Il responsabile
Socialdemocratico nel Pci e poi artefice dell'approdo del Pd nel campo della moderazione e delle compatibilità: il secolo di Giorgio Napolitano
Per la sinistra italiana c’è un prima e dopo il Pci, un prima e dopo la nascita del Pd, ma c’è anche, forse soprattutto, un prima e dopo Giorgio Napolitano. Ed è curioso il destino di questo dirigente a vita del Partito comunista italiano, nato solo dopo quattro anni la scissione di Livorno del 1921, e morto dopo quasi un secolo, che trova la sua funzione storica solo dopo aver compiuto gli ottant’anni, quando viene eletto presidente della Repubblica.
Un po’ di storia, certo, l’aveva fatta anche nel Partito comunista di cui ha sempre rappresentato la vocazione socialdemocratica, tenuta a freno pervicacemente da un gruppo dirigente che in realtà andava in quella direzione ma che per fedeltà al lignaggio, cura del marchio, riferimento a una base popolare forgiatasi nelle grandi lotte del dopoguerra, la concessione ai cugini socialisti non poteva farla. Anche quando si trattò di cambiare il nome al partito, con Achille Occhetto nel 1989, si scelse il progressista Partito democratico della sinistra, piuttosto che mescolarsi al termine socialista insozzato dal Psi di Bettino Craxi.
Lui, invece, cresciuto a Napoli sotto l’ala protettiva del più a destra e più stalinista dirigente comunista, Giorgio Amendola, coltiva un comunismo moderato, aperto ai ceti medi, eppure mai in rottura con la casa madre. All’8° congresso del Pci, nel 1956, subito dopo il dramma ungherese, con i carri armati sovietici che reprimono la rivolta di Budapest, alla netta affermazione di Antonio Giolitti, che su quei fatti lascerà il Pci, risponde che Mosca «oltre a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione» ha «contribuito in maniera decisiva non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo».
Napolitano entra nel comitato centrale del Pci e poi all’XI congresso, nel 1966, il primo del dopo Togliatti, quello dello storico scontro tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, con quest’ultimo messo in minoranza, diventa anche il coordinatore della segreteria. La bussola, sarà già quella fissata da Amendola nel 1964 in un articolo su Rinascita in cui quel dirigente prestigioso del Pci proponeva «un grande partito nuovo della classe operaia» ipotizzando la riunificazione con il Psi che nel frattempo, però, governava con la Dc di Fanfani e Moro e stava gestendo il processo di unificazione, poi fallito, con il Partito socialista democratico italiano (Psdi) di Giuseppe Saragat.
«Nessuna delle due soluzioni prospettate alla classe operaia dei paesi capitalistici dell´Europa occidentale negli ultimi cinquant’anni – scriveva Amendola –, la soluzione social-democratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino a ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società». La fusione, quindi, sarebbe dovuta avvenire non come integrazione o ammissione di sconfitta, ma su basi nuove. Già allora l’ipotesi del «partito unico» fece scattare una vasta ribellione interna, mentre Napolitano se ne abbevera e la conserva come soluzione strategica per la sinistra italiana. Scartato il suo nome come segretario del partito dopo la segreteria di Luigi Longo – verrà scelto Enrico Berlinguer – inizia a coltivare un ruolo internazionale e soprattutto diventa il referente del Pci verso gli Stati uniti. L’uomo atlantico, in grado di rassicurare le cancellerie occidentali e di costruirsi solide relazioni e affidabilità che si vedrà messa all’opera durante la sua seconda vita al Quirinale.
All’atto del cambiamento di nome del Pci proporrà, nel solco di Amendola, lo sbocco socialdemocratico e la riunificazione con il Psi ma verrà sconfitto di nuovo rimanendo minoranza nel partito. Condizione che non gli impedisce di essere eletto alla presidenza della Camera nella corta legislatura del 1992. Prima, quindi, dell’avvento di Silvio Berlusconi.
Fino al 2006 è figura rispettabile e in virtù del suo curriculum moderato e istituzionale assumerà l’incarico di ministro dell’Interno nel primo governo Prodi, nel 1996, dando il suo nome alla legge Turco-Napolitano, la prima a inasprire le norme contro l’immigrazione. Ma il suo momento di gloria sopraggiunge solo quando, dopo la vittoria dell’Unione nel 2006, il centrosinistra dovrà eleggere il capo dello Stato. Il candidato in pectore è Massimo D’Alema che però, oltre al diniego del centrodestra, dovrà registrare le tante ostilità nel suo partito e nei partiti alleati. D’Alema si fa da parte e gli allora Ds scelgono Napolitano, figura di garanzia offerta anche all’opposizione che però non raccoglie a eccezione del centrista Pierferdinando Casini. Dal Quirinale, Giorgio Napolitano accompagna la politica italiana, e soprattutto quella del partito di riferimento, più da presidente interventista che da figura discreta e di garanzia come il suo ruolo vorrebbe. Quello che innanzitutto si prefigge è sbianchettare dal nascente Partito democratico – che vede la luce nell’ottobre 2007 – qualsiasi, già scarso, residuo di radicalità propugnandone la natura di partito di sistema e di establishment soprattutto in funzione europeista e atlantica. E questo ruolo si manifesterà esaurientemente nei tanti episodi di interventismo diretto nella politica quotidiana e di protagonismo assoluto che ne faranno un dominus incontrastato e protagonista della prima grande eccezione costituzionale in tema di presidenza della Repubblica, la rielezione del 2013.
Napolitano farà capire subito, a nemmeno un mese dalla sua prima elezione, quale sarà la cifra della sua presidenza. Il 7 giugno 2006, infatti, invita a pranzo al Quirinale colui che gli ha negato il voto e che il neo presidente invece vuole coinvolgere nella gestione del paese, Silvio Berlusconi. Alla maggioranza ballerina che in quel momento governa nel segno di Romano Prodi – con soli due voti di scarto al Senato – chiede costanti «test di coesione» e prove di affidabilità, su due temi fondamentali: il rispetto dei parametri economici europei e quindi di politiche di bilancio austere e la piena accettazione delle scelte internazionali in tema di missioni militari, a partire dall’Afghanistan. Proprio su questo dossier, di fronte alle convulsioni del centrosinistra al governo, pretenderà nel febbraio del 2007, quando l’esecutivo dimostra di avere bisogno dei voti dell’opposizione per l’ampliamento della base militare di Vicenza, una verifica di maggioranza in Senato. Ne farà le spese ancora Massimo D’Alema, ministro degli Esteri, la cui risoluzione non raggiungerà la maggioranza costringendo Prodi a dimissioni poi rientrate nel giro di 24 ore. Napolitano inizia a convincersi che il bipolarismo italiano fatto di contrapposizioni spesso strumentali non è la soluzione più favorevole per l’Italia, che le due coalizioni di allora dovrebbero parlarsi e collaborare di più. Quando Prodi cade nel gennaio del 2008 fa un tentativo per offrire il governo all’ex democristiano Franco Marini coinvolgendo Berlusconi il quale, però, non ha interesse a rinunciare al voto dove si prepara a ottenere una maggioranza schiacciante.
Servirà la crisi del 2011, quella dello «spread», con la delegittimazione interna e internazionale dello stesso Berlusconi per vedere di nuovo Napolitano alle prese con il proprio progetto. Stavolta con una scelta quirinalizia tanto legittima quanto corsara. Dopo il fallimento del governo Berlusconi, che l’8 novembre del 2011 vede approvato il Rendiconto dello Stato solo grazie alle opposizioni che non partecipano al voto, il 9 novembre nomina senatore a vita Mario Monti, già presidente della Bocconi, indicando in modo esplicito la via di uscita dalla crisi. Dopo il governo Ciampi del 1992, l’anno in cui Napolitano è presidente della Camera, tornano le larghe intese, la grande coalizione, «l’ammucchiata» o «l’inciucio», tendenza sempre presente nelle istituzioni parlamentari e stavolta motivata per il bene superiore della Patria. Monti dura poco, nel 2013 si torna al voto e si assiste al «terremoto» elettorale provocato dalla grande vittoria del Movimento 5 Stelle che mette a soqquadro gli equilibri politici. E anche stavolta Napolitano, rifiutando di conferire un incarico pieno al segretario del Pd, Pierluigi Bersani – che in quelle elezioni era comunque giunto al primo posto – favorisce di nuovo il governo delle «larghe intese» presieduto prima da Enrico Letta e poi, dopo la conquista del Pd, da Matteo Renzi. In tutti questi passaggi Napolitano non si limita a suggerire o consigliare, ma precede gli eventi, li determina e li guida. Fa in modo che il Pd non deragli mai da una «responsabilità nazionale» che lo rende sempre più partito di sistema, di establishment, così percepito dagli elettori e infatti costantemente punito nelle urne.
La responsabilità nazionale, del resto, è la caratteristica centrale del suo mandato presidenziale, ben oltre il dettato costituzionale. Garantisce che l’Italia sia pienamente interna alle regole atlantiche, come dimostra il ruolo di primo piano che si riserva nella crisi libica del 2011 quando interviene su un Berlusconi «renitente alla leva» per appoggiare il bombardamento di Tripoli e la cacciata di Gheddafi. Si batte in prima linea per non derogare mai dai dettati di Bruxelles, punta con decisione, costituendo anche una apposita commissione «di saggi» a una riforma costituzionale che rafforzi la tendenza, avviata nei primi anni Novanta, di un potere concentrato sull’Esecutivo a scapito del Legislativo. Del resto, di fronte alla vittoria di Donald Trump nel 2016 ebbe a dichiarare che quella fu uno degli «eventi più sconvolgenti della storia della democrazia europea e americana, e del suffragio universale che non è sempre stata una storia di avanzamento…».
Un pensiero elitario, degno del miglior liberal-conservatorismo europeo a cui, nel suo cuore, Napolitano è appartenuto nonostante la lunga militanza nel Pci che, agli occhi del suo ruolo storico, sembra aver rappresentato solo un accidente della storia.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre 2018) e di Si fa presto a dire sinistra (Piemme 2023).
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