Il romanzo politico serve a capire il mondo
Intervista al narratore e saggista Gabriele Pedullà: «Ci sono verità che possiamo cogliere unicamente attraverso la scrittura e la finzione. Conoscerle può essere altrettanto essenziale per quanti si battono contro il presente stato di cose»
Gabriele Pedullà, intellettuale versatile (machiavellista e contemporaneista di vaglia) e autore letterario di autentico talento, è da poco tornato in libreria con Certe sere Pablo (Supercoralli Einaudi), coerente raccolta di tre racconti lunghi, che ha subito ottenuto un’estesa attenzione critica. Molti l’hanno letto, correttamente, come sintomo – non unico ma di rilievo particolare – della rinascita di un interesse politico nella narrativa italiana. Del resto, Gabriele – con il quale ho condiviso un lungo tratto di vita e di attività politico-letteraria, dalla redazione del Caffè illustrato all’esperienza di TQ all’attività del collettivo C17 – ha sempre dichiarato, a differenza della gran parte degli scrittori nostri coetanei, una passione francamente socialista. Eppure, sul segno politico del suo nuovo libro si sono avute interpretazioni divergenti. Alcuni vi hanno visto un omaggio alle stagioni della rivolta (Sessantotto, Settantasette), persino – nel primo dei tre racconti – ai più flebili movimenti degli anni Ottanta e alla prima fase del Pds fino alle vittoriose elezioni comunali del 1993. Altri hanno preso spunto dagli elementi ironici, talvolta umoristici, presenti nelle ricostruzioni di quelle fasi attraverso le vicende dei protagonisti delle tre novelle, che vi parteciparono in ruoli sempre defilati, per dedurre un chiaro, persino sprezzante rifiuto degli scopi e dei metodi di quelle fasi.
Che cosa pensi di questa bizzarra oscillazione ermeneutica?
Che, evidentemente, il libro funziona… Naturalmente è solo una battuta. Ma tu hai messo il dito nella questione fondamentale di ogni romanzo politico: lo scarto necessario dalla pura e semplice enunciazione di una tesi, per quanto finzionalizzata attraverso una trama e dei personaggi sperabilmente non inverosimili. L’autore di un saggio ha il dovere di essere quanto più chiaro possibile rispetto alle proprie analisi, diagnosi, proposte. Chiaramente, però, la narrativa non procede allo stesso modo. Raccontare vuol dire inventare un mondo. E questo mondo, per essere credibile, in qualche misura deve essere opaco (moralmente e cognitivamente), così da assomigliare a quello nel quale siamo abituati a muoverci.
Non ci sono allora che due strade. Una è quella dell’allegoria, che può assumere le forme più diverse: apologo, fiaba, fantascienza, morality play, distopia… Spesso i grandi scrittori politici del Novecento vi hanno fatto ricorso con eccellenti risultati, dal Jack London de Il tallone di ferro a Bertolt Brecht, da George Orwell ad Albert Camus, da Italo Calvino a Julio Cortázar, da Anna Seghers a Kurt Vonnegut. In casi simili l’ambizione dimostrativa, addirittura pedagogica, viene dichiarata dall’inizio, e il lettore non si sente turlupinato: accetta in partenza che colui che scrive ha un preciso messaggio da fargli giungere e che ha scelto di servirsi della forma narrativa a causa della sua efficacia espositiva.
Completamente diverso è il caso del romanzo realistico. Qui, infatti, è necessario persuadere il lettore anzitutto che il mondo presentatogli è credibile – senza la qual cosa qualunque successiva dimostrazione risulterà nel migliore dei casi forzata, se non addirittura fasulla. È la ragione per cui il realismo socialista ci appare oggi così indigeribile, e appariva tale a molti dei primi lettori già al suo apparire. Se non leggiamo più Vasco Pratolini, se i romanzi di Pier Paolo Pasolini ci lasciano freddi (a esser generosi), è perché l’uno e l’altro hanno piegato la trama al messaggio, in modo che non potesse esserci alcun dubbio sul fabula docet finale. I grandi narratori politici imboccano una strada differente, costruendo una macchina romanzesca apparentemente impassibile che promette di svelare da sola alcune costanti della Storia e dell’animo umano. Di rado i romanzieri di sinistra sono stati disposti a correre lo stesso pericolo, probabilmente perché sentivano il dovere di scrivere per un pubblico ampio, di lettori solo parzialmente scolarizzati e con meno strumenti interpretativi. Per raggiungere un simile scopo, ci voleva allora l’eroe proletario positivo, occorreva mettere in scena i cattivi-cattivi e i buoni-buoni. E, con le migliori intenzioni, in certi anni anche narratori di rango hanno pagato sin troppo a cuor leggero questo pedaggio all’immediata efficacia politica.
Non è stata però una buona scelta, e oggi tutta la letteratura del realismo socialista ci appare di una falsità imperdonabile. Sentimenti prefabbricati, situazioni scontate, meccanismi psicologicamente regressivi… Alla luce di queste considerazioni, ho preso le incertezze e le oscillazioni dei miei primi lettori come il migliore complimento possibile. Volevo scrivere un testo ambiguo e fraintendibile, cioè un testo pienamente letterario, non un testo didattico o propagandistico, e a questo punto posso forse dire che ci sono riuscito. Anche se questo, bada, non vuol dire che le mie idee politiche siano ambigue. Non lo sono affatto.
Il punto dell’opacità è fondamentale, certo, e pure quello dell’apparente ambiguità. Concentriamoci, a proposito, sul primo dei tre racconti lunghi, o romanzi brevi, che compongono Certe sere Pablo – tre novelle tecnicamente diverse, tutt’e tre notevolissime: ma confesso una predilezione sentimentale proprio per la prima, Portolano degli anni bisestili, che (in una seconda persona «autorivolta»: il protagonista, situato in un tempo narrativo indefinito ma posteriore alle vicende, sì dà il tu) racconta l’infanzia, e poi l’adolescenza e la gioventù fortemente militanti del protagonista, piccolo borghese romano cresciuto nelle buone scuole pubbliche degli anni Ottanta – anni già di riflusso politico. Mi piacerebbe che mi parlassi del narratore del Portolano, ovvero il protagonista indefinitamente cresciuto, o forse già senescente, che racconta a sé stesso, fino al climax delle già ricordate ed effimere vittorie del ’93, con un’ultima scena indimenticabile.
Portolano degli anni bisestili non è un memoir né un’autofiction. Ma ho voluto che il protagonista condividesse con me alcune «coordinate generali»: la nascita a Roma nel 1972, gli studi al liceo Tasso, l’iscrizione al Pci il giorno del diciottesimo compleanno (quando il partito si stava ormai sciogliendo nella «Cosa» di Achille Occhetto)… Qualche aneddoto è rubato alla mia infanzia e giovinezza, non lo nascondo, ma altrettanti vengono da racconti orali di amici e conoscenti. E tantissimo è inventato a partire da una conoscenza approfondita del contesto e del momento storico. Poiché la formula è già stata usata, non posso definire il racconto «un’autobiografia, ma non la mia», come fece Italo Svevo per il suo Zeno. Diciamo allora, piuttosto, «un’autobiografia, ma la nostra»: l’autobiografia possibile di un’intera generazione.
È un testo diverso da quelli che scrivo in genere perché piuttosto che costruire un filo narrativo forte, che disegni un arco compiuto, la storia prende forma per somma di frammenti staccati. Mentre ci lavoravo avevo un’immagine davanti agli occhi: i vecchi disegni della Settimana Enigmistica dove, unendo dei puntini numerati, emerge progressivamente una figura. Se vuoi, il tu «autorivolto» a cui fai riferimento funziona un poco in questo modo. Il vuoto più grande, come suggerisci tu, è alla fine. Noi sappiamo come proseguirà la storia. Ma per il protagonista la sera delle elezioni comunali del 1993 è l’annuncio del trionfo atteso ormai per la successiva primavera. In tanti lo pensavamo quel giorno. E un finale del genere mi piaceva perché la tradizione del romanzo socialista ha sempre – giustamente – nutrito parecchi sospetti verso il lieto fine. Per evitare una conclusione troppo rotonda, chiaramente insoddisfacente dal punto di vista letterario, si è imposta quasi sempre la tesi di Bertolt Brecht: raccontare l’ultima sconfitta prima della (inevitabile) vittoria. In qualche modo qui invece i termini sono invertiti. La vittoria non durerà. Ma proprio questo consente di evitare il didascalismo del teorema, perché, in realtà, di lieto in questo finale non c’è proprio un bel niente. È come un bel paesaggio: lo guardi rapito, ma poi ti sporgi un altro passo per prendere una foto e cadi nel burrone.
Nel secondo ed eponimo racconto, quasi un romanzo per lunghezza e struttura, la figura di Pablo incarna nella maniera più alta, quasi virtuosistica, l’ambiguità – in senso positivo, sempre – della tua trasfigurazione letteraria: stavolta, la Storia è quella del Sessantotto romano e internazionale. Pablo è un «mito d’oggi», che fa il Sessantotto in sinolo con la co-dèa Clara, più giovane di qualche anno, ricca adolescente adorata dal narratore e sua futura, «temporanea», sposa. Non diciamo altro, ma le tre figure del Sessantotto che Certe sere Pablo offre sono: un mitomane narcisista, un’altoborghese nevrotica, un narratore che ben presto si venderà al Sistema. Eppure… anche qui, anzi qui più ancora, la luce calda del punto di vista redime le meschine traiettorie degli individui entro il racconto tragico dello smarrimento di un sogno. L’unico vero sogno, appunto, è collettivo. Gli individui, come tali, sono incapaci di verità politica; l’individuo è la dimensione etica fondamentale, se non l’unica, della fine della Storia e della morte del futuro.
Al livello più elementare Certe sere Pablo mette in scena un classico triangolo. Due uomini amano la stessa donna. Non è però questo l’unico elemento che i due vertici maschili della figura geometrica condividono. Si tratta infatti di due giovani di estrazione popolare approdati allo stesso mondo borghese dei licei classici del centro e di un’università non ancora davvero di massa. Entrambi attraversano con entusiasmo la grande stagione delle lotte studentesche. E Clara, dal suo iperuranio, finirà per amarli, o credere di amarli, tutti e due. Qui però finiscono anche le analogie.
Pablo è sicuramente un imbroglione: una versione impazzita del grande «L’immaginazione al potere» che si legge alle sue spalle in un’assemblea studentesca della Sapienza particolarmente appassionata. Forse, nel mondo reale, sarebbe saggio non affidare a uno come lui neanche l’amministrazione di un condominio. E tuttavia rimane il fatto che, di tutti i personaggi della storia, il più inaffidabile è anche l’unico ad avere una statura davvero eccezionale, anzitutto negli occhi di quanti seduce con il suo sorriso ironico: amici, compagni di classe, genitori, militanti politici come lui… Pablo occupa la scena come nessun altro: svetta in un panorama di figure scialbe, a cominciare proprio dalla voce narrante. Come dicono gli americani, Pablo è larger than life. E per questo, dove tutti tradiscono, invecchiano e poi scompaiono senza lasciar traccia, a lui soltanto spetta una fine un poco eccezionale, al confine con la leggenda.
Aggiungerei una cosa. Il secondo racconto si conclude con un’immagine un poco enigmatica: le prove grafiche per il logo della casa editrice che Pablo ha cercato di fondare . È un foglio volante, che viene nominato nel lungo monologo del narratore e che, dopo essere passato di mano in mano, riemerge dal passato solo a storia conclusa, ma che, se non lo si liquida come una bizzarria, aggiunge alla vicenda un tassello non trascurabile. La casa editrice (specializzata in fantascienza, ecologia e filosofia) si dovrebbe chiamare Laika, e nel suo simbolo si riconoscono una cagnetta, una falce e martello, una stella… L’impostore è insomma l’unico che, nei tetri decenni del riflusso, quando gli altri tradiscono, è rimasto fedele al suo sogno più vero.
Torniamo per un attimo alla questione generale del romanzo politico. Il mezzo della narrativa politica – realistica o allegorica –, e in generale il rapporto tra letteratura e politica, si legge a fatica senza menzionarne i fini – che non sono, appunto, di tipo autoconclusivo ma esterni al fatto estetico: in primo luogo, la persuasione.
Ci può essere letteratura politica che non si propone come obiettivo la persuasione, ma (solo) la comprensione. Chi insiste sul momento didattico in genere muove da una scissione tra sapere e comunicare: grosso modo la distinzione tradizionale tra filosofia e retorica che troviamo già in Aristotele. C’è una lettura del mondo, e c’è un secondo momento in cui, per raggiungere una comunità più ampia, questa lettura viene «volgarizzata» e proposta in forme più comunicative. La letteratura politica, in questa prospettiva, servirebbe a popolarizzare un pensiero (filosofico, sociologico, economico…) troppo complesso per farsi strada da solo nel mondo oltre la comunità dei colti. Sarebbe insomma il secondo momento di un processo a due stadi.
C’è però un altro modo di guardare alla letteratura politica: non come strumento di comunicazione, ma come strumento di interpretazione tout court, al pari delle scienze umane. Ci sono verità che noi possiamo cogliere unicamente attraverso la scrittura e attraverso la finzione, perché sono solo in parte traducibili in un linguaggio astratto. E conoscere queste verità letterarie può essere altrettanto essenziale per quanti si battono contro il presente stato di cose. Di fronte al napalm ideologico che telegiornali di regime e troll dell’infosfera ci fanno piovere addosso quotidianamente, ho scarsa fiducia nell’odierna capacità di mobilitazione della letteratura politica; credo però che la letteratura politica possa aumentare il livello di consapevolezza di coloro che già dubitano della vulgata ufficiale, e sono in cerca di risposte alternative. Magari anche per riallacciare quel rapporto tra le generazioni che è stato sempre essenziale nella tradizione socialista.
Oggi i destinatari immediati sono pochi, anche perché in gran parte la sinistra intellettuale è interamente prigioniera dei «libri inutili e cattivi» di cui parlava Franco Fortini. Nel fronte cosiddetto progressista ha vinto da tempo un umanitarismo sentimentale, facile alle lacrime e alla consolazione: il padrino letterario della nuova sinistra ufficiale post-1989 è Eugene Sue – e sappiamo che cosa Marx ed Engels pensassero del suo melenso socialismo piagnucoloso, nonostante la sua inequivocabile presa sulle masse dei lettori intossicati di luoghi comuni romantici…
Se nella sfera pubblica serve una sinistra diversa, che rompa senza equivoci i ponti con il liberismo compassionevole (quello delle elemosine per chi è rimasto indietro), sul piano culturale c’è bisogno di un ripensamento altrettanto netto. Dopo la clamorosa sconfitta degli ultimi decenni, questo ripensamento non può però che ripartire da un esercizio di memoria. Ci siamo smarriti, e adesso si tratta di fare il punto nautico. Per questo Certe sere Pablo è anzitutto un appello contro la rimozione. E l’esergo del libro, da un volume sulla rivoluzione del giugno 1848 di uno dei socialisti francesi che lavorarono alla riorganizzazione della «stirpe di Caino» dopo il bagno di sangue della Comune di Parigi, suona assai esplicito in proposito: «Ah, sappiatelo, noi siamo di quelli che ricordano».
*Vincenzo Ostuni è stato redattore di minimum fax, poi editor di saggistica e in seguito direttore editoriale di Fazi, dal 2008 lavora alla narrativa e alla saggistica di Ponte alle Grazie di cui è, dal 2020, co-responsabile editoriale. Gabriele Pedullà è professore di letteratura italiana presso l’Università di Roma Tre, dove insegna anche letteratura italiana contemporanea e letterature comparate.
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