
La difficile arte del cinema in Iran
Per fare un film in Iran bisogna combattere al tempo stesso con la repressione dello stato e con le sanzioni statunitensi
La censura di Stato da un lato, le sanzioni statunitensi dall’altro: non c’è in Iran oggi qualcuno che non sia toccato direttamente da entrambe. Mentre la nostra stampa sembra incapace di parlarne (forse anche a causa dei solidi rapporti commerciali che l’Italia ha instaurato) proviamo a compiere un viaggio nella vita quotidiana di uno o una professionista che viva in Iran, dove, proprio come avverrà negli Stati Uniti, si sono tenute da qualche giorno le elezioni legislative (21 febbraio Iran, 3 novembre Usa). In particolare guardiamo a chi lavora nel cinema. Sarà un viaggio rivelatore, di interesse anche per chi non ama particolarmente l’arte, perché non sono solamente le persone comuni a essere arrestate, incarcerate e oggetto di violenza (a seguito delle proteste civili scoppiate in varie città ne sono morte circa 1500 e almeno 12 mila sono state arrestate nel 2019, dopo l’uccisione di Soleimani e dopo l’abbattimento dell’aereo ucraino), ma anche gli artisti che si rifiutano di essere utilizzati come megafono della propaganda.
L’occasione è offerta dalla chiusura del Fajr, il festival di cinema più conosciuto. Introdotto nel 1982 e supervisionato – per così dire – dal regime, si tiene ogni anno in febbraio per celebrare l’anniversario della cosiddetta Rivoluzione Islamica, che nel 1979 trasformò la monarchia in una repubblica sciita. Quest’anno, in solidarietà con le vittime della violenza di Stato, il Fajr è stato apertamente boicottato da molti. «Non siamo cittadini, siamo ostaggi», ha sintetizzato l’attrice Pegah Ahangarani su Instagram. Una scelta che segue una lettera aperta in cui più di 200 personalità del cinema riferiscono le condizioni in cui sono costrette a lavorare, e non è stata certo la prima volta. La lettera, firmata tra gli altri da Jafar Panahi, Nasser Taghvai, Mohammad Rasoulof, Rakhshan Banietemad, Bahram Beyzai, Asghar Farhadi e dagli attori Niki Karimi e Hamid Farrokhnejad, denuncia anche il danno causato dalla pirateria, che spesso è l’unico modo che ha il pubblico per accedere alle loro opere, non volendovi rinunciare. Le politiche culturali, scrivono,
«costringono i cineasti a fare cambiamenti nella forma e nel contenuto del loro lavoro. Per mesi e anni, i film sono bloccati da sospensioni e censure, causando la perdita di capitale intellettuale e materiale per periodi indefiniti. Alcuni film sono vietati nonostante abbiano permessi di produzione e proiezione. Il controllo dei contenuti è così diffuso che gli investitori non si sentono abbastanza sicuri per sostenere progetti nell’industria cinematografica. Non abbiamo nemmeno il controllo sulla distribuzione dei nostri film. La maggior parte delle sale cinematografiche sono di proprietà di alcune organizzazioni statali che prendono decisioni arbitrarie e senza scrupoli in merito alla proiezione di film […] Il governo, le organizzazioni cinematografiche che operano sotto il Ministero della cultura e della guida islamica e altre istituzioni statali destinano la maggior parte delle loro risorse finanziarie a film di bassa qualità o propaganda […] Esprimiamo il nostro disgusto per tutte le politiche che interferiscono nella forma e nel contenuto del nostro lavoro e richiedono libertà di espressione e di pensiero».
L’artista Maryam Pezeshki, che ora vive in Italia, ha frequentato a lungo il Fajr:
In passato, prima che mi trasferissi qui quindici anni fa, era tutta un’altra cosa. Non vedevamo l’ora che fosse venerdì per andarci. Ma oggi rinuncerei, perché la censura non è mai stata così pesante e una programmazione così condizionata non sarebbe più di mio interesse. Ora la cosa migliore è non partecipare. Chi ci va lo fa perché ha un film in uscita e non vede altra scelta per la propria carriera. Quando sentiamo artisti come l’attrice Taraneh Alidoosti esprimere la propria contrarietà dobbiamo tenere presente che poi sono i produttori a decidere se in definitiva ci andranno, e spesso gli attori ricevono ricatti (se non ti esibisci, non ti pago). I miei amici mi riferiscono che il governo invia sms con l’invito a partecipare e ai dipendenti è consentito portare degli ospiti pur di riempire le sale.
Lo scorso dicembre, quando ormai l’elenco dei protagonisti del Fajr 2020 era pubblico, i registi teatrali italiani Eugenio Barba e Romeo Castellucci hanno ricevuto da alcuni colleghi iraniani la richiesta di rifiutare, anche se il loro nome appariva già nella programmazione. Nel testo diffuso, di cui la stampa (per lo meno quella in lingua inglese) non riferisce i firmatari, si dava conto degli omicidi di Stato, degli arresti e delle sparizioni degli ultimi giorni e si spiegava che «in questa situazione terrificante organizzare un festival di cinema e teatro e invitare artisti occidentali serve solo da velo per coprire i massacri. Il Fajr Theatre and Film Festival non ha alcun legame con il popolo iraniano ed è uno dei festeggiamenti per ingannare gli occidentali. La vostra partecipazione significherebbe la vostra collaborazione con il regime della Repubblica Islamica nel rendere quest’illusione una realtà. Il denaro che con cui siete pagati viene sottratto ai bambini affamati di questa terra» [Nel 2019, a peggiorare le cose, ci sono state tremende alluvioni che hanno causato ulteriori condizioni di povertà assoluta]
Barba quindi (come pure Castellucci, rimasto silente) non può dire di non sapere, perché l’appello ricevuto è più chiaro di tutto quello che può aver letto in merito. Dovrebbe allora spiegare perché per rispondere ha atteso fino a quando con l’uccisione di Solemaini e poi con l’abbattimento dell’aereo ucraino la situazione è precipitata e si è temuto un conflitto internazionale. A gennaio, infatti, Barba ha scritto a Mehrdad Rayani-Makhsous, responsabile delle relazioni internazionali del Centro di Arti Drammatiche di Teheran chiedendogli di annullare il festival teatrale per rispetto dei 176 caduti dell’aereo ucraino, senza minimamente accennare ai 1.500 fatti fuori nelle proteste, come fossero più accettabili. Viene da chiedersi: per Barba le vite degli iraniani valgono forse meno di quelle degli occidentali?
Nel 2018, inoltre, il Fajr aveva celebrato il cinema italiano proiettando film di Jonas Carpignano, Andrea Segre, Valentina Pedicini, Paola Randi, Giordano Giulivi, Vincenzo Marra, Ficarra e Picone e ospitando il concerto del premio Oscar Nicola Piovani. Secondo Barba, probabilmente, la loro adesione non è problematica perché il regime due anni fa non aveva ancora abbattuto un aereo pieno di turisti.
Ma proviamo ad allargare lo sguardo, facendo un ragionamento a partire dai film iraniani più visti nell’ultimo decennio in tutto il mondo. Nel 2019 si è trattato di un cartone animato presentato al Fajr, The Elephant King. Tutti gli altri invece, andando a ritroso fino al 2010, sono diretti da registi ormai a questo sgraditi, e di contro acclamati ai festival internazionali. Tre volti, Taxi Teheran e Closed Curtain sono di Jafar Panahi, cui dal 2010 è formalmente vietato dirigere film, rilasciare interviste a media stranieri, nonché lasciare il Paese per vent’anni; tutto questo per aver partecipato a manifestazioni contro il regime. A man of integrity è di Mohammad Rasoulof, più volte censurato, condannato lo scorso luglio a un anno di carcere per aver trattato questioni sociali criticando lo Stato, probabilmente non otterrà il visto per partecipare con il nuovo film al prossimo Festival di Berlino. Il cliente, Il Passato, About Elly e Una separazione sono tutti di Asghar Farhadi, che non ha potuto ritirare l’Oscar per Il cliente a causa del Travel Ban di Trump. I gatti persiani è di Bahman Ghobadi, che vive all’estero, costretto dall’intelligence. Altri autori di grande successo internazionale hanno storie simili di autorialità contrastata o diasporica: Abbas Kiarostami, morto tre anni fa, è stato spesso censurato in patria. Amir Naderi, che ha girato Monte in Alto Adige, vive negli Stati Uniti dagli anni Ottanta. La celebre famiglia Makhmalbaf si è stabilita a Londra: Mohsen è stato prigioniero politico negli anni Settanta e lo sarebbe di nuovo se tornasse in patria, perciò vive da esiliato, mentre alle figlie Samira e Hana e alla moglie Marzieh Meshkini, tutte registe e rifugiate politiche, di recente è capitato di non poterlo raggiungere sul set perché il governo inglese non ha concesso i passaporti. Tutti loro hanno un riscontro internazionale, che il cinema iraniano ottiene ovunque a partire dagli anni Sessanta: la prima è stata la poetessa Forugh Farrokhzâd (pubblicata in italiano da Riccardo Condò editore) che vince il festival di Oberhausen del 1963 (morirà solo quattro anni dopo) con La casa è nera. E poi Dariyush Mehrjui, Kiarostami, Makhmalbâf, Panahi, premiati ai festival europei (Venezia, Locarno, Cannes, Berlino, ma anche Pesaro ha un ruolo importante). Ma dopo la cosiddetta Rivoluzione l’ayatollah Khomeini dichiara che il cinema corrompe i giovani e nella sua era fa distruggere più di 2.000 film che non passano il visto censura, oltre a 180 sale cinematografiche. Ad attori e registi attivi nell’epoca dello Scià viene ostacolata la professione, mentre si facilita chi non si esprime in termini politici e chi si autocensura.
Diventa perciò necessario utilizzare degli stratagemmi per far arrivare i propri messaggi: uno piuttosto comune è quello di impiegare attori bambini che dicano o facciano quello che agli adulti sarebbe proibito, mentre ancora oggi in Iran vengono violentate opere che mostrino anche solo la scollatura di una donna (al posto della quale vedremo ad esempio una bottiglia o una caraffa che non c’era, oppure sarà molto sfocata). Violenza, erotismo e scene di nudo sono vietate anche al mercato più importante del paese, come fossero tutte la stessa cosa. Lo spiega il direttore del Fajr, il regista Reza Mirkarimi, che in un’intervista sull’edizione 2017 tenta di giustificarsi dimostrando di avere un concetto di libertà un po’ particolare:
Questi regolamenti sono applicati più rigorosamente in Tv e nei cinema regolari, ma al festival abbiamo un po’ più di libertà. Se vogliamo mostrare un film che contiene questo tipo di contenuti, entriamo in contatto con i registi per chiedere loro il permesso di tagliare o sfocare le scene problematiche. A volte è stato molto difficile trovare un accordo con i registi, ma quest’anno, su quasi 110 film provenienti dall’estero, abbiamo tagliato in media solo 15 secondi.
Un Comitato supervisionato dal Ministero della cultura è l’interlocutore di chiunque voglia realizzare un film. Innanzitutto c’è un esame della sceneggiatura, perché se questa appare al Comitato palesemente critica nei confronti del regime o della società, non diventerà mai un film iraniano (anche i film hanno una nazionalità, e questo ha delle conseguenze). Se invece una critica c’è ma non viene apertamente esplicitata nel soggetto, il film può nascere ma essere ostacolato in seguito tramite una volutamente scarsa distribuzione. A quel punto regista e produzione devono trovare in fretta e furia – perché il mercato non aspetta – il modo di farsi conoscere all’estero, cercando di partecipare ai festival e ai mercati dell’anno in corso. Probabilmente non otterranno il visto per andarci, quindi manderanno solo l’opera, rinunciando alle occasioni di networking, fondamentali per far veramente parte della comunità del cinema internazionale (il famoso «da cosa nasce cosa»).
Capita anche che i festival ricevano pressioni per non presentare un determinato film: è successo persino a un film di animazione, Persepolis di Marjane Satrapi, candidato all’Oscar nel 2007 (La protagonista, Satrapi stessa, è fin da bambina legata a uno zio comunista, e crescendo si sente sempre più distante dalla classe politica del suo paese, che lascerà, prima per studiare a Vienna e poi per stabilirsi a Parigi). Ma la censura colpisce in particolare il cinema indipendente. Chi ha già ottenuto un riscontro internazionale può contare infatti su una rete di relazioni che aiutano la circolazione della propria arte, mentre chi non ce l’ha si scontra con altre difficoltà.
Fatto salvo quanto detto finora, sono soprattutto le sanzioni statunitensi a impattare sull’industria del cinema, in particolare ostacolando la vendita: «è un disastro per il cinema indipendente», ha spiegato l’agente di vendita e produttore Katayoon Shahabi, che vive a Parigi. «L’inflazione causa la riduzione dei budget e le fonti di finanziamento» ed «è praticamente impossibile vendere in qualsiasi paese, non solo negli Stati Uniti», dice, perché le aziende con sede in Iran «non possono ricevere denaro». Fa l’esempio del film di Behnam Behzadi che ha recentemente prodotto, I’m Scared: «il costo per la crew e gli alloggi è quasi raddoppiato». Così «il budget è passato da circa 550 mila a 780 mila dollari. Se Behzadi avesse iniziato la produzione adesso, non sarebbe stato in grado di completarla, spiega. Per quanto riguarda i distributori statunitensi, «le aziende che lavorano con gli iraniani sono penalizzate, quindi non vogliono correre rischi». Ed «è praticamente impossibile per i registi iraniani partecipare a festival cinematografici, premi o eventi promozionali statunitensi». Variety ha intervistato anche il distributore Mohammad Attebai, consulente di festival internazionali, che dice: «Chiunque in questo settore deve avere un conto bancario o una società al di fuori dell’Iran. Altrimenti non puoi vendere film o nemmeno pagare le spese quando vai ai mercati». Attebai distribuisce Sei milioni e mezzo di Saeed Roustay, un film molto politico e uno dei più grandi incassi di tutti i tempi in patria. Riferisce che le sanzioni hanno provocato «un calo del 31% della produzione cinematografica», con la conseguenza che i finanziamenti, sia pubblici che privati sono diminuiti. Questo condiziona anche la possibilità di essere selezionati ai festival, perché si preferisce invitare chi sarà sicuramente presente.
Non succede solo a registi e registe, ma anche ad attori e attrici: l’ha spiegato in tempi recenti Golshifteh Farahani, rea di aver interpretato film statunitensi per Ridley Scott e Jim Jarmusch:
«Non ho scelto io di andarmene dall’Iran. Sono un’attrice e non faccio politica, ma il mio è diventato involontariamente un caso politico. Ho girato un film statunitense, e al governo non è piaciuto: questo è tutto». La scelta è quindi tra recitare in film che stanno bene al regime e non uscire dall’Iran, o fare un cinema più libero all’estero. Anche l’esercizio (ossia la gestione delle sale cinematografiche) ha le proprie difficoltà: chi gestisce una sala può proiettare solo i film consentiti. Ecco perché, di nuovo, molti cineasti vivono tutta o una parte della propria vita all’estero, risultando ancora più sgraditi.
Le sanzioni statunitensi sono un problema soprattutto per chi non è ancora noto a livello internazionale. Essere costretto nel proprio paese, magari con Internet bloccato per quasi una settimana (come è successo lo scorso novembre nel tentativo di silenziare il dissenso) significa non poter lavorare, o comunque non nelle stesse condizioni della concorrenza. Insomma, non è solo l’Iran a ostacolare gli artisti, ma anche gli Stati Uniti a farlo, e a pagare le conseguenze delle scelte di chi governa come sempre è la gente comune, pubblico compreso. Ma i cineasti lavorano comunque, perché come spiega Babak Karimi – attore, montatore, consulente, doppiatore, traduttore, figura fondamentale nei rapporti tra i più grandi artisti iraniani e italiani – «siamo così abituati a vivere nell’instabilità e nell’incertezza».
C’è chi pensa a soluzioni alternative, come Hossein Rajabian, che nel 2016 è stato incarcerato assieme al fratello musicista. Recentemente ha scritto su Instagram che pubblicherà il suo nuovo film su internet «per dare speranza ed empatia ai miei compatrioti in queste circostanze storiche, come un passo verso la realizzazione di un’arte senza censura». Chi si rifugia all’estero, non incontra meno ostacoli: abbiamo accennato alla famiglia Makmalbaf, e un altro esempio è quello dei coniugi Mohebi, loro amici, che vivono in Trentino. Soheila Javaheri e il marito Razi Mohebi, si sono conosciuti a Teheran a una conferenza cui partecipavano molti attivisti come loro. Dopo la caduta del regime talebano nel 2001 si sono trasferiti in Afghanistan, paese natale di Razi, dove lui è stato perseguitato fin da bambino in quanto di etnia hazara. Da quando sono in Italia non hanno un titolo di viaggio. Non possono quindi fare quegli incontri indispensabili per lavorare e far circolare la propria arte. La rete di relazioni che pure hanno sviluppato in passato non può ora essere sfruttata. Entrambi hanno vinto un premio Mutti, l’unico finanziamento possibile per i film di registi che risiedono in Italia ma non hanno la cittadinanza, ottenendo così un contributo alle spese. Una parte del film di Javaheri doveva essere girata in Iran, ma quando sono partiti sono stati seguiti e derubati prima ancora di arrivare a Malpensa dei documenti e delle attrezzature. Il loro film Una casa sulle nuvole ha avuto così uno sviluppo imprevisto: non è nato monco, ma erede di questa vicenda. Ma essendo sgraditi in Iran e non essendo italiani (anche i film hanno una nazionalità che ne condiziona la sorte) partono indubbiamente svantaggiati.In definitiva, ha fatto bene Eugenio Barba a dire al collega Rayani-Makhsous cosa fare, ignorando – colpevolmente o appositamente – che il regime perseguita, censura, tortura, stupra, incarcera tante altre persone in Iran da un sacco di tempo? Quando la libertà di espressione di tutti è sotto attacco ogni giorno? Si tratta sì del festival del regime, ma come dice Claudio Zito, ideatore del blog Cinema iraniano: «Secondo molti chi non si schiera in toto è sponsorizzato dal governo, mentre, per chi sta coi pasdaran, ogni regista dissidente è pagato dagli Stati Uniti e da Israele. Di solito la realtà è molto più sfumata. Sì, perché in mezzo c’è la libertà di espressione e movimento di ottanta milioni persone.
*Chjara Zanini è operatrice culturale e critica cinematografica. Scrive per Il Giornale dello Spettacolo, Sentieri Selvaggi e altre testate. Collabora con alcuni festival e sta lavorando ad una monografia dedicata alla regista francese Céline Sciamma.
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