembra avere il dibattito annoso dei rapporti a sinistra e, segnatamente, con il Pd. Non a caso è questo che provoca la rottura di LeU e che, in una concatenazione infinita, riguarda tutte le altre formazioni. Si rompe LeU e quindi Sinistra italiana ha di nuovo interesse a rapportarsi al Prc che, quindi, rompe Potere al Popolo, etc. etc.
Il rapporto con il Pd è il punto che ripropone, a ogni evenienza, un doppio comportamento: la necessità costante dell’interlocuzione a ogni costo, a prescindere da quello che il Pd nel frattempo è diventato, cioè un partito liberale progressista (e neanche sempre) e non più un partito di sinistra. La sinistra più radicale si è liberata di questo peso o rimuovendolo, ma dovendoci poi fare i conti a ogni elezione, oppure esorcizzandolo, facendo finta di non vedere che i movimenti del Pd, a prescindere dalla sua natura, hanno effetti a catena e necessitano, per essere affrontati efficacemente, di una struttura solida, di una omogeneità conquistata, di quello che si definiva radicamento sociale e di un discorso egemonico.
Quello che non si vede all’orizzonte è una riflessione critica e autocritica sull’immaginario storico costruito dal “popolo della sinistra”. In fondo, il mito dell’unità, si basa sulla pre-esistenza di questo “popolo” e sulla necessità di costruire le strutture rappresentative in grado di incanalarlo e di rappresentarlo. Per dirla con una battuta, trovare un teatro abbastanza grande e capiente da poterlo rappresentare tutto.
E invece è proprio quel popolo, semmai è esistito, che non c’è più. Si è sfarinato e disarticolato dopo la rottura del compromesso socialdemocratico e a seguito delle incursioni effettuate dal neoliberismo, anch’esso oggi in fase di cambiamento. Il tema è grande per essere affrontato solo nelle battute finali di questo articolo, perché occorrerebbe domandarsi se proprio per aver inseguito un fantomatico popolo le forze della socialdemocrazia e i partiti comunisti dell’Europa meridionale, non si siano condannate al progressivo esaurimento. Oggi, sarebbe necessario, invece, immaginare nuove strade per evocare un “soggetto” del cambiamento che, ad esempio, non potrebbe prescindere dal nuovo femminismo, dalla composizione migrante del lavoro, dalla precarietà vissuta come permanente dalle giovani generazioni, dall’impatto del lavoro digitale, dalle nuove forme di sfruttamento. Un soggetto che, proprio per questo, difficilmente rientra nella categoria di popolo, ma che può trovare un “noi” da contrapporre a “loro”: noi il 99% contro l’1% di cui parlava Occupy Wall Street, “noi” come moltitudine solidale, noi come protagonisti di una nuova democrazia radicale. Quale che sia il “noi” che dovrà esprimersi, che dovrà mettersi in relazione, che dovrà inverare un nuovo filone di solidarietà e democrazia, resta la precondizione per un cammino unitario il quale, per essere efficace, dovrà dimostrare di essere utile alla manifestazione di quello. Altrimenti non resta che aspettare la sesta iniziativa per una sinistra unita.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
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