Il razzismo, senza veli
L'immagine di Silvia Romano che scende le scalette dell'aereo ha riacceso la miccia di un ordigno xenofobo che circola da anni
È innegabile, la foto di Silvia che scende le scale dell’aereo con il velo, dopo essere stata prigioniera per 535 giorni dei jihadisti di al-Shabāb, è un’immagine forte che colpisce tutti e che subito diventa simbolo. Subito è uno strabordare di analisi, commenti e titoli sulla sua conversione che hanno un sapore feticista. La miccia è corta e il meccanismo ben oleato del dibattito intorno all’islam e alla sua compatibilità con la società italiana si riaccende. Niente di nuovo mi vien da dire. Per eliminare le distorsioni di quella fotografia bisogna, ogni volta, ripercorrere traiettorie storiche lunghe e cercare di andare a fondo per non restare sulla superficie del discorso. Come è che siamo arrivati a questo ordine di parole?
Una questione di sicurezza
Prima della teorizzazione e del successo dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta del Novecento si afferma negli studi delle relazioni internazionali la Scuola di Copenhagen cui si deve il concetto di securitizzazione (securitization). Siamo in piena fase di riassetto economico e politico neoliberale; siamo alla fine della Guerra fredda, nel momento in cui si ripensano e si rimodellano i confini politici e concettuali della sicurezza.
Secondo i teorici della Scuola di Copenhagen, la minaccia all’esistenza stessa di un gruppo (di una nazione) è politicamente e socialmente costruita. Così, una questione può diventare di sicurezza, pur non essendolo, se un attore (di solito istituzionale o politico) la definisce come tale proponendola a un’audience che la accetta in quanto tale. Questa costruzione permette il trattamento della questione con misure straordinarie o di emergenza, spesso definite di sicurezza. È quello che è successo a proposito dell’immigrazione su scala globale. Per stare all’Italia, l’immigrazione è passata dall’essere trattata come questione di gestione della manodopera straniera negli uffici del ministero del lavoro a questione di sicurezza affidata al ministro degli interni. Molti migranti, che raggiungono l’Italia in numero sempre maggiore a partire dagli anni Ottanta, sono musulmani.
Nel 2012 Jocelyne Cesari scrive un articolo dal titolo «Securitization of Islam in Europe» riprendendo la teorizzazione della Scuola di Copenhagen. L’autrice individua i due aspetti caratterizzanti di questo processo dilatatosi e rinnovatosi a ogni attacco jihadista su suolo occidentale a partire dall’undici settembre: da un lato la crescita del discorso anti-islamico e, dall’altro, le limitazioni alla pratica religiosa islamica.
Se il migrante è diventato un potenziale assaltatore, ladro, assassino che mette a rischio la sicurezza personale e la proprietà privata, il musulmano mette a rischio la sicurezza collettiva in termini identitari e di esistenza; il musulmano porta la minaccia non dichiarata nel cuore d’Europa. Ed è una minaccia che riaffiora. Silvia ha riacceso la miccia.
Una presenza perturbante
Nel 1996 Stefano Allievi, uno dei più attenti osservatori e studiosi dei musulmani in Europa e in Italia, scrive: «Laddove non erano riusciti il feroce Saladino e la Sublime Porta, il turco e il saraceno, laddove gli eserciti non avevano potuto prevalere, sui Pirenei o a Vienna, ecco che riescono, senza averlo voluto, le armate Brancaleone dei nuovi immigrati. L’islam, che non era riuscito a conquistare l’Europa manu militari, comincia adesso ad abitarla pacificamente: e per le conseguenze impreviste (anche se tutto fuorché imprevedibili) di fenomeni sociali più o meno sotterranei anziché per effetto di un deliberato disegno».
L’islam è, nella memoria degli europei, nella storia scritta e raccontata, l’entità nemica per eccellenza nonostante, oltre alle guerre e ai conflitti, non siano mancati scambi, commerci, conversioni, cortesie, alleanze, accordi, connivenze e convivenze. L’islam è diventato l’entità che nei secoli ha minacciato le terre cristiane ed è stata fermata a Poitiers e a Lepanto.
Ecco, quindi, che i jihadisti contemporanei, in verità figli della modernità e della storia contemporanea, innovatori e non tradizionalisti, sono la rappresentazione perfettamente corrispondente di quella entità. Tutta l’esperienza islamica, se non alla volontà di conquista dei jihadisti, è ricondotta quantomeno all’islamismo (o islam politico) che, si dice, vuole trasformare la società, anche quella europea, per farne il regno della sopraffazione. Gli al-Shabāb sono l’incubo perfetto che riaffiora ogni notte.
L’islam oggi è la seconda confessione religiosa in Europa grazie ai milioni di migranti musulmani che hanno fatto dei Paesi di approdo la propria casa. Il musulmano è in Europa, la abita, è nella casa, è qualcosa di familiare che riaffiora ogni giorno.
Si tratta di una presenza che Freud, forse, avrebbe definito unheimlich, dal carattere perturbante che è dato, ci dice Umberto Curi, «dalla scoperta che ciò che consideravamo acquisito, vale a dire la relazione di mutua esclusione fra Heim e un-Heim, fra “casa” e “non casa”, fra l’ambito domestico e quello estraneo alla casa, deve essere sostituito dalla consapevolezza – davvero in ogni senso perturbante – che non si dà affatto un’opposizione assoluta fra “casa” e “non-casa”, e che anzi la prima può rivelarsi essere, insieme e indissolubilmente, anche la seconda». Silvia è tornata a casa portando con sé qualcosa di estraneo e allo stesso tempo di già presente, ha riportato il nemico in casa. Silvia è perturbante.
Una cultura di destra
Poitiers, Lepanto, Vienna e le gesta eroiche. Il passato che riaffiora non è solo quello del perfido saraceno ma anche quello degli eroi cristiani. Sono le destre a elaborare un linguaggio che fa leva su un passato storicamente indifferenziato. E così anche la Lega Nord, il partito che, in Italia, ha orientato più di tutti il discorso sull’islam, abbandona i riti pagani e riscopre il cristianesimo.
Renzo Guolo nel 2011 pubblica un libro dal titolo Chi impugna la croce nel quale afferma:
La presenza di un grande numero di musulmani tra gli immigrati, la loro crescente visibilità, la percezione dell’islam come Altro irriducibile, come ‘pericoloso morbo della Storia’ che minaccerebbe i popoli stanziati sul “territorio padano”, obbliga la Lega a riscoprire il cristianesimo come religione capace di far fronte a un sistema simbolico totalizzante, e percepito come dirompente, quale l’islam […] Davanti alla ‘minaccia islamica’ e al grido di ‘mai il minareto butti l’ombra sul campanile!’ il Carroccio mette, così, in secondo piano il neopaganesimo, riscopre la religione cattolica e si fa paladino dell’identità cristiana dell’Europa.
L’Italia diventa la terra cristiana da difendere, la Lega Nord diventa cattolicissima più della Chiesa cattolica. Cambiano i miti fondativi fino a proporre come patrono d’Europa Marco d’Aviano, padre cappuccino artefice di quella «Lega Santa» che nel 1683 sconfisse alle porte di Vienna l’esercito islamico dell’Impero Ottomano. Fino a baciare il rosario in Parlamento. Fino a sventolare gli strali letterari contro l’islam di Oriana Fallaci.
Tutto diventa parte di un apparato culturale tecnicizzato. Nel 1979 Furio Jesi in Cultura di destra scriveva: «Tutto l’apparato culturale messo in atto (indipendentemente dalle sue contraddizioni interne o quantomeno dai suoi stili diversi) è tecnicizzato affinché si possa dire di avere una cultura, cioè è trasformato in un feticcio-cultura, sacrale ed essoterico. Gli elementi culturali sono per così dire omogeneizzati in questa pappa, dichiarata preziosa, ma anche ben digeribile da tutta la classe mediamente istruita, non ci sono più veri contrasti, vere punte, spigoli e durezze. Il suo veicolo linguistico è composto di luoghi comuni, ma non di luoghi comuni del parlare profano quotidiano, bensì di luoghi comuni decantati dal parlare letterario. Questo linguaggio per luoghi comuni di provenienza aulica è dichiarato modello di chiarezza, si dice che tutti lo capiscono, e di fatto (sebbene si debba molto esitare qui sull’uso della parola capire) non provoca sconcerto. Non ha rapporto con la ragione, né con la storia: nasce da roba di valore che viene chiamata il passato, ma che è così storicamente indifferenziata da poter circolare nel presente. È sfruttabile, ed è generalmente sfruttato, come veicolo dell’ideologia della classe dominante». Silvia è diventata, così, traditrice e non appartiene più alla comunità, alla nazione [cristiana].
Un bastone laico
Se si fa attenzione al più generale dibattito intorno all’islam e alla sua compatibilità con le società di accoglienza, ci si accorge che di questa pappa omogeneizzata, oltre al feroce saladino e all’eroe cristiano, entrano a far parte altri elementi svuotati della loro storicità. È il caso della laïcité, protagonista, soprattutto in Francia, di un dibattito feroce che ha attraversato tutti gli schieramenti politici – compreso quello della France Insoumise come raccontato da Emre Öngün su Jacobin. La laicità, proprio in rapporto alle minoranze religiose e in particolar modo a quella islamica, è entrata a far parte anche del patrimonio delle destre che la agitano come un bastone a ogni richiesta avanzata da soggetti religiosi diversi da quelli maggioritari.
In Italia la difesa della laicità è un tema che preoccupa soprattutto alcuni settori dell’eterogeneo schieramento della cosiddetta sinistra progressista. Uno dei canali che più insistono sulla questione è la rivista MicroMega, ma non mancano interventi su il Manifesto, come quelli di Giuliana Sgrena. Quando un musulmano occupa uno spazio pubblico rivendicando la propria appartenenza religiosa, i difensori della laicità ne respingono la legittimità adducendo quasi sempre la necessità di arginare una tensione conservatrice. Quando lo fa una musulmana, consapevolmente o meno dato il carattere altamente simbolico del solo abbigliamento islamico femminile, i toni diventano quelli del rimprovero. Insomma, se non è colpevole di essere diventata musulmana, Silvia, e con lei molte altre, è quantomeno inconsapevole, turbata, fragile, ingenua.
Rimozione
Si rimuove dal dibattito, quindi, tutta la complessità dell’islam che si riduce a uno, irriducibilmente altro, non compatibile e pericoloso. Il musulmano diventa, così, il soggetto che mette a rischio la sicurezza collettiva in termini identitari e di esistenza.
Se si pensa alla Somalia, si tratta anche di un rimosso coloniale di cui pochi hanno parlato nel dibattito pubblico italiano – tra gli altri Giap, il blog dei Wu Ming, Igiaba Scego, Jacobin Italia. Si rimuove, inoltre, la profondità storica facendo dell’islam l’entità che nei secoli ha minacciato le terre cristiane, facendo dell’Europa la fortezza cristiana da difendere.
È la rimozione, infine, di un dato che invece dovrebbe essere il punto intorno al quale riorganizzare il pensiero e le parole: i musulmani in Europa, in Italia, sono una minoranza. Il complesso processo storico della formazione della minoranza islamica ha trasformato il paesaggio religioso europeo con il cambiare delle prospettive dei migranti in arrivo dai Paesi a maggioranza islamica o da Paesi con forti minoranze islamiche. I lavoratori con una prospettiva di permanenza temporanea sono diventati residenti definitivi. «Volevamo braccia, sono arrivati uomini» è la famosa frase di Max Frisch in riferimento agli italiani in Svizzera che potremmo riutilizzare a proposito dei musulmani. Volevamo braccia, sono arrivati uomini, e successivamente donne e bambini, famiglie, con tutto il loro portato e le loro esigenze religiose. Si può dire che i musulmani sono sicuramente meno del 5% sul totale della popolazione residente in Italia, anche se le stime cambiano a seconda delle modalità di rilevazione che conservano un margine di errore piuttosto ampio per via dell’inesistenza di una banca dati di classificazione per confessione religiosa. Cosa vuol dire, quindi, essere minoranza islamica in Italia? Di quale esercizio del potere sono capaci i musulmani inseriti in settori lavorativi marginali e le associazioni islamiche che cercano di organizzare le richieste della comunità? E quali sono queste richieste?
La minoranza islamica in Italia, di per sé plurale e complessa, non è un gruppo omogeneo, non può e non vuole esercitare un potere per imporre il proprio modello organizzativo, sociale, politico e religioso. Essa, piuttosto, compartecipa all’esercizio del potere in campo religioso insieme ai dispositivi istituzionali italiani e di Paesi a maggioranza islamica per garantirsi un riconoscimento formale e il soddisfacimento di alcune richieste relative allo spazio pubblico (per moschee, cimiteri o macellazione rituale), all’organizzazione del lavoro (flessibilità di orari e calendari), al sistema educativo (insegnamento a-cattolico) e all’applicazione dello statuto personale islamico ove possibile. Le organizzazioni islamiche più rappresentative in Italia hanno dichiarato più volte negli anni la propria adesione all’ordinamento fino a firmare il Patto nazionale per un islam italiano nel febbraio del 2017 con l’allora ministro Marco Minniti che lo presentò come, parole sue, il patto della pecorella smarrita. Silvia, come e più dei suoi correligionari, è, nel migliore dei casi, una pecorella smarrita.
Far riaffiorare nel dibattito pubblico, ogni volta, gli elementi di complessità invece che quelli della pappa omogeneizzata fatta di feroci saraceni, eroi cristiani e laicità astoriche, significherebbe porsi quantomeno nel solco della garanzia dei diritti previsti dallo Stato laico e quindi garante del pluralismo [anche quello religioso]. Significherebbe, magari, riuscire a eliminare le distorsioni nell’immagine dell’islam per svelare i meccanismi di riproduzione delle diseguaglianze.
L’islam è la seconda confessione religiosa in Italia dopo quella cristiana. In Italia non esiste ancora una legge sulla libertà religiosa (garantita dall’articolo 19 della Costituzione) e non è stata ancora raggiunta un’intesa tra la confessione religiosa islamica e lo stato (strumento previsto dall’articolo 8 della Costituzione). Per riprendere Jocelyne Cesari, la securitizzazione dell’islam e il discorso anti-islamico conseguente limitano la pratica religiosa islamica e impediscono il pieno godimento dei diritti previsti dall’ordinamento italiano.
I musulmani in Italia sono migranti o figli dell’esperienza migratoria; hanno prospettive reddituali inferiori rispetto alla maggioranza della popolazione essendo inseriti in alcuni settori lavorativi marginali. Per riprendere la riflessione di Furio Jesi sul linguaggio composto da luoghi comuni che si fa veicolo dell’ideologia della classe dominante, mi chiedo cos’è quel discorso anti-islamico se non una delle tante forme di razzismo, e quindi «la giustificazione ideologica per la gerarchizzazione della forza-lavoro e per la distribuzione estremamente ineguale delle ricompense»? Il razzismo (il razzismo senza razza ma fatto di fattori culturali e tradizioni per dirla con Etienne Balibar), dice Immanuel Wallerstein, è stato anche molto di più: «È servito a socializzare i gruppi nel proprio ruolo nell’economia. Gli atteggiamenti inculcati (i pregiudizi, il comportamento palesemente discriminatorio nella vita quotidiana) sono serviti a tracciare la cornice del comportamento appropriato e legittimo per sé e per gli altri, all’interno del proprio aggregato domestico e del proprio gruppo etnico. Il razzismo, proprio come il sessismo, ha funzionato come una ideologia auto-repressiva, modellando le aspettative e limitandole».
Silvia che è diventata d’un colpo una minaccia perturbante, una traditrice, un’ingenua, non è una migrante e probabilmente non vivrà mai le condizioni dei musulmani migranti o figli dell’esperienza migratoria. L’immagine di lei che scende le scale dell’aereo con il velo, però, è stata usata per riaffermare e confermare, ancora una volta, una gerarchia.
Mi vien da dire, purtroppo, niente di nuovo. Ma, almeno, Silvia è libera.
*Dottore di ricerca in Storia dell’Islam Contemporaneo presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” con una tesi sulla gestione del campo religioso islamico in Italia – *Nicola DI Mauro è docente a contratto presso lo Spring Hill College di Bologna. Si occupa attualmente di storia delle comunità islamiche in Europa e in Italia.
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