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La Grande Paura rivoluzionaria

Luca Addante 5 Marzo 2020

Nell’estate del 1789, quella della Rivoluzione, la Francia venne scossa da ondate di panico e psicosi collettive: allucinazioni che finirono per ingrossare la grande marea che portò all’abbattimento della monarchia

Quella del 1789 fu un’indimenticabile estate per i parigini, dalla presa della Bastiglia all’abolizione del feudalesimo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Memorabile ma completamente diversa l’estate fu, invece, per gran parte dei restanti francesi, sconvolti dal panico indotto dalla Grande paura. Un fenomeno spontaneo e distinto dall’accelerazione rivoluzionaria della capitale. Eppure, la notte del 4 agosto che sancì la fine del regime feudale fu, sì, uno spettacolare colpo di mano parlamentare orchestrato dal Club bretone, la prima cellula dei Jacobins; ma fu anche conseguenza della Grande paura.

Le correnti di panico che tra luglio e agosto batterono in lungo e in largo la Francia furono indotte da una «suggestione collettiva», causata da quella che George Lefebvre dimostrò essere «una gigantesca falsa notizia». O meglio: una serie di voci infondate bevute da migliaia di persone, inducendole a comportamenti in cui dinamiche, mentalità, pratiche dell’antico regime produssero esiti rivoluzionari.

La Rivoluzione, quando montò la paura, aveva ormai dispiegato le vele. Il Terzo Stato, alleato a basso clero e nobiltà liberale, aveva ottenuto l’unificazione degli Stati generali nell’Assemblea nazionale costituente, segnando un punto di non ritorno nello scontro col re. Nel frattempo, un po’ ovunque il clima era già molto caldo. Tumulti agrari o contro le imposte erano scoppiati in varie zone dalla primavera. Le campagne erano falcidiate dalla carestia, la crisi s’estendeva alle manifatture e il costo della vita aumentava. Di conseguenza, la disoccupazione era esplosa e le strade francesi pullulavano di vagabondi, di mendicanti… Soggetti perfetti per incarnare i «briganti» che di lì a qualche mese sconvolsero l’immaginario.

In questo contesto s’erano diffuse le speranze accese dalla convocazione degli Stati generali, riuniti a Versailles dopo il 1614. Tra maggio e giugno si dipanò lo scontro fra il Terzo Stato appoggiato da nobili e clero avanzati, e il re sostenuto da nobiltà e clero retrivi, con l’eco che ne riverberava in provincia. I deputati scrivevano ai concittadini delle resistenze dei privilegiati, dei loro timori, incitando a organizzarsi, a prender le armi, in un climax da cui affiorò la paura di un «complotto aristocratico» per soffocare nel sangue la Rivoluzione. In luglio scoppiarono rivolte sia nelle città che nelle campagne, mentre le autorità dello Stato se la davano a gambe. Nei comuni gli antichi poteri erano spodestati o affiancati da comitati, mentre si armavano milizie a presidio del territorio. I contadini rifiutavano di pagare i diritti feudali, assaltando i castelli e mirando agli archivi, per dare alle fiamme le carte che ne sancivano la servitù. Spesso le fiamme s’estendevano all’intero castello.

In questo clima incendiario, a Parigi si propagò la voce d’un intervento di truppe a sostegno del re ed esplose la violenza dal basso, con la presa della Bastiglia del 14 luglio. In quattro giorni la notizia raggiunse tutta la Francia, alimentando entusiasmo ma pure ansia febbrile per una vendetta dei privilegiati. Dal 20 si accesero i primi focolai della Grande paura. Il momento, del resto, era assai delicato: al di là della Rivoluzione era il tempo della mietitura, con la carestia che si stagliava alle spalle. Come sempre (e non sempre invano) incombeva il terrore che dei balordi, dei «briganti» potessero tagliare il grano ancora immaturo. Lo spettro della fame, sovrapposto alla Rivoluzione, innescò una miscela esplosiva.

Dal 20 luglio – in cinque-sei epicentri distanti l’uno dall’altro, di norma per incidenti avvenuti per caso – si diede fuoco alle polveri, subito propagate dalle correnti della Grande paura. La voce prevalente volle orde di briganti impazzare al soldo dei nobili. Mutando la zona, mutavano gli assedianti: agli immaginari briganti erano affiancati, volta per volta, spagnoli, piemontesi, inglesi, usseri, mori, polacchi, dragoni… Mutava pure chi guidava le truppe, talvolta il principe di Condé, talaltra il maresciallo de Broglie, più spesso il conte d’Artois, fratello minore del re. Eppure la voce era sempre la stessa: «Stanno arrivando!».

I tumulti contro i castelli contribuivano a diffondere il panico. Visti a distanza, si pensò che fossero opera dei famigerati briganti, a dimostrazione dell’autenticità delle voci. Osserva Lefebvre: «Il popolo si faceva paura da sé». Viaggiatori, corrieri, mercanti propalavano le false notizie da un luogo all’altro. Arrivava un uomo a cavallo dicendo d’aver visto, poco distante, sgozzare donne, vecchi e bambini, per poi ripartire al galoppo. L’impulso immediato era di dare l’allarme, di suonare le campane a martello. Col rintocco incessante che richiamava alle armi nelle situazioni di crisi, colonna sonora delle rivolte d’antico regime. La paura alimentava paura. Le campane erano udite dai luoghi confinanti e l’allarme si estendeva ancor più. Un gruppo di paesani si armava, partendo per dare manforte al villaggio vicino e, da lontano, qualcuno li scambiava per briganti, dando il via a un’ulteriore corrente in direzione diversa. Il panico creava panico sempre maggiore e l’autosuggestione era moneta corrente: bastava il rumore d’una carrozza di notte; del fumo scorto in lontananza, magari causato da un contadino che bruciava le erbacce; i riflessi del sole su di una vetrata; la polvere sollevata per strada da mandrie in cammino…

Diffondendosi, le voci si arricchivano di nuovi dettagli; e come sempre la gara era aperta a chi la sparava più grossa. Esemplare l’eterno gioco dei numeri. Due poveracci attirarono i sospetti d’una vecchia, che li confidò a un giovanotto. Subito identificati in briganti, i due si moltiplicarono in 10, 300, 600 arrivando a 3 mila. Altrove, una truppa di 2 mila briganti si gonfiò, a ogni passaggio di voce, a 6 mila, 14 mila, 18 mila, raggiungendo di botto la cifra di 100 mila malintenzionati!

Pervenuto l’allarme, in molti fuggirono cercando riparo; non pochi sotterrarono prima ciò che avevano di più prezioso. Moltissimi, al contrario, al suono delle campane, alle urla di «All’armi!», accorsero, armi in pugno. Fucili per chi ne aveva, altresì falci, bastoni, coltelli, scuri, forconi… Si presidiavano le strade, ci si poneva in condizione da stato d’assedio. Nel momento in cui non arrivava nessuno, si andava nel villaggio vicino. In un baleno gli antichi campanilismi crollavano e i contadini entravano in massa nella Rivoluzione.

Dal 20 luglio al 6 agosto le false notizie alimentarono correnti impazzite che si propagarono per centinaia di chilometri, correndo di comune in comune, di villaggio in villaggio, di contrada in contrada. Passando per le vie più battute oppure penetrando foreste, scalando montagne… Chiaramente, man mano che il tempo passò senza che i briganti prendessero forma, la gente capì che era un falso allarme. Tuttavia, dopo che s’erano allertati, mobilitati, armati e messi in marcia per stanare un immaginario nemico, non era facile chiuderla con un sospiro di sollievo rientrando a casa. Talvolta ciò avvenne. Non di rado, però, si pensò che allora il complotto aristocratico fosse consistito in una beffa ai contadini, per far perdere loro una giornata di lavoro preziosa. Così, la rabbia contro la nobiltà montò ancor più e nuovi castelli furono assaltati e incendiati. Alle ancestrali ansie di vendetta del popolo si affiancavano, ormai, prese di coscienza e solidarietà rivoluzionarie.

Mentre le correnti si propagavano l’Assemblea nazionale cincischiava. Ancora il 3 agosto, di fronte alla notizia che «ovunque i castelli vengono dati alle fiamme, i conventi distrutti, le fattorie saccheggiate», la seduta si chiuse con l’auspicio che «rendite, decime, imposte, censi, canoni signorili» fossero pagati «come in passato».

Maturò allora, in febbrili discussioni notturne, il colpo architettato dal Club bretone e messo a segno la notte del 4 agosto. Aperta la seduta serale, s’iscrisse a parlare il visconte di Noailles a sostegno delle istanze contadine. Intervenne a rinforzo il duca di Aiguillon, grandissimo proprietario terriero, sostenendo che «il popolo tenta finalmente di scuotere un giogo che grava sul suo capo da secoli». L’abile tattica di far parlare per prima due nobili sortì, mirabilmente, il suo effetto. Si levarono ovazioni e una «sorta di magia» rapì l’aula. Un’irresistibile ansia d’emulazione investì nobili e clero portando, a notte fonda, alla maturazione della storica decisione, poi sintetizzata in decreto: «L’Assemblea nazionale distrugge interamente il regime feudale».

Quando si passò a tradurre in forma giuridica gli slanci di quella fantastica notte, dal 5 all’11 agosto, il dibattito fu serratissimo, mentre scemava la Grande paura. La terra apparteneva soprattutto ai nobili e al clero; ma anche al Terzo Stato. Pertanto, fu abolita ogni servitù personale, mentre il possesso feudale fu trasformato in proprietà borghese. La distinzione per ceti finiva mutando in distinzione per classi.

Un mondo nuovo, a ogni modo, estremamente più libero e meno iniquo, si profilava. Sparivano con le infami servitù personali gli infiniti e odiosi privilegi di individui e città, la vendita delle cariche pubbliche, la giustizia signorile (quint’essenza del sistema feudale), i diritti esclusivi di caccia e di pesca, il controllo di pesi e misure, le decime dovute alla Chiesa… S’affermava l’uguaglianza di fronte alla legge e alle imposte, il libero accesso agli impieghi e alla proprietà. Crollava un mondo fondato sulla differenziazione legale di una ristrettissima minoranza dalla gran massa degli abitanti, che da sudditi si avviavano a divenire cittadini sovrani.

Certo, dai diritti politici erano escluse le donne e dapprima furono limitati sulla base del censo, né può dirsi che nell’immediato le condizioni materiali di gran parte dei francesi mutassero. La servitù sancita dalla legge, comunque, finiva; mentre scoccava la prima scintilla di un fronte fra borghesia radicale e popolo che esploderà nell’alleanza fra giacobini e sanculotti di pochi anni appresso, quando anche la monarchia fu spazzata via e i diritti del popolo e i suoi bisogni ricevettero ben altre sanzioni.

Dopo secoli di «servitù volontaria», prendeva avvio per il popolo intero un percorso di apprendistato politico, scandito a un ritmo incalzante. A partire dalle giornate di ottobre, con le parigine alla testa d’un imponente corteo diretto a Versailles. Con la forza fu imposto al re di tornare a Parigi e approvare l’abolizione della feudalità e la Dichiarazione dei diritti sancite dall’Assemblea nazionale. In quella memorabile estate della Grande paura e della libertà. 

*Luca Addante è professore di Storia moderna all’Università di Torino. Si è occupato in prevalenza di movimenti e personalità del radicalismo politico e religioso, Tra i suoi libri Eretici e libertini nel Cinquecento italiano e Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato, editi da Laterza. 

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