La fine di una nuova era
La corsa allo spazio non è mai stata una competizione per la conquista della Luna. Cinquant'anni fa vinse il mercato, oggi dobbiamo difendere lo spazio dall’espansione del capitale, rivendicando la Luna come bene collettivo
Uno dei primi segni tangibili di un mutamento dello sguardo, e quindi del gusto, si materializzò nel reparto giocattoli dei grandi magazzini di New York. Come riportava la rivista Epoca, all’improvviso, migliaia di articoli a tema cowboy rimasero invenduti. Alle pile di costumi di cuoio sfrangiati, muniti di colt single a sei colpi o di carabine Winchester 77, si contrapponeva il vuoto degli scaffali della sezione dedicata agli space toys. Gli scafandri gommati da «uomo siderale» dotati di calotte plastiche con cassettine di alluminio in cui posizionare una radiolina e pistole futuristiche luminescenti, i cui raggi mortali risultavano essere l’unica arma in grado di sconfiggere gli invasori alieni, andavano infatti a ruba. Vista la fragilità del fronte celeste, apparve normale dislocare i giovani ranger via dal confine occidentale, per schierarli a difesa della linea di Kármán – la linea immaginaria che segna convenzionalmente il confine tra atmosfera terrestre e spazio esterno. Le nuove frontiere verticali, infatti, si erano rivelate degli stargate per nuove specie, nuovi mondi, nuovi nemici, vessate continuamente dai tentativi di colonizzazione di forze extra-terrestri.
Siamo nel 1953, quattro anni prima dell’inizio ufficiale dell’era spaziale, ma gli Stati Uniti erano affetti da tempo dalla febbre dello spazio. La fantascienza aveva avuto un ruolo decisivo nel cambiamento scenografico accorso nelle fantasie infantili (e non). Un’intera generazione si era nutrita di riviste, libri, fumetti – a cui, a partire dagli anni Cinquanta, si affiancò una mole impressionante di film e serie. Solo quell’anno escono grandi classici del genere come La Guerra dei mondi, Destinazione Terra! e Gli invasori spaziali. Agli effetti speciali di queste pellicole iniziano a lavorare space artist come Chesley Bonestell che aveva esordito come illustratore su magazine popolari come Collier’s, Life o su testi di divulgazione scientifica come La conquista dello spazio (1950), realizzato in collaborazione con lo scienziato Willy Ley. Quest’ultimo aveva fondato con Herman Oberth la Verein für Raumschiffahrt (Society for Space Travel) grazie alla quale si era diffuso l’interesse per la missilistica nella Germania dell’anteguerra. Le immagini iper-realistiche di paesaggi extraterrestri dipinti da Bonestell – in particolare le vertiginose prospettive di Saturno – portati con sempre maggiore precisione sullo schermo cinematografico, insieme ai contemporanei progressi tecnologici, rendevano i viaggi interplanetari sempre più plausibili.
Nel marzo del 1950, lo stesso anno in cui uscì il famoso servizio di Donald Keyhoe I dischi volanti sono reali su True, l’Hayden Planetarium di New York istituì l’Ufficio Viaggi Spaziali. Dotato persino del tabellone degli arrivi e delle partenze, su cui venivano segnalati anche gli eventuali ritardi, l’Ufficio aveva prodotto un modulo di prenotazione per l’Interplanetary Tour su cui si leggeva: «voi siete tra i primi a chiedere una prenotazione per un viaggio spaziale. Il vostro nome sarà conservato negli archivi del Planetario Hayden. Rispondete alle domande qui sotto e spedite questo biglietto all’Ufficio Prenotazioni per i Viaggi Spaziali». Nel 1953, il numero di lettere e di prenotazioni pervenute al planetario ammontava a 25.237. La maggior parte dei biglietti era stato acquistato da persone provenienti dalla provincia americana, spingendo il direttore Frank Forrester a non rivelarne i nomi. Ha infatti già passato dei guai perché
«purtroppo è ancora radicata la convinzione che chi si prenota per un viaggio spaziale sia o un esaltato o uno spostato. Le lettere che abbiamo ricevuto provano esattamente il contrario. […] Molti di costoro vivono in cittadine di provincia dove il fatto di prenotarsi per andare sulla Luna può essere oggetto di scherno o peggio».
A parte gli statunitensi, i primi aspiranti turisti spaziali provengono per lo più dalla Svezia e dai paesi nordici. Una dozzina sono invece le prenotazioni italiane, tra le quali quelle di due giovani fiorentini che si offrono volontari per «qualsiasi volo di prova o d’inaugurazione». Viene rivelato un solo nome, quello di uno dei pochi giornalisti che hanno fatto richiesta per un biglietto con destinazione Luna. È un radiocronista della Rai di New York che, secondo Forrester, sarà il primo a trasmettere una cronaca radiofonica o televisiva dagli abissi dello spazio in inglese e in italiano, visto che conosce entrambe le lingue. Si tratta di Mike Bongiorno. A essere onesti, un altro giornalista italiano andò in incognito al planetario, per provare una simulazione del viaggio lunare che veniva fatta su una piccola nave-razzo lì installata – una versione in scala dei modelli di von Braun, il geniale ingegnere che, dopo aver provato a risollevare le sorti dei nazisti coi razzi V2, disegnava ora i propulsori per la Nasa. Il giornalista era Indro Montanelli, che sosteneva di essersi accorto subito di trovarsi immerso in una folla di provinciali, entro la quale non può fare a meno di notare un ingegnere bardato da esploratore africano con tanto di binocolo.
Le motivazioni dichiarate al momento della prenotazione sono le più varie – dal missionario cattolico intenzionato a installare un servizio di aerobotti per poter battezzare i neonati sul satellite, al tedesco che con precoce spirito imprenditoriale intende costruire un esclusivo hotel, fino al commerciante di pellicce, che richiede la licenza per installare trappole per animali sulla Luna. Buontemponi, li definisce il direttore; chissà cosa avrebbe pensato sapendo che, a mezzo secolo di distanza dall’allunaggio, ci ritroviamo con una Tesla Roadster rossa diretta verso Marte.
Ma erano altri tempi – Elon Musk doveva ancora nascere, e lo spazio era perlopiù roba sovietica. Più ancora dello Sputnik, è sempre l’immaginario a rivelarcelo. È di nuovo Epoca a permetterci, questa volta, di rivivere l’atmosfera euforica che si respirava a Mosca nel novembre 1957.
«Il clown Karandasc entra in pista con in mano un palloncino. Lo guarda meravigliato e trionfante e lo lascia andare soffiandovi sopra. Il palloncino sale un po’ e poi scoppia non facendo neppure rumore. “Che cos’è?” chiede il compare. “Lo Sputnik, naturalmente”. “Lo Sputnik?” “Non lo vedi imbecille? È lo Sputnik americano!”. La scenetta fa sbellicare dalle risa il pubblico […].»
Sarebbe una storia divertente, se il Vanguard, la risposta americana agli Sputnik I e II, non esplodesse di lì a un mese, in diretta televisiva, senza praticamente sollevarsi dalla rampa di lancio. Dalla battuta/previsione traspare tutto l’orgoglio sovietico, per una prima vittoria tutt’altro che scontata. A riferire l’aneddoto è il giornalista francese Raymond Cartier, a Mosca per raccontare le celebrazioni del quarantesimo anniversario della rivoluzione. Oltre alla sfilata di missili balistici sulla Piazza Rossa, a sorpresa, Chruščëv fa trasmettere dagli altoparlanti di tutte le città sovietiche un nastro registrato con un discorso di Lenin, frapposto al caratteristico bip bip dello Sputnik. Nel frattempo gli Stati Uniti non si capacitano di come abbia fatto l’Unione Sovietica a raggiungere tale livello tecnologico. Eisenhower è costretto ad apparire in televisione per rassicurare gli americani, mostrando un’ogiva di un razzo tornata intatta da un volo, prova che la tecnologia statunitense aveva risolto uno dei principali problemi della missilistica, e a prendere drastici provvedimenti – tra cui la nomina di un nuovo responsabile per la difesa, e il coinvolgimento di von Braun (fino a quel momento, con all’attivo più collaborazioni con la Disney che con l’esercito). Tuttavia, la sensazione di una prossima invasione da parte dei russi non si placava. Mentre l’Urss celebra la rivoluzione, negli Usa si registra un incremento degli avvistamenti Ufo e di conseguenti rapimenti, la gente inizia a temere che sopra le loro teste ci sia una minaccia invisibile ma reale.
Fino alla metà degli anni Sessanta gli americani non faranno altro che inseguire i sovietici i quali infileranno un primato dietro l’altro. Sarà solo con la nascita della Nasa, l’incremento dei finanziamenti della presidenza Kennedy e, soprattutto, con la morte dell’ingegnere capo sovietico Korolev che gli Stati Uniti inizieranno la loro ascesa.
«Gli dirà: tovarisc
Sono venuto sulla tua stella
Non per stabilire una base
Né per acquistare una concessione di petrolio
Non ho intenzione di vendere Coca Cola
Sono venuto a salutarti in nome
delle speranze della Terra
in nome del pane gratuito
E dei garofani gratuiti…»
Così il poeta Nazim Hikmet omaggerà Gagarin – un omaggio pubblicato su l’Unità il 14 aprile del 1961 – due giorni dopo il volo che aveva trasformato il cosmonauta russo nel primo uomo nello spazio. La poesia di Hikmet è un manifesto di quella che, almeno idealmente, si immaginava fosse la differenza di finalità e approcci tra le due nazioni. Ma è effettivamente nel 1965 che avviene una svolta nell’atteggiamento Usa nei confronti della conquista dello spazio, come nota sempre Cartier: il superamento dell’interesse all’accrescimento degli armamenti atomici, coincide infatti con la comprensione delle potenzialità economiche di un’industria come quella spaziale. Solo la Nasa dà ora lavoro a 5.000 imprese e a 33.000 persone. Il giornalista francese sbaglia però nel credere che quello non sia uno scontro tra «sistema capitalistico e sistema collettivizzante»; o meglio, è convinto che la vicenda si concluda con un pareggio, che infine entrambi i sistemi colonizzeranno insieme il satellite e saranno in grado di convivere. Lo pensa perché è il 1965 e ha da poco assistito alla prima passeggiata nello spazio di un altro cosmonauta, Aleksei Leonov. Sembra impossibile che i sovietici cedano il passo di botto, dedicandosi alla costruzione di una stazione spaziale. «Abbiamo la Luna in tasca», aveva d’altronde detto Titov, il secondo uomo ad andare nello spazio dopo Gagarin. Ma soprattutto sembra impensabile la disgregazione dell’Unione Sovietica. Questa volta possiamo leggerlo direttamente dai protagonisti, nei messaggi che affidarono a delle «capsule del tempo» dieci anni dopo lo show di Karandasc, aperti con tutt’altro spirito durante il centenario appena trascorso. Il Comitato del Partito di Novosibirsk, per esempio, manifestava l’invidia per i «tempi molto più interessanti» che avrebbero vissuto i compagni del futuro, che nel giro di cinquant’anni avrebbero non solo colonizzato la Luna, ma già messo piede su Marte, «continuando l’esplorazione dello spazio che noi, la gente dei primi 50 anni, abbiamo cominciato».
Non sembrava proprio verosimile che di tutti i primati, gli Stati Uniti riuscissero a centrare l’unico che, in futuro, avrebbe contato veramente. Eppure è quello che accade: il 20 luglio del 1969, cinquant’anni fa, è il piede dello statunitense Neil Armstrong a toccare per primo il suolo lunare. È il mancato lieto fine dell’ultima favola russa.
Nel 2007 il New York Times pubblica la storia del dottor Ronald Citron. Ha sessantasei anni e un ricordo di bambino legato al Planetario Hayden: su un grosso libro, aveva scritto il suo nome per prenotarsi un viaggio sulla Luna. Se mai fossero partite delle navette, gli promettono, avrebbero fatto riferimento a quella lista per l’ordine di partenza dei passeggeri. Tornato a New York, più di mezzo secolo dopo, decide di andare a rivedere quel vecchio libro. Al banco informazioni, però, il personale non gli sa dare alcuna indicazione, non hanno mai sentito parlare di quegli elenchi. Era andata completamente perduta la memoria di quelle migliaia di cartoline, che pure erano ancora lì, catalogate in alcune cartelle conservate nella biblioteca del planetario.
Una vicenda che sembrava non essere mai esistita, quella di un’era in cui le persone potevano sognare di andare gratuitamente nello spazio, non come «turisti» paganti, ma come cittadini di un mondo in espansione. Nonostante le promesse fatte all’epoca, infatti, per i futuri viaggi sulla Luna non si seguirà quell’elenco.
Eppure, proprio nell’anno dell’anniversario, l’avvio di programmi di turismo spaziale come quelli per cui si era iscritto Ronald da bambino, e persino la prospettiva di una prossima colonizzazione di Marte, come quella immaginata dai compagni di Novosibirsk, sembrerebbero sempre più vicini. Passando in rassegna le cronache – anche se, a dire il vero, si tratta per lo più di annunci, o tentativi spesso falliti come nel caso del Google Lunar X Prize, competizione tra privati per inviare e manovrare un robot sulla luna, ufficialmente conclusa senza vincitori dopo oltre dieci anni a inizio 2018 – sembra di essere entrati in una nuova era spaziale, come titola l’ultimo numero dell’Economist. Ma nonostante il contraddittorio ritorno di fiamma segnato da Trump, l’era dei grandi finanziamenti pubblici, del Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 – che tra le altre cose, proibiva di rivendicare qualsiasi territorio extra-terrestre come proprio – è finita. Certo, si prepara l’apertura dell’Aurora Station, il primo hotel di lusso della compagnia Orion Span, programmata (salvo imprevisti) nel 2021-2022; ma per prenotarsi questa volta serve una caparra di 80.000 dollari.
Ai provinciali denigrati da Montanelli oltre mezzo secolo fa, si sostituisce oggi un plotone di coraggiosi imprenditori privati, una squadra da far invidia agli Avengers, che con le loro pionieristiche idee, si dichiarano pronti a colonizzare lo spazio per salvare il pianeta. Ultimo in ordine di tempo Jeff Bezos, boss di Amazon saldamente in testa alla classifica dei più ricchi del pianeta, ha avanzato l’idea di delocalizzare tutte le industrie inquinanti sulla Luna, così da avere una Terra dove «poter andare al college e fare le vacanze». Qualcosa di simile all’Offshore immaginato dalla serie televisiva brasiliana 3% – dove solo un’élite (il tre per cento appunto) poteva sfuggire all’inferno di una terra sovrappopolata e tremendamente diseguale. L’immagine di un paradiso offshore per (auto) eletti esseri superiori, viene completata dalla visione di un futuro e desolante paesaggio lunare suggerita da Cobol Pongide nel suo Marte oltre Marte. L’era del capitalismo multiplanetario. Nel libro, Pongide racconta, tra le tante cose, la storia della Bigelow Aerospace, una start-up del Nevada, che, qualora vincesse lo Space settlement prize act – una proposta di legge statunitense volta a incentivare l’iniziativa privata, premiando la prima azienda che fonderà una base lunare con 100.000 chilometri di suolo lunare:
«inizierà a costruire i propri moduli abitativi gonfiabili da usare come case dei minatori, rivendicando il possesso di 100.000 chilometri quadrati della superficie tutt’intorno ai propri alloggi, da affittare alla Moon Express o a una qualunque impresa mineraria per sviluppare un primo impianto d’estrazione dell’acqua o della regolite lunare».
Da una parte, una Terra-giardino, dall’altra una nuova classe operaia, verticalmente spedita in un altro abisso, a estrarre profitto per conto (se va bene) del 3% più ricco. D’altronde ormai il satellite è inteso come un ottavo continente da «conquistare». Il capitalismo ha bisogno di accorciare le distanze, per espandersi, riproponendo così un modello perfettamente coincidente con quello terrestre.
Cinquant’anni dopo la passeggiata di Armstrong, all’alba di una nuova era spaziale, sembrano non essere più gli astri a guidare i nostri passi, ma una logica del profitto che acceca qualsiasi altro tipo di ambizione e speranza. Un mondo senza frontiere né confini, come quello intravisto dal figlio di un falegname che era cresciuto leggendo i libri di Ciolkovskij sui viaggi interplanetari, lascia il campo alla mera riproduzione nello spazio di quegli schemi che hanno portato il nostro pianeta sull’orlo della catastrofe ambientale. Ma con tutte le sue contraddizioni, la prima era spaziale ci lascia in eredità la consapevolezza che esistono altri mondi possibili, e che per quanto sembrino distanti, l’umanità ha dato prova di saper tirare fuori il meglio di sé per raggiungerli. Quando Gagarin e Armstrong fissarono più in là l’asticella del possibile, era da poco trascorso il cinquantesimo anniversario del primo volo dei fratelli Wright. Tra cinquant’anni si guarderà forse a Musk e Bezos con la stessa ironia che suscitano oggi le capsule del tempo sovietiche. O forse no.
Non puoi vedere le bandiere imperiali, d’altronde, se non volgi lo sguardo verso l’alto.
*Elisa Albanesi è dottoranda di storia dell’arte contemporanea alla Sapienza Università di Roma.
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